Intervista a Salvatore Mercadante su Robert Capa
Ha vissuto gran parte della sua vita sui campi di battaglia, pur non essendo un soldato. La sua fama infatti è legata alla moltitudine di immagini di guerra da lui scattate in un periodo che va dal 1936 al 1954, ovvero dalla guerra civile spagnola al conflitto tra Cina e Giappone, dalle Seconda Guerra Mondiale al conflitto arabo-israeliano del 1948, infine alla prima guerra d’Indocina, dove lui, Robert Capa, è morto mettendo il piede su una mina antiuomo.
Immagini, le sue, dove si evince l’attimo per eccellenza, un momento unico, utilizzando la fotografia come importante mezzo di documentazione. Una delle sue frasi più note è questa:
Se le tue foto non sono abbastanza buone, significa che non eri abbastanza vicino.
Robert Capa
Capa è considerato il padre del fotogiornalismo moderno. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, nato a Budapest il 22 ottobre 1913. Lascia l’Ungheria nel 1931, trasferendosi a Berlino. In origine, egli avrebbe voluto fare il giornalista e lo scrittore, ma un impegno lavorativo come fattorino presso un’importante agenzia fotografica, la Dephot, lo instrada verso il mondo della fotografia.
È nel 1933 che – con l’avvento del nazismo – lascia la capitale tedesca e si trasferisce a Parigi, una città che sembra fatta ad hoc per lui. È qui che lavora come fotogiornalista e che si innamora della sua compagna, Gerda Taro, anche lei fotografa. È con lei che inventano lo pseudonimo Robert Capa. Uomo che odia la violenza e ama la pace, si definisce fotografo di guerra che sogna di diventare disoccupato.
Di seguito l’intervista al fotografo palermitano Salvatore Mercadante con cui abbiamo parlato di Robert Capa.
Intervista a Salvatore Mercadante
D: Capa, testimone dei fatti del mondo, viene inviato in Spagna per documentare la guerra civile, guerra che ha avuto una grande copertura mediatica… che possiamo dire degli scatti di questo periodo?
R: Parlare di Robert Capa non è mai semplice. Bisogna fare i conti con l’emozione che il padre del fotogiornalismo e la storia più romantica del mondo della fotografia possono suscitare. Il periodo trascorso in Spagna durante il conflitto segnò l’intera vita di Capa, fu proprio in quel periodo che fece i conti con la morte, non solo della sua amata Gerda ma anche di quella, (tanto discussa), del miliziano lealista, ripreso da capa proprio nel momento dell’uccisione.
Le foto di quel periodo mostrano la sua ferma posizione antifascista, posizione che rende i reportage di Capa e della sua compagna, particolarmente diretti e ricchi di dettagli e, grazie ai quali, la coppia otterrà grandi successi, tanto da portare Capa a fondare insieme ad altri grandi fotografi l’agenzia Magnum, una delle più prestigiose agenzie fotografiche del mondo. Un anno dopo la morte di Gerda Taro raccolse nel libro “Death In The Making” le immagini più toccanti di quel periodo e lo dedicò alla compagna scomparsa.
D: Tra i suoi scatti, molto famosi e discussi, troviamo quello intitolato “Morte di un miliziano lealista, Cordoba, Settembre 1936”, fotografia che è stata scattata vicino Cordoba, in Andalusia. Ci racconta la storia di questa foto?
R: È talmente ricca di significati da essere stata oggetto di critiche e studi e rappresenta ancora oggi la guerra in tutta la sua crudezza, il trapasso dalla vita alla morte e la concezione della morte da parte di quei combattenti per i quali era “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.
Della veridicità di questa foto si è molto parlato, nonostante il fedele racconto dello stesso Capa su come l’abbia fatta, ancora oggi non si è giunti ad una conclusione definitiva, arrivando perfino all’ipotesi che vorrebbe la foto costruita solo in parte.
Si dice infatti che Capa stesse fotografando dei miliziani in posa e che per questo siano diventati oggetto di un cecchino nemico. Ci sono numerosi studi legati ad altri ritrovamenti analoghi perfino sul formato fotografico della foto ma ritengo che la cosa che deve interessarci davvero non sia tanto il “come è stata fatta”, ma il “cosa rappresenta” e dunque la dimostrazione di un concetto che caratterizza la produzione di Capa, ovvero quello che i fatti vanno vissuti dall’interno per poterne parlare, questo modo di raccontare segnerà la nostra e la sua vita stessa.
A tal proposito mi permetto una digressione e invito i lettori a leggere le vicissitudini legate alla famosa “valigia messicana”. La “valigia messicana” è una scatola contenente spezzoni di pellicola, appunti e rullini di Capa, Gerda e Seymour (fotoreporter di grande spessore col quale Capa fonderà la Magnum, Nda) e dopo tanti anni in cui s’era persa, dal 2007 si trova all’International Center of Photography di New York e contiene circa 4000 immagini inedite di questi tre fotografi di origini ebraiche impegnati a raccontare dell’uomo e della sua guerra.
