Muzio Scevola e il modo di dire: mettere la mano sul fuoco

C’è una leggenda così famosa nell’antichità che ha poi dato origine al modo di dire mettere la mano sul fuoco, tutt’oggi utilizzato nella lingua parlata. Il protagonista della storia è Gaio Muzio Scevola. La celebre frase si usa per indicare la circostanza in cui qualcuno è davvero sicuro di qualcosa. Vediamo in questo articolo i fatti storici e le curiosità relative a quanto accadde.

Muzio Scevola mette la mano sul fuoco
Muzio Scevola mette la mano sul fuoco

L’avvenimento ci è stato tramandato dallo storico latino Tito Livio nel suo Ab Urbe condita ed è diventato un esempio di valore, coraggio e onestà. In origine il nome del giovane protagonista era Gaio Muzio Cordo, nato da una nobile famiglia romana negli anni in cui c’era stato il passaggio dalla monarchia alla repubblica (509 a.C.); si trattava di anni cruciali, in cui i romani lottavano contro gli Etruschi per la supremazia del territorio e della città.

Il contesto storico

Dopo la cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, la città scelse come forma di governo la repubblica, creando molto scontento tra la popolazione etrusca, da sempre eterna rivale. Gli Etruschi, guidati da Lars Porsenna, tentarono di riconquistare il potere perduto, sotto la supervisione di Tarquinio il Superbo, che nel frattempo si era messo alla guida delle due città di Veio e Tarquinia.

Scoppiarono così una serie di battaglie tra gli etruschi e i romani: lo scontro fu lungo e sanguinoso e durò per quasi un anno (508 a.C.).

Secondo la tradizione l’ultimo giorno del mese di febbraio ci fu la battaglia finale: essa non terminò effettivamente con dei vinti e degli sconfitti, perché secondo la leggenda ci fu una tempesta. La tradizione attribuisce la vittoria ai romani perché gli etruschi avevano perso un uomo in più.

L’impresa

Gaio Muzio era un giovane aristocratico che mal digeriva l’assalto degli Etruschi, ma soprattutto il ritorno alla monarchia. Escogitò così un piano per poter porre fine al lungo assedio della città, che stava mettendo in difficoltà la popolazione per la mancanza di grano; si presentò in Senato ad esporlo.

Secondo lo storico Tito Livio, che ne descrive il momento nella sua opera Ab urbe condita, utilizzò queste parole:

«Senatori, vorrei attraversare il Tevere e penetrare, qualora sia possibile, nell’accampamento nemico, non per compiere atti di razzia e ripagare il nemico con identica moneta. No, con l’aiuto degli déi vorrei fare qualcosa di più grande.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita

Il suo scopo era quindi quello di uccidere per sua mano Porsenna.

Il Senato espresse il consenso. Così Muzio organizzò l’impresa: nascose un pugnale sotto la veste, giunse all’accampamento del re etrusco e si confuse con la folla di soldati senza farsi scoprire. In quel momento i soldati si erano messi in fila per ricevere la paga, al cospetto dello scrivano e del re; i due erano vestiti in maniera molto simile.

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Egli, arrivato al cospetto del re e dello scrivano, non chiese quale dei due fosse il re ma sgozzò con il pugnale erroneamente lo scrivano.

Muzio Scevola davanti a Porsenna
Muzio Scevola davanti a Porsenna

A questo punto cercò di fuggire ma venne facilmente catturato dalle guardie del re, che lo portarono al suo cospetto.

Il coraggio di Muzio Scevola

Il giovane, anziché negare l’accaduto, si dimostrò molto coraggioso, nonostante il re avesse minacciato di bruciarlo sul rogo: mise la mano destra sul braciere acceso e la lasciò bruciare fino a consumarsi, pronunciando queste parole:

«Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore».

Il re rimase stupito dal coraggio del giovane. Decise così di risparmiargli la vita e lasciarlo libero.

Muzio gli rispose che altri trecento giovani avevano giurato di ucciderlo in nome della Repubblica romana e non si sarebbero lasciati intimidire, proprio come lui, terminando l’impresa al suo posto.

Secondo la tradizione, il re, spaventato da queste affermazioni, decise quindi di chiedere la pace ai romani.

I romani, per dimostrare la loro gratitudine a Muzio, gli donarono un terreno oltre il Tevere chiamato parte Mucia.

Dopo la perdita della mano destra, il suo cognome divenne quindi Scaevola, cioè mancino.

Curiosità

  • Per quanto riguarda l’etimologia, la parola Scevola sembrerebbe derivare da scaevula che indicava un amuleto contro il malocchio; esso si portava appeso al collo ed ha assunto solo successivamente il significato di mancino.
  • La leggenda, oltre che tramandata oralmente con diverse versioni, venne rappresentata anche nelle arti figurative, soprattutto in pittura: la scena cruciale è stata rappresentata da pittori del XVI-XVII secolo (Giovanni Antonio Pellegrini, Charles Le Brun, Michele Primon, per citarne alcuni); è stata dipinta anche nella Sala dei Capitani dei Musei Capitolini. Non ultimo, in Via Sallustiana a Roma c’è un frammento di bassorilievo che rappresenta una mano proprio all’altezza di un edificio, oggi utilizzato dall’ambasciata americana: secondo la tradizione corrisponderebbe al luogo dell’accaduto, proprio dove Muzio Scevola mise la mano sul fuoco.
  • La vera fortuna di questa leggenda sta proprio nel fatto che “mettere la mano sul fuoco” è diventato un motto d’uso comune; molto spesso chi pronuncia queste parole non è consapevole del fatto storico-leggendario che c’è alle spalle. Esso si collega pienamente con le origini latine della tradizione culturale italiana.

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Anna D'Agostino

Anna D'Agostino, napoletana di nascita portodanzese d'adozione, laureata in Filologia Moderna e appassionata di scrittura. Ha collaborato con varie testate come giornalista pubblicista, attualmente insegna Lettere in una scuola secondaria di primo grado.

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