Madonna di Ognissanti, dipinto di Giotto

La sacralità dell’arte trecentesca trova l’esegesi estrema dell’immagine ieratica in Giotto di Bondone (1267-1337), sommo promotore dell’innovazione nella Firenze degli Spini, dei Frescobaldi e dei Gianfigliazzi. Una potenza concreta quella della “Maestà di Ognissanti” (1310, o Madonna di Ognissanti) di Giotto, lontana dal celestiale ed etereo mondo dell’imposto bizantineggiante, nutrito del inviolabile distacco religioso.

Maestà di Ognissanti (Madonna di Ognissanti)
Madonna di Ognissanti – Maestà di Ognissanti (Giotto, 1310)

Matrona secolare del cielo e della terra, la Madonna di Giotto porta in sé l’avanguardia ancora nascente di una pittura nuova, nel superamento della grandezza dei supremi pittori dell’arte toscana, e nel costante raffronto con la “Madonna Rucellai” (1285-1285) di Duccio di Buoninsegna (1255-1318) e la “Maestà di Santa Trinità” (1280) di Cimabue (1240-1302), all’insegna di un’emergente poetica pittorica dallo spirito lungimirante.

Il contrasto fervente tra i maestri dell’arte fiorentina, nel critico punto di un’evoluzione graduale verso i requisiti di una mentalità nuova, apre il dibattito visivo in una sala della Galleria degli Uffizi, nella completa immersione del medesimo motivo sacro e nella comprensione immediata delle divergenze stilistiche e interpretative dell’arte trecentesca.

Madonna di Ognissanti: note tecniche e descrittive

Il criticismo erudito del mondo accademico, suole individuare nella pala fiorentina di Ognissanti una realizzazione anteriore al periodo padovano, in un’insolita quanto unica contrarietà di ambito cronologico, nella più ampia certezza degli stabili riferimenti dell’arte giottesca, evidenza che si individua, ad esempio, nei sublimi affreschi dell’Arena o di Santa Croce.

Una considerazione notevole, quest’ultima, se si pensa che non esistono legami anticipatori e premonitori che ricollegano la “Maestà di Ognissanti” alla Madonna della Cappella degli Scrovegni di Padova (1305), tanto meno negli affreschi della basilica superiore di San Francesco d’Assisi (1290 circa).

Risulta dunque di scarsa importanza, ai fini di un nuovo sbocco conoscitivo, paragonare la Madonna fiorentina all’affresco della Madonna del tondo assisano (“Madonna col bambino ridente“,1290) che, conseguito presumibilmente solo in parte da Giotto, esprime perfettamente un particolare momento stilistico nella Chiesa Superiore di Assisi.

Madonna col Bambino ridente (affresco di Giotto)
Madonna col Bambino ridente: affresco (diametro: 110 cm, 1291-1295 circa) attribuito al giovane Giotto. L’opera è situata sulla controfacciata della Basilica superiore di Assisi.

L’evoluzione del capolavoro giottesco assume un maggiore valore cognitivo nel confronto dell’opera con le realizzazioni precedenti e successive.

La “Madonna col bambino ridente” posa leggermente di tre quarti, in contrapposizione con il Bambino raffigurato di profilo, in una combinazione spaziale che convoglia le figura nel piano della parete, finendo per conferire piena frontalità all’intera rappresentazione pittorica e non raggiungendo, di fatti,

“quel maggiore aggetto della Madonna che proprio stava all’origine dell’imposto in tralice” (BRANDI).

Fuga in Egitto - affresco di Giotto - Cappella degli Scrovegni Padova
Fuga in Egitto“, affresco (200×185 cm) di Giotto, 1303-1305 circa. L’opera è parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. I personaggi protagonisti della scena centrale sono la Madonna con il Bambino.

Nella Madonna di Padova le figure sono proiettate in direzione dello spettatore grazie alla resa di una rigida frontalità e un rigore prospettico colmato dalla densità di un evidente chiaroscuro, che fallisce all’origine il senso del rilievo plastico, scultoreo.

Giotto superò i limitati confini dell’imposto frontale nella “Madonna di Ognissanti dove, nella piena intuizione di un fare nuovo, optò per una nuova resa del rilievo plastico: la Madonna siede di fronte, ma il busto risulta essere leggermente ruotato, così che il viso riprenda la posa corporale in un’efficace risolutezza di trequarti, l’unità plastica emerge fortemente, concludendo il suo corso nella resa della tunica dalle forti e decise pieghe diagonali, quasi a voler indicare, nella loro rigidezza grafica, le direttrici del movimento che, pur in assenza della densità chiaroscurare della Madonna padovana, acquistano un’enorme intensità plastica, nel pieno accordo con la solidità sacrale del manto nero.