D: La compagna Gerda diventa una fotografa indipendente. Tuttavia la sua vita si spezza nel 1937, schiacciata da un carro armato repubblicano, durante una ritirata delle milizie lealiste da un mitragliamento aereo nazista. Al di là della tragica fine della donna, ci può raccontare la storia di questo amore tra Gerda e Capa fatto di complicità?
R: La storia d’amore della coppia rappresenta per me la storia più romantica della fotografia del Novecento. Accadde in Francia, a Parigi, a Settembre, in un cafè, forse il Cafè Capoulade. Chi li conobbe li descrive, belli e liberi, lui un fotografo capace ma poco conosciuto, lei una bellissima e impegnata comunista, già stata in galera per le sue idee politiche. Oltre l’indiscussa bellezza , il giovane fotografo viene rapito dall’energia che anima Gerta, questo il suo vero nome (Nda), quell’energia che durante i giorni di prigionia in Germania l’aveva resa l’idolo delle altre donne prigioniere, molti ricordano ancora quando, arrestata dalle truppe tedesche, in cella, chiese scusa alle altre detenute per l’abbigliamento troppo elegante: «scusatemi – dirà– mi hanno preso mentre andavo ad una festa».
A loro insegnò parole in inglese e francese ed a cantare le canzoni americane, rimarrà per sempre nel cuore e nelle immagini del giovane fotografo. La complicità tra i due li porterà ad inventare un espediente utile, a superare i pregiudizi razziali che iniziavano a serpeggiare tra la popolazione francese, i due ragazzi decideranno di cambiare i loro nomi per rendere meno riconoscibili le loro comuni idee politiche ed usare quel fascino che gli artisti del grande schermo riuscivano ad emanare in quegli anni. Si crede, ed io ci credo, che l’idea sia stata proprio di Gerta, la quale diede il nome di Robert Capa ad Endre, per farlo somigliare a quello del regista americano Frank Capra, e trasformando il suo in Gerda Taro, per l’assonanza con quello della famosa Greta Garbo.
Io voglio immaginarli tra le strade di Parigi sotto un cielo grigio di Settembre: lui al collo la sua macchina fotografica, lei in testa un mondo migliore ed un’idea che cambierà la loro vita. Lei darà al nuovo fotografo il nome e l’eleganza dei fotografi d’oltreoceano, lui alla nuova Gerda le basi della fotografia che la porterà a lasciare il suo lavoro come segretaria ed a diventare fotografa e compagna per sempre di Robert Capa.
Il sodalizio professionale e sentimentale tra i due fu grandissimo, li portò sul terreno di battaglia a raccontare l’umanità delle trincee e le atrocità della guerra, la morte di lei lascerà un vuoto in Capa che fino alla sua morte lo porterà a dire che lei era stata la donna della sua vita e che quel 26 Luglio era morto pure lui.
D: Può sembrare un controsenso, ma Capa testimoniava la sua simpatia per entrambe le parti del conflitto, anche se i soldati rappresentavano il nemico, per il fotografo erano sempre vittime delle strategie di guerra. È così?
R: Io credo che in Capa ci sia la voglia di documentare quello che gli uomini sono capaci di fare e vivere, del resto lo si evince nella sua frase a proposito della guerra che definisce «Un inferno che gli uomini si sono fabbricati da soli».
D: Abbiamo parlato della foto “Morte di un miliziano” tra quelle più famose. Ce ne sono tantissime, quali per lei sono le immagini più rappresentative di Capa e ne ricorda una in particolare che le è piaciuta maggiormente e perché?
R: Sono particolarmente legato a questo fotografo per le sue vicende umane e per la sua storia e trovo difficile scegliere una sola foto tra le migliaia che ho visto. Ricordo però che tempo fa andai ad una mostra dedicata proprio a lui, tenutasi a Troina, un paesino siciliano, davvero molto bello, luogo che vide Capa impegnato in uno dei suoi reportage più famosi e importanti.
Visitai il Salone che ospitava la mostra in assoluto silenzio soffermandomi davanti ad ogni foto, guardavo le immagini di quei giorni e riuscivo a percepire gli odori , i colori e i rumori della guerra, quel paesino tranquillo ed ospitale, nelle foto di Capa sembrava un inferno, di quelle stradine silenziose in cui trovai accoglienza, nelle foto di Capa c’erano solo macerie e dolore, il fotografo mi aveva appena dato un ulteriore lezione: le foto non solo narrano la storia e ne testimoniano gli eventi ma aiutano gli uomini a comprendere che possiamo perdere tutto in qualsiasi momento, perché siamo artefici di bellezza e orrore alla stessa maniera, amiamo e odiamo con la stessa intensità
Finora però l’amore ha sempre vinto, l’odio del nazismo non ha vinto sull’amore di Gerta e di Endre, l’odio gli ha poi tolto Gerta, lui ci ha donato la capacità di vedere con i suoi occhi, e sperare che quell’inferno fotografato ci faccia paura a tal punto da non farlo più tornare.