I sommersi e i salvati: riassunto del saggio di Primo Levi
Primo Levi è uno degli scrittori più importanti che il nostro Paese ha conosciuto nel corso del Novecento. Il suo nome è legato soprattutto al romanzo “Se questo è un uomo” (pubblicato nel 1947) in cui racconta la sua esperienza come deportato nel campo di lavoro di Monowitz, ad Auschwitz. Ma vi sono anche altre opere scritte da questo autore torinese (che è stato anche un valido giornalista) che meritano attenzione, come il saggio scritto nel 1986, prima di togliersi la vita, intitolato “I sommersi e i salvati”.
Approfondimento
I sommersi e i salvati: riassunto e storia
Nella prefazione dell’opera, Primo Levi ci tiene a puntualizzare che il suo punto di vista non è quello di uno storico; per cui nel saggio vengono riportate per lo più considerazioni, non essendovi alcuna documentazione reale dei fatti accaduti. Nel testo infatti sono presenti riflessioni e opinioni che accomunano i reduci dalla drammatica esperienza dei lager. In particolare, emergono i ricordi, i sentimenti e le emozioni che i sopravvissuti hanno sentito fortemente sulla propria pelle, anche a causa delle violenze subite.
Memoria e Ricordo
L’autore, nel suo saggio I sommersi e i salvati, parla dell’importanza della Memoria e del Ricordo per noi uomini. Purtroppo, però, i ricordi tendono a sbiadire nel corso del tempo, oppure si alterano per svariati motivi. Rievocare il dramma del Lager provoca forte disagio sia a chi lo ha vissuto da vittima che per l’oppressore.
Quest’ultimo, in particolare, cerca di dare (ma invano) una giustificazione agli scellerati gesti compiuti all’interno di quei luoghi maledetti dove milioni di uomini hanno perduto la loro dignità.
“Ho agito perché non potevo sottrarmi al comando, perché ero stato infarcito con slogan e manifestazioni e mi è stata tolta la capacità di discernere, ecc”.
Per non restare schiacciato dal peso di ciò che ha fatto l’oppressore si costruisce una realtà di comodo cercando di convincere sé stesso e poi gli altri che ha agito “in buona fede”.
Le vittime invece solitamente alterano i ricordi di una esperienza così dolorosa per evitare di soffrire ancora. Ma c’è una differenza che Primo Levi mette in evidenza: mentre i politici, i combattenti e coloro che hanno sofferto di meno hanno provato un senso (legittimo) di liberazione una volta usciti dai lager, in tutti gli altri (la maggioranza) prevale un senso di abbattimento e vergogna che dura molti anni.
Alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento non hanno retto al peso dei ricordi e si sono suicidati. Nei lager non avvengono suicidi semplicemente perché si è impegnati a sopravvivere e il senso di colpa viene continuamente soffocato dalle violenze e punizioni inflitte.
Una volta usciti, poi, il senso di colpa di non aver fatto nulla per ribellarsi al sistema che li ha soggiogati, torna a fare capolino. E per alcuni può essere talmente forte da portare al suicidio.
Chi sono i Salvati
I sopravvissuti ad un Lager provano vergogna anche per l’egoismo assoluto che ha contraddistinto il periodo trascorso all’interno di questi terribili luoghi: non si aveva tempo o possibilità di badare agli altri, ma soltanto a sé stessi. Levi dice che “i salvati non erano i migliori”.
Purtroppo a sopravvivere erano spesso gli egoisti, le spie, i loro collaboratori, le persone più malvagie e senza scrupolo.
Chi si è salvato da un lager ed ha un animo sensibile sente su di sé tutte le colpe del mondo, soffre anche per quello che altri hanno commesso al posto suo.
La Violenza gratuita
Primo Levi sottolinea in modo magistrale nel saggio anche un altro aspetto importante: la violenza gratuita e inutile perpetrata alle vittime all’interno dei campi di concentramento. Un tipo di violenza inferta al solo scopo di provocare la sofferenza negli uomini, non “giustificata” da una guerra o da altri scopi pur ignobili.
Nell’ultima parte del saggio l’autore si sofferma a rispondere ad alcune domande che gli hanno posto fino alla fine dei suoi giorni:
- “perché non siete scappati?”
- “perché non vi siete ribellati a ciò che vi stavano facendo?”
Primo Levi ha risposto che, per come erano organizzate le cose nel Lager, ogni tentativo di fuga o ribellione sarebbe miseramente fallito, portando con sé soltanto conseguenze ulteriori di violenza e sopraffazione.
Molto interessante è la distinzione che lo scrittore sopravvissuto al campo di concentramento fa dei prigionieri.
Riferendosi a quelli che da vittime si trasformano in collaboratori ed oppressori, lui li definisce essere in una “zona grigia”. C’è anche un caso limite di collaborazione nei Lager, che Levi individua nelle “squadre speciali”. Si tratta di prigionieri a cui veniva affidata la gestione dei forni crematori, in cui di volta in volta le vittime venivano uccise.
L’autore ci tiene poi a citare alcune persone specifiche, che hanno condiviso con lui l’atroce esperienza della prigionia: l’amico Alberto, Chaim Rumkowski (uno dei “dittatori” del ghetto di Lodz), l’intellettuale ebreo Hans Mayer, Mala Zimetbaum (la prigioniera che tenta di fuggire con un prigioniero politico), il compagno Daniele.