Madonna Litta
Il volto candito e i capelli morbidamente intrecciati definiscono i tratti della Madonna leonardesca, nella rilucente luce dell’atmosfera purificata di un paesaggio montano dove, nella riparata ombra di un’architettura sconosciuta, si consuma la sacralità dell’intimità materna. La “Madonna Litta” (1481) deve la sua sfolgorante e per certi versi oscura fama a quella buona dose di ambiguità che spesso accompagna le opere di Leonardo da Vinci, e che fino a qualche decennio fa impediva di stabilire con certezza l’identità dell’autore.
Lo sguardo autentico dell’infante Redentore orientò la propria attenzione tra gli spettatori più colti dell’aristocrazia milanese, commuovendo ed eccitando la sensibilità dei membri più istruiti della casata visconti, fino ad arricchire di lustro italiano le prestigiose collezioni della reale famiglia Romanov. La tavola è ora esposta nell’Hermitage di San Pietroburgo, insieme alla “Madonna Benois” (1478), nella sala dedicata a Leonardo.
Approfondimento
Genesi dell’opera
Il quadro conosciuto come la “Madonna Litta” fu conseguito da Leonardo da Vinci nel 1481, onorando, in questo modo, l’ipotesi molta accreditata che vagliava il dipinto come contemporaneo all’ “Adorazione dei Magi“. A quanto attestato dai manoscritti autografi, Leonardo raggiunse la corte sforzesca all’età di trentotto anni, prestando il proprio genio alla risoluzione di una seria di problemi idrici legati all’imponete realizzazione dei navigli, voluti dagli Sforza per favorire l’arrivo delle merci, attraverso il Ticino e il Po, sia a Milano che a Pavia.
Il dipinto su tavola venne commissionato dalla nobile famiglia Visconti, per poi raggiungere le blasonate collezioni dei duchi Litta, nel corso della seconda metà del Settecento. Il capolavoro ligneo lasciò i palazzi del patriziato milanese per essere venduto, nel 1865, da Antonio Litta Visconti Arese (1748-1820), Grand’Ufficiale della Legion d’Onore e Cavaliere del Toson d’oro, allo zar di Russia Alessandro II Romanov (1818-1881), il quale esercitò la personale passione artistica riponendo l’illustre tavola rinascimentale nelle pinacoteca reale, fino all’esposizione nell’Hermitage dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Controversia sull’autore
L’enigma, come spesso accade per vicende associate alla vita del pittore, non risulta essere facilmente sbrogliabile, di fatti, nell’ottica di una generale attribuzione leonardesca, sono in molti ad intravedere nel mistero davinciano la figura di un allievo: Giovanni Antonio Boltraffio (1467-1516) si raffigura come il candidato numero uno nel conflitto sull’assegnazione, coronando il traffico di argomentazioni con la conferma della sua presenza, a partire dal 1482, nella bottega milanese di Leonardo, testimonianza comprovata da un’annotazione fatta dallo stesso maestro toscano nel “manoscritto C”, serbato nell’Institut de France.
Leonardo soleva abbandonare la stesura di un dipinto a metà della realizzazione, lasciando l’opera nello stato di incompletezza fino a quando non avesse avuto il tempo di ultimarla.
In molti casi tale scelta risultava vincolata alla necessità, come nel caso della “Monna Lisa” (“Gioconda”, 1503-1517), di portare con se il proprio capolavoro, vantando ed esibendo il proprio genio attraverso lo sfoggio di tavole preparatorie o tele semiconcluse, stratagemma moderno e industrioso da autorizzare la committenza al pieno apprezzamento delle sue creazioni.
La difficoltà esegetica germina dall’eccezionale combinazione di elementi, probabilmente dovuti ad un’esecuzione combinata di maestro e discepolo, tale da rendere in ogni modo arduo riconoscere l’ “opera magistralium”:
“la preferenza per una veduta ordinaria, la manchevole tipicità degli abiti sacri, la finitura lucida certamente tradiscono una mano dalle capacità inferiori” (FEINBERG).
