La crisi dello Stato liberale italiano nel primo dopoguerra
Al termine della Prima Guerra Mondiale l’Italia era uscita vincitrice ma stremata per lo sforzo compiuto. Con il primo dopoguerra il paese si trovava in gravi difficoltà economiche e tra contrasti sociali. Le difficoltà economiche erano dovute al fatto che lo Stato aveva accumulato elevatissimi debiti.
La produzione agricola era diminuita per l’abbandono dei campi durante la guerra. Le industrie pesanti (siderurgica e meccanica), sviluppatesi enormemente durante il conflitto, dovevano provvedere ad una riconversione produttiva, ovvero al passaggio da un’economia di guerra a un’economia di pace.
Primo dopoguerra: lo scenario italiano
Un’operazione che era condizionata dalla riduzione del mercato interno, provocata dal ristagno economico e la caduta generale del tenore di vita, e dalla contemporanea crisi delle banche, che durante la guerra avevano concesso consistenti prestiti che non avevano recuperato, quindi non erano in grado di concederne altri.
Le industrie, di conseguenza, tendevano a sospendere ogni attività e a licenziare gli operai, e la disoccupazione era aumentata: i soldati tornati dalla guerra si trovavano senza occupazione.
L’opinione pubblica mostrava un profondo senso di frustrazione per la “vittoria mutilata”, ritenendo che i delegati italiani non fossero stati in grado di trattare con gli alleati e che non avevano fatto rispettare il patto di Londra (prevedeva anche la Dalmazia), né tanto meno il principio di nazionalità, secondo il quale all’Italia doveva spettare Fiume.
Orlando aveva infatti abbandonato la conferenza, così facendo l’Italia fu esclusa anche dalla questione delle colonie tedesche, che le alleate trattarono in sua assenza. Proprio per tali avvenimenti, il governo cadde e si formò un altro ministero liberale presieduto da Francesco Saverio Nitti.
Nitti raggiunse un accordo con le potenze vincitrici: far evacuare Fiume dalle truppe italiane e affidarla a reparti alleati in attesa di una soluzione. Decisione che esasperò i nazionalisti: D’Annunzio organizzò la marcia su Ronchi per occupare Fiume, dove instaurò un governo provvisorio “Reggenza del Carnaro” e proclamò l’annessione di Fiume all’Italia.
Nitti non assunse una ferma posizione né a favore né contro gli eventi di Fiume, ma si mostrò risoluto nel far approvare in Parlamento il sistema proporzionale e a renderlo esecutivo nel novembre del 1919. Nel frattempo si erano però affermati i due partiti di massa: quello socialista e quello del partito popolare italiano, fondato a Roma nel 1919 per iniziativa di Don Luigi Sturzo. Il pontefice Benedetto XV, infatti, aveva ufficialmente abbandonato il non expedit per permettere la fondazione del partito.
Il programma del nuovo partito prevedeva una radicale riforma agraria: il proprietario diventava un socio e non più padrone, il voto esteso anche alle donne, sistema elettorale proporzionale invece del vecchio uninominale, e l’altra novità riguardava la piena autonomia dalla gerarchia ecclesiastica, molto limitata, infine, l’attenzione del problema operaio.
Nel 1919 le elezioni evidenziarono la prima crisi del governo liberale, che non ottenne la maggioranza assoluta a tutto vantaggio dei socialisti e dei cattolici. A complicare la situazione ci fu la discussione di mantenere inalterato il prezzo politico del pane. Discussione che mise in crisi il governo Nitti, che si era schierato a favore dell’aumento. Nel 1920 Nitti presentò le dimissioni e il re chiamò al governo Giolitti che accettò.
Quando Giolitti prese posto al governo, però, la tensione sociale che nell’estate del 1919 aveva dato vita a una serie di scioperi e violente agitazioni, si aggravò al punto che gli operai procedettero all’occupazione e all’autogestione delle fabbriche, in risposta alla serrata operata dagli industriali. Gli operai chiedevano il rinnovo del contratto salariale al fine di adeguare gli stipendi al costo della vita. Di fronte al rifiuto degli industriali, che si trovavano in difficoltà, di non concedere gli aumenti richiesti, i sindacati di sinistra avevano indetto uno sciopero bianco, al quale gli industriali risposero con la serrata e gli operai con l’occupazione delle fabbriche.
