Perché si dicono le parolacce?

Dobbiamo ammetterlo, le parolacce scappano a tutti e sono entrate nel linguaggio comune tanto che quasi non ci facciamo più caso. In Parlamento, per esempio, i deputati e senatori si lasciano spesso sfuggire termini non proprio “politically correct“, richiamando i facili costumi di qualcuna di loro o sottolineando qualità della madre di altri. Ma anche il turpiloquio ha un senso e una ragione di esistere, se pensiamo che affonda le radici nell’antichità.

Le parolacce sono spesso accompagnate da gesti
Accompagnate spesso da gesti, le parolacce trovano la loro genesi nell’antichità

Aristofane, autore e commediografo dell’antica Grecia, utilizzava le parolacce nei suoi discorsi e opere (siamo nel 400 a.C.); anche il sommo poeta Dante cita qualche termine non proprio ortodosso in uno dei canti dell’Inferno. Poeti e scrittori più recenti,come Gioacchino Belli, hanno fatto delle espressioni triviali il loro cavallo di battaglia.

Quando si pronuncia una parolaccia, soprattutto in contesti in cui sarebbe meglio trattenersi, si rompono le convenzioni che ci sono state imposte fin da bambini, e che abbiamo immagazzinato dentro di noi tra le “cose che non si fanno”. In genere le espressioni colorite e volgari si riferiscono ad argomenti tabù che non vengono affrontati dalla maggior parte delle persone per timore di infrangere le regole della morale comune, per esempio il sesso.

La parolaccia crea una rottura con lo schema linguistico cui siamo abituati e mette in evidenza la parte più nascosta di ciascuno, quella parte che in genere tende a rimanere nascosta perché non accettata dalle regole sociali o dalla stessa coscienza. Dal punto di vista psicologico, pare che le parolacce facciano bene, perché aiutano a fare uscire l’energia accumulata e trattenuta, tramutatasi in frustrazione, paura, rabbia ed altri simili sentimenti. In molti casi dire le parolacce è un modo per lasciare andare un’emozione “scomoda” con la quale non si vuole più convivere.

L’opinione comune ritiene che le parolacce e le espressioni colorite e triviali andrebbero bandite del tutto o limitate ad alcune circostanze, ma in alcuni casi servono a rallegrare l’atmosfera, a rendere un ambiente più piacevole e familiare, per esempio in una serata tra amici. Anche i comici, in televisione, ricorrono spesso alle parolacce per suscitare l’ilarità di chi li ascolta.

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Oggi la tv è piena di parolacce, e spesso si superano i limiti della decenza: basti pensare che la trasmissione “Radiobelva” (in prima serata su Rete 4 nell’ottobre 2013) è stata chiusa dopo una sola puntata proprio a causa del linguaggio poco elegante utilizzato dai conduttori.

Dal punto di vista scientifico, si è scoperto che l’emisfero destro del cervello è quello deputato ad immagazzinare le parolacce, mentre in quello sinistro avviene lo sviluppo del linguaggio in generale. Proprio per questo motivo, chi ha perduto la memoria a causa di traumi o incidenti, di solito non dimentica le parolacce.

E’ importante pronunciare le parolacce con un certo stile, cioè evitando di ferire, offendere o irritare gli altri. Ecco perché è sempre consigliabile valutare il contesto in cui si trova, prima di lasciarsi andare con le parole: si corre il rischio di essere fraintesi e di pentirsi successivamente di quello che si è detto.

Le parolacce fanno ormai parte del linguaggio comune, e c’è anche chi ha scritto un libro sull’argomento, ripercorrendo la “storia della parolaccia” attraverso i grandi autori della storia, compreso Roberto Benigni. Un saggio interessante, che fa luce sui motivi per cui si dicono le parolacce e sugli effetti che hanno su chi ci ascolta. L’autore è Vito Tartamella, il libro si intitola: “Parolacce. Perché le diciamo, cosa significano, quali effetti hanno”, Edizioni Bur.

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Cristiana Lenoci

Cristiana Lenoci è laureata in Giurisprudenza e specializzata nel campo della mediazione civile. La sua grande passione è la scrittura. Ha maturato una discreta esperienza sul web e collabora per diversi siti. Ha anche frequentato un Master biennale in Giornalismo presso l'Università di Bari e l'Ordine dei Giornalisti di Puglia.

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