Schiavo Ribelle e Schiavo Morente (i Prigioni, di Michelangelo Buonarroti)
Sussurri attutiti e sospiri sofferenti accompagnano l’ammirazione rapita dello spettatore giunto al Louvre, le cui sale risplendono, non poco, grazie ai rilucenti marmi della statuaria rinascimentale, di cui si erigono a simbolo le due statue note nel quadro artistico come lo “Schiavo ribelle” e lo “Schiavo morente” di Michelangelo Buonarroti.
Non esiste giudizio abbastanza esauriente, idea abbastanza vasta da includere nel proprio etere la gloria di un’arte suprema, quale fu quella del celebre genio toscano.
Realizzati per la tomba di Papa Giulio II, i Prigioni, furono esclusi dal progetto tombale, finendo nelle ricche dimore francesi di Roberto Strozzi, per divenire, infine, rinomato omaggio concesso dal nobile fiorentino al re di Francia Francesco I.
I due capolavori michelangioleschi sono tuttora conservati nel museo parigino del Louvre.
Schiavo Ribelle e Schiavo Morente: la genesi delle opere
Le sculture custodite nel rinomato museo parigino, i cosiddetti “Prigioni” di Michelangelo, furono scolpite allo scopo di adornare il basamento del mausoleo del Papa Giulio II, il Giuliano della Rovere noto come il “Papa Terribile“, il “Papa pericoloso“.
«Fatto appena papa, egli pensa ai suoi funerali. Aveva conosciuto un artista a Firenze: lo chiama a sé e gli dice con affettuosa dimestichezza: io ti conosco e per questo ti ho fatto venir qui. Io voglio che tu faccia il mio mausoleo. – Ed io me ne incarico. – risponde Michelangelo. Un mausoleo magnifico, ripiglia il papa .Costerà caro, dice sorridendo Michelangelo. – E quanto costerà ? – Centomila scudi. – Io te ne darò dugentomila. E Michelangelo cominciava la tomba di Giulio II.»
(“Storia universale della chiesa cattolica. Dal principio del mondo fino ai dì nostri”, Rohrbacher).
La critica è concorde nell’associare le due creature michelangiolesche alla seconda versione della tomba papale, quella risalente al 1515. Poiché il progetto successivo e definitivo, quello del 1524, portò inevitabilmente all’eliminazione di entrambe le sculture dal collocamento cui si pensava sarebbero state predestinate.
L’infausta sorte dei Prigioni confluì a favore e nelle forme di un prestigioso dono nel ricco patrimonio di Roberto Strozzi, garante di un’ospitalità riservata al maestro toscano, la cui salute fuggiva dall’insalubre ambiente romano.
Le statue dei Prigioni, scalpellate da Michelangelo e mandate a Roberto Strozzi, furono spedite in Francia nell’aprile del 1550.
Fra le carte di Strozzi Ugoccini, allogate presso l’archivio di Stato di Firenze, si legge:
“Signor Ruberto Strozzi in conto di sue spese dee dare a dì 29 Aprile 1550 ducati 14, 5 moneta, fatti buoni a m. Paolo Ciati per tanti spesi per condurre a Ripa et acconciare in barca le statue di Michelangelo mandate in Francia ” (VASARI) .
Una volta giunte in Francia, le statue Schiavo Ribelle e Schiavo Morente, furono collocate nel castello del connestabile di Montmorency a Écouen e in quello di Richelieu a Poitou, per divenire poi dono regale da destinare a Francesco I di Francia, il capostipite della dinastia regale dei Valois – Angoulême.
I Prigioni: analisi, note tecniche e descrittive
Michelangelo scolpì le emozioni, i corpi nudi, i visi stravolti dalla passione, edificando la propria genialità ai piedi di un’arte grandiosa, immortale e sempiternamente insuperata in quanto a slancio ed emotività ispiratrice.
L’anima raggiunse, come nel tocco della creazione, il corpo morto della pietra lattea, conferendo a essa lo spirito vigoroso di vita e tempra altrettanto vivi, d’apparire esistenti nella realtà dello spettatore che ammira, prossimi al cuore grazie al movimento del corpo, alla mimica dei volti.