Giolitti, per evitare il pericolo di una guerra civile, si oppose alla richiesta degli industriali di reprimere con la forza l’occupazione e dette ordine alla polizia di non assalire le fabbriche. Di conseguenza, cercò un accordo con i sindacati; l’intesa raggiunta però lasciò tutti scontenti: gli industriali si videro costretti ad accettare il controllo operaio sulle fabbriche e si sentirono poco garantiti dal governo e gli operai dovettero abbandonare la lotta ritenendo di avere perso l’opportunità di conquistare maggiore potere politico.
Uscito indebolito da questa vicenda, Giolitti recuperò terreno in politica estera. Per mezzo del ministro degli Esteri, Carlo Sforza, che aveva preso contatti diretti con la Jugoslavia, venne firmato il trattato di Rapallo: l’Italia ottenne parte della Dalmazia (isole di Cherso), Fiume fu dichiarata città libera, alla Jugoslavia andò la restante parte della Dalmazia. D’Annunzio si rifiutò di abbandonare la città, costringendo Giolitti a fare ricorso all’esercito e, dopo un mese di resistenza, D’Annunzio lasciò Fiume. La difficile situazione che investiva il paese dopo la guerra e la difficoltà ad accettare i cambiamenti culturali intervenuti nelle masse fece accentuare i dissensi all’interno dei partiti politici, in particolare quello socialista.
Il partito socialista era diviso in tre correnti: massimalista, avversa ad ogni collaborazione con lo stato borghese e sostenitrice di una rivoluzione proletaria anche in Italia; quella dei riformisti, che evidenziavano l’incapacità dei massimalisti nel proporre un piano d’azione concreto; quella dei comunisti, che sollecitava la formazione di un partito apertamente rivoluzionario sul modello di quello realizzato da Lenin in Russia.
Il divario fra queste tre correnti finì per provocare la scissione del PSI: Gramsci e Bordiga (minoranza di estrema sinistra) dettero vita nel 1921 al partito comunista. Giolitti, intanto, per risanare il bilancio statale operò una serie di riforme, che gravavano sui ceti abbienti, il che accentuò il malumore delle destre. Giolitti decise di ricorrere allo scioglimento anticipato della camere e indire nuove elezioni, al fine di indebolire socialisti e popolari e ottenere la maggioranza. A tale scopo strinse un’alleanza con i nazionalisti e i fascisti, detta “Blocco nazionale”.
Infatti Mussolini, rientrato dal fronte, approfittando della situazione del paese, si era messo a difendere dalle colonne del “Popolo d’Italia” (suo giornale) i risultati della guerra vittoriosa e si era fatto sostenitore dell’ordine contro le agitazioni di piazza di stampo socialista. Così facendo, riuscì a raccogliere le simpatie di alcuni nazionalisti, ex combattenti e giovani della media borghesia, con l’appoggio dei quali aveva fondato a Milano i Fasci di combattimento 1919.
Il programma del nuovo movimento, o programma di San Sepolcro, prevedeva: lotta contro tutti gli imperialismi e adesione alle società delle nazioni; instaurazione della Repubblica; suffragio universale esteso anche alle donne; abolizione del Senato perché di nomina regia; istituzione del referendum popolare; uno Stato garante dei diritti alla libertà di pensiero, di stampa, di associazione; la terra ai contadini; la riduzione dell’orario di lavoro alle 8 ore giornaliere.
I risultati non premiarono i liberali, ma consacrarono l’ascesa del fascismo al Parlamento e la conseguente trasformazione del movimento in Partito Nazionale Fascista (1921).
Caduto il governo Giolitti, lo sostituì il socialista riformista Bonomi, che si mostrò passivo di fronte alle violenze perpetrate dalle squadre d’azione (bande armate che vestivano la camicia nera e erano muniti di manganelli) ai danni delle organizzazioni sindacali e le associazioni socialiste e cattoliche, alle quali Mussolini dette il via libera.
Convinto di poter frenare i fascisti al momento opportuno, non rendendosi conto che le forze fasciste trovavano il sostegno economico e morale della grande borghesia (industriali), decisa a strumentalizzare per i suoi scopi le azioni antibolsceviche del fascismo; la piccola borghesia, che non protetta dalle organizzazioni sindacali (come lo era il proletariato) e del tutto indifesa nei confronti dello strapotere economico della grande borghesia tendeva a rivendicare un proprio spazio; dei liberali, per lo stesso motivo dell’alta borghesia; degli organi dello Stato, quali prefetture, questure, esercito.