Il dibattito volge, ancora una volta, al favore del Boltraffio se si procede nell’analisi delle ombre che, nella concezione di origine leonardesca, colmavano l’assenza di luce elargendo profondità sulla superficie dei corpi, al contrario di quanto si riscontra nella tavola presa in esame, dove l’uso delle ombreggiature risulta lontano dallo studio dei colori e dalla fenomenologia dei loro riflessi, con un gradazione delle tinte scure in quelle chiare eccezionalmente netta, priva del classico sfumato leonardesco.
M. A. Gukovskij (1898-1971), tra i massimi esperti sovietici sul Rinascimento italiano, operò un confronto fra la “Madonna Litta” e i dipinti autografi di Leonardo custoditi al Louvre: le analisi dello studioso russo non portarono particolari avanzamenti e chiarimenti su chi potesse essere l’autore della tavola, definendo, nonostante questo, un dettaglio importante e allo stesso tempo vano ai fini dell’accertamento; Gukovskij evidenziò una considerazione tecnica significativa notando l’utilizzo della tempera anziché del colore ad olio abituale di Leonardo, sebbene una tesi del tutto ipotetica sia inesplicabile da tollerare in mancanza di un esame scientificamente comprovato.
La straordinarietà della tavola lega le proprie intime manifestazioni leonardesche a pochi elementi che, nell’innegabilità di alcuni tratti distintivi del maestro fiorentino, declinano la paternità dell’opera a Leonardo da Vinci, escludendo in ogni suo elemento generativo l’intervento del milanese Boltraffio: la peculiarità della progettazione del disegno e la raffigurazione del Bambino in quella singolare torsione del busto, dall’evidente perizia anatomica, fanno si che il dipinto venga tuttora esibito al pubblico dell’Hermitage come la creatura pittorica di Leonardo da Vinci.
Un curioso dettaglio rivela l’inclusione nella tavola di una simbologia ridondante nella produzione del da Vinci: il motivo sacro del divino amore materno, nella brutale cognizione del figlio quale agnello nelle mani di Dio, risiede nel cardellino ritratto sul grembo di Gesù Cristo, nello spazio protetto di un abbraccio infinito.
La scelta ornitologica deve le sue ragioni nell’antico simbolismo che associa quest’uccello alle spinte e ai cardi, dunque al tema biblico della passione di Cristo e alla figura del Cristo Salvatore.
Madonna Litta: note tecniche e descrittive
L’iconografia della Vergine con Bambino fu numerose volte un soggetto scelto e prediletto nei disegni e nei dipinti di Leonardo, in modo particolare nell’ottavo decennio del Quattrocento, nel suo peregrinare tra Milano e Firenze. Leonardo seppe dimostrare, nella fragilità del suo spirito esitante, il talento e la tenacia nella scelta del motivo bucolico.
Le dolomiti – come nel caso della “Vergine delle Rocce” (1483-1486), la “Gioconda” e “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino” (1510-1513) – sono visibili dagli archi alle spalle delle due figure e, stagliandosi in un paesaggio brullo e irrigato da fiumiciattoli azzurri, riportano in auge dei dettagli riscontrabili in gran parte dei capolavori leonardeschi, quale frutto dei numerosi viaggi giovanili in Friuli, attraverso i quali seppe elaborare una memoria eterna fatta di picchi e insolite colline.
Tali deduzioni risolvono la questione sulla collocazione cronologica, portando a coniugare il paesaggio montano del dipinto dell’Hermitage con il periodo giovanile dei viaggi nel nord Italia, consentendo di poter situare con certezza il capolavoro nella prima fase della formazione artistica.
La produzione pittorica leonardesca è sempre anticipata da una fase preparatoria dove, nell’intenso studio di luce, forma e colore, si elabora un disegno che anticipa, su grandi linee, la stesura finale del dipinto; è questo il caso dello “Studio per una testa di Vergine”, realizzato nel 1481 e tuttora custodito al Louvre.
Note Bibliografiche
L. Feinberg, The young Leonardo: Art and Life in Fifteenth – Century Florence, University Press, Cambridge, 2011
E. Münz, Leonardo da Vinci, Parkstone, Londra, 2011
L. Castellucci, Leonardo, Electa, Milano, 1993
A. D. Brown, Madonna Litta : 29. lettura vinciana, Biblioteca Leonardiana, Città di Vinci, 1989