Alle fonti del Clitumno: analisi dell’ode di Carducci
La poesia carducciana “Alle fonti del Clitumno” si trova nel primo libro delle Odi Barbare. L’ode culmina nell’acre invettiva contro il fanatismo religioso del Medioevo e nell’esaltazione dello spirito classico (la serenità del mondo greco, l’integrità e il senso della giustizia del mondo romano).
Approfondimento
Analisi della poesia
Si tratta di uno tra i più solenni componimenti realizzati da Giosuè Carducci che nel giugno del 1876 prese spunto da un breve soggiorno spoletano per visitare le fonti del Clitumno, a mezz’ora circa di carrozza dalla città. La poesia fu composta tra il 2 giugno ed il 21 ottobre dello stesso anno e intessuta di rimandi testuali alla classicità. L’età moderna non è stata meno sensibile di quella antica nel fare riferimento al Clitumno; diversi poeti hanno dedicato alle fonti del Clitumno celebri versi.
Si tratta di un’ode saffica divisa in strofe tetrastiche, formate da tre endecasillabi con la censura dopo la quinta sillaba e l’accento sulla quarta e di un quinario variamente accentato. Gli elementi predominanti della poetica carducciana sono qui riconoscibili, partendo dalla vita agricola, dalla grandezza di Roma, dall’odio verso l’ascetismo, dal tema della risorta Italia, fino al ricordo storico e alla visione diretta della vita.
Alle fonti del Clitumno: testo completo della poesia
Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l’aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l’umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l’onda
immerge, mentre
ver’ lui dal seno del madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:
pensoso il padre, di caprine pelli
l’anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de’ bei giovenchi,
de’ bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su ‘l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi
su l’Appennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
L’Umbrïa guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
gl’itali iddii.
Chi l’ombre indusse del piangente salcio
su’ rivi sacri? ti rapisca il vento
de l’Appennino, o molle pianta, amore
d’umili tempi!
Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema
co ‘l palpitante maggio ilice nera,
a cui d’allegra giovinezza il tronco
l’edera veste:
qui folti a torno l’emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l’ombre, tu fatali canta
carmi o Clitumno.
testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne’ duelli atroce
cesse a l’astato velite e la forte
Etruria crebbe:
di’ come sovra le congiunte ville
dal superato Cìmino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,
per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,
e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l’inclinata quercia il cuneo, lasci
la sposa e l’ara;
e corri, corri, corri! Con la scure
e co’ dardi, con la clava e l’asta!
Corri! Minaccia gl’itali penati
Annibal diro.-
Deh come rise d’alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l’alta Spoleto
i Mauri immani e i numidi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti
de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro salïente vena:
trema, e d’un lieve pullular lo specchio
segna de l’acque.
Ride sepolta a l’imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l’ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
dell’adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.
Ai pié de i monti e de le querce a l’ombra
co’ fiumi, o Italia, è dei tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.
Emergean lunghe ne’ fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,
e danze sotto l’imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quando amor lo vinse
di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l’Appennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l’itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitunno,
tutto: de’ vaghi tuoi delùbri un solo
t’avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori,vittime orgogliose
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
Portala, e servi -.
Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procede lenta, in neri sacchi avvolta,
litanïando,
e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d’impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.
Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.
Maledicenti a l’opre de la vita
e de l’amore, ei deliraro atroci
congiungimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;
discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d’essere abietti.
Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
intera e dritta ai lidi almi del Tebro
anima umana! I foschi dì passaro,
risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d’annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! A te i canti de l’antica lode
io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque
de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.
Parafrasi
Il componimento inizia con la descrizione minuziosa del paesaggio circostante umbro e celebra le fonti del Clitumno. Il fiume umbro che vive nel ricordo d’illustri scrittori romani, nella leggenda degli armenti resi bianchi dalle acque, nella bellezza della natura di cui è parte, ora selvaggia, ora preziosa, che è ancora verde e vivace come nei tempi di Roma.
Scendono verso sera al fiume le pecore guidate dai fanciulli e le madri cullano i loro piccoli sulla soglia dei Casolari mentre i padri, finito il lavoro, riconducono nelle stalle buoi e carri. Le nubi fumano dall’Appennino e l’Umbria guarda dalle montagne digradanti intorno. Con l’Umbria verde, il poeta saluta il dio Clitumno, al quale non si addicono gli umili e molli salici piangenti, ma gli antichi e possenti alberi italici, frassini, lecci e cipressi.
A Clitumno, il poeta Giosuè Carducci chiede di narrare la storia di cui è stato testimone, il succedersi delle signorie degli Umbri, degli Etruschi e dei Romani, la riscossa e la vittoria italica contro Annibale a Spoleto. “Ora è tutto silenzio: sono fuggite le ninfe, che cantavano le nozze di Giano e Camesena da cui ebbe origine la stirpe italica, né ha più luogo il culto del dio Clitumno, né più i tori bagnati nel fiume conducono trionfi romani ai templi, da che il Cristianesimo soverchiò l’antica civiltà fervida di vita e rese vile l’animo umano”. Rinnovando all’Italia il saluto virgiliano, il poeta la invita a risorgere nella chiarezza razionale e nell’integrità morale greca e romana, nella libertà e nel progresso dei tempi nuovi.
Sintesi
Paesaggio e mito, natura e storia, passato e presente, poesia ed eloquenza si fondono nel componimento di Carducci, in un periodo particolarmente delicato, inquieto e fecondo della sua storia.