Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: i loro ultimi dieci giorni in Somalia
La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi è stata uccisa a Mogadiscio il 20 marzo 1994 insieme all’operatore Miran Hrovatin, mentre si trovavano a Mogadiscio Nord a bordo della loro auto con l’autista e la guardia del corpo, entrambi illesi. Un commando, composto da sette persone, ha aperto il fuoco contro Ilaria e Miran. Sono passati vent’anni senza ancora avere giustizia e verità su questo delitto efferato.
Somalia, gli ultimi dieci giorni di Ilaria e Miran
Ilaria e Miran partono da Pisa la sera di venerdì 11 marzo 1994 con l’ultimo volo militare per Mogadiscio. Sull’aereo viaggiano anche altri giornalisti: Amedeo Rinucci di “Avvenimenti e “Il Manifesto”, Gianandrea Gajani de “L’indipendente”, Marina Rini free lance e il fotografo Raffaele Ciriello.
All’alba di sabato, 12 marzo 1994, i giornalisti arrivano a Mogadiscio e vengono accolti dal generale Carmine Fiore che li aggiorna sul deterioramento della situazione della città, invita tutti alla massima prudenza e gli offre ospitalità all’interno del compound dell’Esercito, a Mogadiscio sud. Tuttavia, Ilaria e Miran decidono di alloggiare all’hotel Sahafi: solo da lì sarebbe stato possibile trasmettere i servizi televisivi, anche appoggiandosi alle strutture della Cnn che occupava tutto un piano dell’albergo.
Domenica 13 marzo. Ilaria e Miran, insieme ad altri colleghi, prendono l’elicottero e vanno a Merca. Qui visitano l’ospedale, intervistano un ginecologo (probabilmente il dottor Giuseppe Bufardeci) e anche il dottor Saverio Bertolino del Cisv.
Lunedì 14 marzo. Sempre in compagnia di altri colleghi, vanno all’ospedale Italia, a Johar, per assistere alla consegna da parte del generale Fiore di medicinali e attrezzature mediche. Ilaria e Miran rientrano a Mogadiscio separatamente e prima degli altri colleghi. Dopo una pausa al Sahafi, prendono il volo per Bosaso (Nordest della Somalia) dove arrivano nel pomeriggio.
Lunedì 14, pomeriggio – mercoledì 16, mattina
Permanenza a Bosaso.
Le prime immagini di Bosaso – girate nel pomeriggio del 14 – mostrano l’ingresso del compound di Africa ’70 (Ong italiana per la quale lavorava anche un amico di Ilaria, Valentino Casamenti) dove i giornalisti si recano appena arrivati e dove trovano solo personale somalo. Tutti gli italiani si trovano infatti a Gibuti (rientreranno il 16 marzo), dove hanno dovuto riparare in seguito a accuse e minacce da parte di una fazione dell’SSDF, il partito del nordest della Somalia. Quindi Ilaria e Miran vanno in ospedale per registrare le immagini dei malati di colera che vi sono ricoverati: donne, giovani, bambini. Poi, quasi al tramonto, raggiungono il porto. Non è stato possibile accertare se Ilaria e Miran siano stati ospitati presso la Ong sin dal 14 marzo, o se abbiano pernottato in uno degli hotel della città.
Martedì 15 marzo, quasi all’alba, ancora al porto, Miran riprende le attività di carico e scarico con una lunga carrellata su navi e banchina, poi l’intervista di Ilaria al dottor Kamal, un medico proprietario del compound e delle auto utilizzate da Africa ’70, il quale fornisce le cifre dell’epidemia di colera: 26 morti, 635 persone ricoverate e almeno il triplo rimaste nella propria casa. Nel corso delle riprese, si sente una voce fuori campo chiedere ai giornalisti, in italiano, se sono della Rai. Nel pomeriggio Ilaria intervista[1] il sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor. L’intervista dura tre ore. La telecamera viene spenta e riaccesa due volte: tra una pausa e l’altra, si sente Ilaria chiedere al sultano di Mugne, della nave sequestrata, degli scandali della cooperazione italo-somala, delle armi, dei rifiuti tossici seppelliti lungo la strada Garoe-Bosaso.