La testa della Vergine si inclina pietosamente in direzione della divina spalla, assecondando in tal modo il movimento avvolgente delle pieghe del manto, le quali arditamente e geometricamente si dispongono in una curva concentrica rispetto alle pieghe del busto.

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Madonna di Ognissanti - Giotto
Madonna di Ognissanti: dettaglio del volto della Madonna e del Bambino, con le loro aureole

Nella “Madonna di Ognissanti” lo sguardo perde la rigidezza dei capolavori padovani, e le palpebre si orientalizzano inflettendosi e allungandosi nell’adattamento plastico alle tempie della Sacra Vergine; la sporgenza del naso viene attenuata, qualità anatomica che conferisce camusità al volto, consentendo di mantenere intatta e chiusa la maschera ovale.

La rivelazione di tali elementi non permette con certezza di riferire la “Maestà di Ognissanti” ne al periodo fiorentino ne quanto meno a quello Padovano, ma risulta utile a comprendere che il problema plastico presente della produzione padovana e assisana, viene completamente superato e risolto nella “Maestà di Ognissanti”.

Un aspetto interessante e utile a definire l’evoluzione concettualmente operata da Giotto nell’ambito della pittura trecentesca è la resa delle aureole: Giotto ritornò, nella pala fiorentina, all’uso dell’aureola frontale, dopo aver usato le aureole in scorcio nell’Arena, probabilmente a causa dell’accentuazione dell’indirizzo plastico; le aureole a scorcio risultavano legate ad una spazialità squisitamente naturalistica, da cui Giotto si allontana nel momento in cui si precisa in lui la volontà di definire plasticamente e in un modo profondamente netto i piani paralleli al piano del dipinto.

Le aureole di scorcio richiedevano delle direzioni prospettiche, le quali erano spesso in contrasto con le risoluzioni plastiche, spesso frontali, a cui Giotto mirava; l’abbandono di una resa prospettica, dalle finalità audaci e moderne dei nimbi in scorcio, aiutava a scalare i piani frontali, “come dischi prospettici indicatori” (BRANDI).

Tale scelta tecnica non sarà abbandonata nemmeno nella famosa cappella Bardi, nella quale nella rinuncia all’aureola in scorcio adottò sempre, ai fini non naturalistici, un altro “diretto imprestito della natura“: le ombre importate erano state per lungo tempo usate dalla pittura antica, soprattutto bizantina, per ritornare in auge con Giotto, e infine nel Rinascimento grazie all’opera pittorica di Masaccio (1401-1428).

Da questa breve analisi appare chiaro quanto sia stato forte e radicale il mutamento provocato da Giotto nell’ambito della pittura toscana del Trecento.

La novità si ricongiunge agli stilemi arcaici nell’opera giottesca, riportando il bizantinismo nelle corti orientali nell’uso arcaico del fondo oro e del forte contrasto tra luci e ombre.

Genesi dell’opera

La tavola cuspidata venne conseguita da Giotto per la Chiesa di Ognissanti, a Firenze. La presenza del capolavoro giottesco nella basilica fiorentina è testimoniata dalla citazione della tabula all’interno di una breve descrizione fatta da Lorenzo Ghiberti (1378-1455) nel trattato dal titolo “I commentarii”, del 1455:

L’opere che per lui furon dipinte in Firenge: […] Humiliati in Firenge era una capella, e uno grande crocifixo et quattro tauole fatte molto excellentemente; nell’una era la morte di Nostra Donna con angeli et con dodici apostoli et Nostro Signore intorno fatta molto perfectamente. Eui una tauola grandissima con una Nostra Donna a’ssedere in una sedia con molti angeli intorno; eui sopra la porta ua nel chiostro una mega Nostra Donna col fanciulloin braccio.

L’opera venne nuovamente menzionata nel 1418, ovvero l’anno di cessione dell’altare a Francesco di Benozzo.

L’importanza di Giotto si rivela nella presenza dello stesso nella “Divina Commedia” di Dante Alighieri, quale genialità lapalissiana dal sapere pittorico indiscusso, superiore a quello del maestro Cimabue:

Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.

(Purgatorio, XI, 94-96)

Note Bibliografiche

L. Covazzini, Giotto, Giunti, Firenze, 1996
A. Tomei, Giotto: la pittura, Giunti, Firenze, 1997
C. Brandi, Tra Medioevo e Rinascimento: scritti sull’arte di Giotto e Jacopone da Todi,
Jaca Book, Milano, 2006
L. Ghiberti, I commentarii, im verlang von Julius Bard, Berlino, 1912

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Simona Corciulo

Simona Corciulo nasce a Gallipoli il 5 maggio del 1992. Appassionata di arte e antiquariato, ha conseguito la laurea in ''Tecnologie per conservazione e il restauro'' nel 2014. Fervida lettrice, ama scovare e collezionare libri di arte, storia, narrativa - italiani e stranieri - desueti o rari.

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