Matto, pazzo, persona mentalmente disturbata: differenze e uso corretto dei termini
Il matto, letteralmente, è colui che perde l’uso della ragione. È una parola che ha origine sin dal tardo latino mattus, “matus” (ubriaco). Per esempio Boccaccio e Dante usano questa parola per indicare uno stolto, uno stupido. Mentre secondo il dizionario Treccani è un sinonimo di pazzo o folle.
In altre parole matto è la persona che fa discorsi strani, irragionevoli, assurdi, e che si comporta in modo anormale.
Approfondimento
Matto, in senso positivo
Ma matto è anche colui che è considerato una persona bizzarra e stravagante o allegra in modo spensierato: in questo caso rappresenta un giudizio positivo, di simpatia. Come dire, è un mattacchione, ad esempio.
Una parola in disuso
La parola matto non viene quasi più usata. Sono tanti i motivi. Si tratta di un termine troppo generico e impreciso, che prescinde dal tipo di disturbo mentale di cui si sta parlando. E poi è svilente, proprio perché tende ad identificare la persona e la sua malattia. Matto come psicolabile o ancora pazzo sono parole pericolose socialmente, che non dicono nulla, anzi si allontanano dalla sofferenza che dovrebbero in qualche modo rappresentare.
Aldilà della malattia mentale, si è e si resta persone, cittadini.
Le conseguenze dell’uso scorretto
Invece usando la parola matto o i suoi sinonimi non si fa altro che ghettizzare la persona, togliendole spazio sociale e anche la speranza di una vita normale, fatta di una speranza di guarigione.
Come è stata usata la parola matto negli ultimi quarant’anni?
A spiegarlo è stato Giorgio Pisano, soprannominato il “cronista del manicomio”, definizione che lui stesso fa di sé. E’ stato lui a seguire per la prima volta negli anni Settanta le storie dell’ospedale psichiatrico Villa Clara a Cagliari.
Ecco la sua testimonianza:
“Un matto era uno che non contava più niente, che aveva perso il suo ruolo sociale con l’aggravante di poter essere pericoloso”.
Spiega poi:
“La gente generalizzava: depresso o schizofrenico potenzialmente aggressivo non faceva differenza. Era solo un matto e come tale doveva stare rinchiuso, messo nelle condizioni di non nuocere”.
L’esperienza di una poetessa
Anche Alda Merini ha raccontato attraverso la poesia la condizione dei “matti”, tra torture e orrori che la stessa autrice ha subìto negli ospedali psichiatrici:
“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”.
Un ritratto della situazione amara che si respira fuori, fuori dalle mura di un ospedale, in cui viene assegnata un’etichetta. Tuttavia, dopo la Legge Basaglia (che prende il nome dallo psichiatra e neurologo Franco Basaglia), la parola matto ha perso il connotato negativo. O almeno in parte.
Matto o pazzo?
Difficile stabilire quale parola porti con sé il pregiudizio dell’incurabilità. Di certo però la parola matto ha meno cattiveria di pazzo. Così come spiega Massimo Cirri, psicologo e giornalista conduttore di Caterpillar su Radio 2, che dice:
“Non mi piace la parola matto e neppure pazzo o psicolabile. Sono parole larghe, sconfinanti, parole che si mangiano tutto. Inglobano la vita delle persone e non dicono nulla della sofferenza che dovrebbero rappresentare”.
A pensarla come lo psicologo Cirri, anche Luigi Attenasio, che è il direttore del dipartimento di Salute mentale dell’Asl Roma C, presidente nazionale di Psichiatria Democratica, nonché autore di libri come “Cronaca di una liberazione. Da Matti a Cittadini d’Europa”.
“Dico matto perché lo sento più affettuoso e meno cattivo di pazzo”.
Dice lo psichiatra.
“Il vocabolario della psichiatria è un vocabolario di epiteti. Le parole che si usano con queste persone sempre sottendono un danno che gli facciamo. Dobbiamo considerare che ci sono persone che possono sentirsi offese da questa parola se, a causa di questo loro essere un po’ matti hanno perduto affetti, casa e lavoro, hanno pagato un dazio”.
Le parole da evitare sempre
- Squilibrato;
- psicolabile;
- folle.
Sono parole che vengono immediatamente collegate alla persona socialmente pericolosa. Su questo si sofferma ancora Cirri e dice:
“Il raptus è sempre di follia, mai di sanità. L’insano gesto si usa molto. Il rischio del gesto di follia è che tutta la questione viene risolta in una patologizzazione. È un gesto crudele, cattivo, è proprio necessario ricondurlo alla dimensione di una sofferenza? Ci sono altri sofferenti che non includono questo nella loro sfera di comportamenti. Perché dici che è un depresso che ha ucciso la famiglia e non che è un medico, un ragioniere, un cinquantenne…Non si deve andare per automatismi che riproducono stereotipi, seppur nella necessità della concisione, dei titoli”.
Il titolo a cui si riferisce Cirri è quello apparso in un telegiornale nazionale del 27 aprile 2012 che fa riferimento a una persona definita “mentalmente instabile”. Ecco il titolo:
“Londra, prende in ostaggio 4 persone: lo squilibrato arrestato dalla polizia. Si era barricato in un palazzo e minacciava di farsi saltare in aria.”.
C’è da notare che la maggior parte delle persone che hanno un disturbo mentale non hanno mai ucciso nessuno e neppure pensato di farlo.
Nella maggior parte dei casi, i delitti sono ad opera dei cosiddetti sani di mente; si vedano ad esempio i casi di femminicidio o violenza sulle donne.
Il problema culturale: come usare correttamente le parole?
Alla base dell’uso di queste parole, c’è un problema culturale, dove sopravvive il pregiudizio, lo stigma, lo stereotipo.
E allora quale parola usare?
L’alternativa è persone con disturbo mentale.
Concludiamo con una raccomandazione del giornalista Massimo Cirri:
“Stanno emergendo uomini e donne che parlano in prima persona della propria sofferenza mentale. Di come l’hanno attraversata, della guarigione, dei rapporti a volte positivi, a volte ancora umilianti, con i sistemi di cura. Sono nate associazioni di utenti, gruppi di autoaiuto, voci collettive sulla salute mentale. Toccherà a loro dire come vogliono essere chiamati. Che parole usare per stare meglio tutti”.