Sarà lo stesso sultano a confermare gli argomenti affrontati con Ilaria, l’8 febbraio del 2006, alla Commissione parlamentare d’inchiesta: «[…] Ad Ilaria avevo detto che quelle navi portavano dalla Somalia il pesce e poi venivano con le armi in Somalia. La gente sapeva questo fatto. Era questo ciò che ho detto a Ilaria… i politicanti che venivano di tanto in tanto da noi ci confermavano che queste navi a volte al ritorno… era interessata a sapere da dove venivano tutte quelle armi. Io sono convinto tuttora che lei fosse in possesso di informazioni precise, ottenute attraverso documenti, perché i documenti si trovano… anche durante gli ultimi giorni dell’amministrazione sono arrivati armamenti segreti, procurati da Siad Barre. […] È probabile che altrove, soprattutto a Mogadiscio, si sia procurata qualcosa, altrimenti non avrebbe parlato. La sola cosa che posso dire è che ho dedotto dal suo assassinio che la “Faarax Oomar” portava le armi». E sarà lui a chiarire che la telecamera durante l’intervista è stata continuamente accesa:
«[…] Non abbiamo parlato senza la telecamera e la registrazione… non mi pare che l’intervista si sia interrotta… no, non è mai accaduto… però siccome l’intervista era lunga (è durata tre ore), di tanto in tanto l’operatore chiedeva l’interruzione. Questo me lo ricordo, che lui chiedeva». Ciò rafforza l’ipotesi che siano sparite delle cassette. E non solo. La cassetta dove è registrata l’intervista al sultano che è stata ritrovata dura solo venti minuti. Questo è un altro aspetto che richiederebbe un approfondimento: non risulta che la Commissione d’inchiesta abbia disposto una perizia sui nastri per verificare se fossero realmente gli originali e che non ci siano state manomissioni. Finita l’intervista, Ilaria e Miran, al tramonto, partono per Gardo, situata a metà della strada Garoe-Bosaso (costruita dalla Cooperazione italiana) e dopo una breve sosta al villaggio di Karabeyn, proseguono sino alla sede dell’Aicf, una Ong per la lotta contro la fame. Ma prima di ritirarsi per la notte, escono per un giro in città. Ilaria intervista un giovane maestro disabile, fondatore di una scuola, che teme di vedere presto svuotata degli alunni, per il proliferare di scuole costruite da organizzazioni islamiche.
Mercoledì 16. La giornalista e l’operatore escono quasi all’alba per intervistare un capo villaggio, l’ingegnere Abdullahi Ahmed e registrare le immagini di tubazioni per l’acqua che sono fatiscenti. Poi un’altra intervista ai due ospiti dell’Aicf, Gary e Aida, quindi riprendono la strada per Bosaso. Le riprese mostrano la tanto discussa costosissima strada costruita con i fondi della cooperazione italiana, finalizzata alla distribuzione di tangenti e forse al seppellimento di rifiuti tossici. Ilaria e Miran arrivano a Bosaso ma l’aereo che avrebbe dovuto riportarli a Mogadiscio è già partito. Nel frattempo, il personale di Africa ’70 è rientrato a Bosaso: si tratta di Enrico Fregonara, Valentino Casamenti e la veterinaria Florence Morin. Ilaria è preoccupata per il mancato rientro a Mogadiscio e, soprattutto, di non poter mandare il servizio. Nel pomeriggio, telefona dall’ufficio di Unosom WFP di Bosaso ai genitori e al suo caporedattore Massimo Loche che la tranquillizza: stava per iniziare uno sciopero dei giornalisti Rai e dunque non avrebbe dovuto mandare alcun servizio.
Giovedì 17 marzo, i due giornalisti visitano, insieme a Casamenti, il centro di Ufein, dove Africa ’70 sta ristrutturando un ambulatorio e un laboratorio veterinario. Poi, alle 16, probabilmente un briefing presso l’ufficio Unosom di Bosaso e una telefonata a Loche. La sera, sempre presso Unosom, per i festeggiamenti in onore di Saint Patrick.
Venerdì 18 marzo, è giorno festivo e tutti insieme trascorrono la mattinata al mare. Nel pomeriggio, Ilaria e Miran si ritirano in camera per lavorare. Nella stessa giornata, a Mogadiscio, si tiene una riunione presso il compound dove si trovava l’Ambasciata italiana in cui i giornalisti ancora presenti vengono invitati ad evacuare la città. Durante la riunione viene notata l’assenza di Ilaria e Miran, quindi Carmen Lasorella chiama la redazione del Tg3 e parla con Elena Lelli (segretaria redazione Esteri del Tg3), la quale le riferisce che Ilaria e Miran sono a Bosaso e che sarebbero tornati domenica.
