Il passero solitario
“Il passero solitario” è uno dei grandi idilli del poeta italiano Giacomo Leopardi. Scritto nel 1831, nell’edizione napoletana Leopardi collocò questa poesia prima dei piccoli idilli, composti tra il 1819 e il 1821. “Il passero solitario” è il canto della solitudine del giovane poeta, che si sente escluso dalla società. Per compiere una breve analisi possiamo dividere il canto in due parti: la prima parte è descrittiva e narrativa, mentre la seconda parte è riflessiva.
Nella prima parte (vv.1-44) Leopardi fa un paragone tra il passero e lui stesso. L’uomo, come il passero, vive in solitudine: il passero vive solitario ed appartato dagli altri uccelli, lo stesso fa il poeta, che si isola dagli altri uomini, vivendo solitario e appartato. Così nel giorno della festa, mentre gli altri giovani del borgo partecipano, il poeta si sente estraneo.
Nella seconda parte (vv.45-fine) il poeta compie un’analisi della differenza tra lui e il passero. Quando il passero finirà la sua vita, non potrà rimpiangere di essere vissuto da solo, perché il suo modo di vivere è frutto dell’istinto naturale. Al contrario, il poeta quando arriverà alla vecchiaia, rimpiangerà di aver sciupato la sua giovinezza in solitudine: si pentirà pertanto della sua scelta triste.
Testo completo de “Il passero solitario”
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede la sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra
. Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni nostra vaghezza
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
Ahi pentiromi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
ho amato sempre Leopardi il mio poeta preferito..malinconico sincero chiuso nel suo dolore e capace di trasmettere emozioni fortissime