J. Edgar Hoover – Una riflessione sul film
J. Edgar Hoover è uno dei personaggi più controversi e più complessi della storia politica americana del XX secolo. Una storia fatta di luci e ombre, dove il potere del ricatto e del sospetto hanno, in alcuni casi, giocato un ruolo fondamentale nella scelte politiche e nelle lotte di potere. Uno degli uomini al centro di tante questioni controverse è stato appunto Hoover creatore e capo dell’FBI per 50 anni. Sotto di lui il Federal Bureau è diventato uno degli istituti di polizia più importanti del mondo.
E’ stato, infatti, Hoover a voler creare il primo archivio al mondo delle impronte digitali, a fondare e organizzare un’accademia fra le più rigide al mondo per la preparazione dei futuri agenti e pretendere dai suoi agenti una disciplina ferrea e una dedizione al lavoro pressoché totali; come lui non aveva altro che il suo ufficio che scandiva la sua dedizione quotidiana alla lotta al crimine.
La sua figura e il suo profilo psicologico non sono semplici da inquadrare, soprattutto in chiave storica. Ci ha provato il regista Clint Eastwood nel suo film “J. Edgar” (2011). L’attenzione è sulla figura pubblica e privata di Hoover. E la ricostruzione interpretativa è affidata a Leonardo Di Caprio. La trama si sviluppa dai primi anni di carriera del capo dell’FBI, quando di fatto il Bureau non esisteva ancora e lui muoveva i suoi primi passi nel Dipartimento di Giustizia, fino agli ultimi anni del suo potere quando la sua creatura è un’istituzione di prestigio e il suo potere è incontrastato.
Il percorso storico è interessante perché attraversa mezzo secolo di storia americana descrivendo momenti bui e momenti luminosi in cui la giustizia e il giustizialismo si intrecciavano in modo non sempre efficace e non sempre equilibrato. L’impasto che crea Eastwood unisce e confonde il potere politico con la lotta al crimine e la protezione dei cittadini con il ricatto e il controllo della privacy. Gli ultimi anni di Hoover sono, infatti, quelli più difficili da definire in cui la sua lotta contro il crimine, il terrorismo e il comunismo ha preso strade pericolose rendendolo un uomo molto potente: aveva un archivio ricchissimo che documentava la vita di stars del cinema, uomini politici, industriali e intellettuali ecc… e che non fu mai trovato.
Il taglio che Eastwood da al film imposta una teoria già predefinita sull’uso del potere e sul ruolo dell’FBI che malgrado i tanti successi ne esce con una macchia sull’operato del suo direttore. Ma l’attenzione troppo forte sul personaggio ricorda il Richard Nixon di Oliver Stone che si trasforma durante il film in una caricatura eccessivamente negativa. Così succede in questo film, comunque interessante per la sceneggiatura, dove però Hoover appare come un personaggio caricaturale, quasi un fumetto, che gestisce e sporca la storia americana la quale sopporta i suoi peggiori personaggi rimanendone sempre immacolata.
Questa è anche la forza di un certo cinema e di una certa cultura americana in cui sembra che i peggiori personaggi non nascano mai dalla società e dalla cultura degli States ma siano solo degli sgradevoli e passeggeri incubi da metabolizzare e da isolare dalla sacra storia americana.