La mia sera: poesia di Pascoli
La mia sera è una poesia di Giovanni Pascoli, che fa parte dei Canti di Castelvecchio. È una lirica di una ritrovata infanzia del cuore, anteriore all’esperienza del dolore e dell’angoscia del vivere. C’è anche adombrata fin dall’inizio tuttavia più scoperta nelle ultime due strofe, la vicenda biografica del poeta.
Parafrasi
Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle silenziose. Nei campi c’è il gracidare delle piccole rane. Una leggera gioia scorre per le tremule foglie dei pioppi. Nel giorno una tempesta, che pace la sera! Sbocciano come fiori le stelle in un cielo tenero e vivo, come lo stato d’animo del poeta. Là, vicino alle rane allegre, singhiozza monotono un rivo.
Di tutta quella tempesta, fatta di lampi e scoppi, non resta che un dolce singulto come quello che precede il pacificarsi del cuore, quando il dolore sta per tramutarsi nella dolcezza di un rinnovato contatto con la vita della natura.
È quella tempesta che pareva non dovesse finire. Invece dei fulmini, abbiamo ora soltanto nuvolette che il sole cadente colora d’oro e di porpora coi suoi raggi. La nube che gli apparve più gravida di tempesta nel corso degli anni, ora, con la vecchiaia, gli appare più rosea. Anche i dolori più forti si sono tramutati, col tempo, in dolcezza perché hanno reso l’anima più pura. Tutto intorno c’è un volo di rondini.
Che gridi nell’aria serena. Durante il giorno tempestoso gli uccelli non poterono volare a cercare il cibo; per questo la loro cena è festosa e più lunga del solito. E neppure io… e che voli, che gridi, mia sera serena e limpida. Le campane mi dicono dormi! Mi cantano, dormi! Bisbigliano, dormi! Là, le campane.
Testo della poesia
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.