Sabato 19 marzo, i due giornalisti tornano al porto, accompagnati dagli amici di Africa ’70 e Miran riprende ancora le attività di carico e scarico (cemento, riso, farina, fusti). Poi Ilaria intervista il Capitano del porto, Mohammad Abshir Omar, e il rappresentante dell’Unosom, Dardo Scilovic. I due intervistati rilasciano dichiarazioni importanti. Il capitano parla dei sequestri e sostiene che «sono la giusta reazione a quello che viene considerano un indebito sfruttamento dei mari e le richieste di pagamento di riscatto debbono intendersi come una sorta di tassazione delle licenze di pesca. Anche il rappresentante dell’Unosom sembra in qualche modo giustificare questo sistema di pedaggi forzosi mentre appare seriamente preoccupato per la sorte di equipaggi composti da marinai di nazionalità croata, italiana, somala».
Domenica 20, Casamenti e Fregonara accompagnano i due giornalisti per prendere l’aereo che li riporterà a Mogadiscio.
Gli spostamenti dell’ultimo viaggio in Somalia fin qui riportati sono stati ricostruiti dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina attraverso le immagini – ritrovate – girate da Ilaria e Miran in quei dieci giorni. Tuttavia ci sono dei “vuoti” nella ricostruzione: non si sa chi accompagna Ilaria e Miran, quale macchina usano, né chi incontrano a Gardo e qual è il motivo che li spinge ad andarci. Alcuni di questi vuoti potrebbero essere riempiti dalle testimonianze di due somali e di un cooperante tedesco. Nell’estate del 2005, una spedizione – formata da Luciano Scalettari di “Famiglia Cristiana”, dall’onorevole Mauro Bulgarelli dei Verdi, da Francesco Cavalli, fondatore dell’Associazione e del Premio “Ilaria Alpi”, dall’operatore Alessandro Rocca – ha effettuato due viaggi in Somalia proprio per ripercorrere le ultime tappe del viaggio dei due giornalisti. Uno degli scopi della missione era quello di verificare la presenza di materiale radioattivo: nel primo viaggio è stato utilizzato un contatore Geiger e non è stata rilevata la presenza di materiale radioattivo. Nel corso del secondo viaggio, invece, è stato utilizzato il magnetometro, in alcune località vicine alla strada Garoe-Bosaso, che ha dato un risultato positivo, anche se parziale.
Torniamo ai due testimoni. La spedizione ha anche incontrato e sentito due impiegati somali di Africa ’70: l’uomo di scorta Mohamed Nur Said e l’interprete Muktar. I due somali riferiscono di essere andati a prendere Ilaria e Miran all’aeroporto al loro arrivo a Bosaso. Ecco cosa racconta Muktar: «Sono andato a prenderli con un italiano. Non ne sono certo, ma mi pare si trattasse di Valentino Casamenti (il logista dell’Ong, ndr). Lui fu avvisato del loro arrivo. In quei giorni l’équipe di Africa ’70 era a Gibuti. Non ero solo, alla sede. C’era con me Casamenti, che era tornato prima degli altri». Ciò contrasta con le dichiarazioni rese alla Commissione dai cooperanti di Africa ’70. Tutti hanno detto di essere rientrati il 16 marzo a Bosaso, con l’aereo perso da Ilaria e Miran, e di averli incontrati per la prima volta alla sede dell’Ong. L’altro testimone, il cooperante tedesco Alexander von Braunmuehl, rintracciato telefonicamente, aiuta invece a capire i movimenti di Ilaria e Miran dopo l’intervista a Bogor.
L’uomo racconta: «Pranzai con loro il 19 marzo, alla sede di Africa ’70. Ero seduto di fronte a Ilaria. Raccontai che operavo a Gardo, lei mi disse che c’era stata nei giorni precedenti. Ma non disse in che giorno ci andò, né il motivo». Ilaria e Miran rimangono a Gardo un’intera giornata e la notte. «Perché ci vanno? Perché vi si fermano tanto? Stranamente, vi sono poche e generiche immagini di Gardo. Sembra che la telecamera sia rimasta quasi sempre spenta». Tracce del loro ultimo soggiorno a Bosaso si trovano anche in un quadernetto nero che apparteneva a Miran, una specie di diario dove lui annotava, durante i suoi viaggi, numeri di telefono o barzellette… – come ha raccontato la moglie Patrizia Scremin -. Nell’ultima pagina del quaderno viene riportata una frase, scritta il 19 marzo, mentre Ilaria e Miran si trovavano insieme ad una terza persona (un medico) e stavano bevendo qualcosa. La frase era più o meno questa: «Hai toccato il fondo, il fondo del bicchiere senza fondo».