Il Rinascimento vide in Michelangelo l’eroe bisbetico dalla vita sofferta, scandita dalle tormentate note del rifiuto amoroso, dal calvario di un’anima feroce in un corpo fin troppo debole.
L’anima soffrì, si scheggiò nell’infinità di un grande intelletto, mutato nell’esistenza in una disperazione munita di scalpello, in una foga tagliente, arguita e tremendamente brutale, nel connubio di quella vita in cui il marmo è carne, lo scalpello, parola.
“Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro.”
(Diari, Michelangelo)
I “Prigioni” subirono l’originale appellativo da Michelangelo stesso, quale titolo idoneo per qualsiasi anima intrappolata nel corpo, e che come tale tenta di liberarsene.
Lo “Schiavo morente ” e lo “Schiavo ribelle” costituirono insieme al “Mosè” i primi frutti ceduti in onore della tomba di Giulio II, nonché prime statue marmoree portate a compimento dopo il “David” e la “Madonna di Bruges”, all’interno di un’ampia crescita, tale da combinare una seria metamorfosi nella suo leggendario linguaggio scultoreo.
Quando nel gennaio 1506 venne riportato alla luce tra le rovine delle Terme di Tito, sull’Esquilino, il celebre Laocoonte di Agesandro, Polidoro e Atenodoro, Michelangelo tra i primi ad ammirarlo, ne rimase profondamente colpito.
L’eccezionale gruppo scultoreo del Laocoonte anticipò la gloria della propria scoperta grazie alla testimonianza di Plinio il Vecchio, giungendo ai tempi rinascimentali come l’esempio più eccelso della statuaria classica di età Ellenistica: il nudo eroico, la tragicità di un movimento disperato di spire fossilizzato nel tempo, nell’evidente sofferenza fisica, suggestionarono Michelangelo a tal punto da incidere intimamente sulle soluzioni espressive e stilistiche adottate per gli “Schiavi“.
« Il papa comandò a un palafreniere: va, e dì a Giuliano da San Gallo che subito le vada a vedere, e così subito s’andò: e perché Michelangelo Buonarroti si trovava continuamente in casa, che mio padre l’aveva fatto venire, e gli ave va allogata la sepoltura del papa […]»
(“Arti e lettere. Scritti raccolti”, p. 178)
Le due statue, infatti, risultano essere dinamiche: lo schiavo ribelle tirato nello sforzo della liberazione dei lacci della prigionia, lo schiavo morente nella debolezza dello sfinimento, con i muscoli che perdono la tensione dello sforzo e si abbandonano al sonno della dipartita, ovvero alla “transizione tra la vita e la morte” (GRIMM).
Il fantasma del Laocoonte consentì a Michelangelo di affrontare la realizzazione delle due sculture mediante una plasticità piena e libera. Lasciando da parte l’uso del trapano, si concentrò sull’esito della gradina e delle statue rilievo, create per essere viste secondo un privilegiato punto di vista frontale. Tale era la tradizione nella produzione statuaria fiorentina.
L’influenza del Laocoonte insignì di novità l’opera dell’artista toscano, legandosi, dopo tutto, alla realtà anticheggiante del mondo di Fidia e al contempo superandola. Così sostenne lo scrittore e storico tedesco Ermanno Grimm, nel segno di una profondità eroica, in un confronto tra la scultura antica e rinascimentale che si limita nel primo istante del paragone, per poi evolversi in un estremo progresso.
Per Michelangelo modellare l’argilla era quasi come dipingere, ribadendo, di fatti, che la vita emerge dal marmo liberamente, grazie a un lavoro emancipato, d’ispirazione e che si serve del modello solo come misera guida:
“Michelangelo considerava una statua in marmo, non già quale una copia, una riproduzione del modello in creta, ma bensì quale cosa già perfetta, la quale stava nascosta nel marmo, dal quale lo scalpello doveva cavarla fuori, quasi dalla scorza che la rivestiva” (GRIMM).
In un suo sonetto ritroviamo il medesimo concetto:
Non ha l’ottimo artista alcun concetto,
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio; e solo a quella arriva
La man, ch’ubbedisce all’intelletto.
Note Bibliografiche
G. Vasari, I. Bomba, “Vita di Michelangelo”, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1993
E. Grimm, “Michelangelo per Ermanno Grimm”, vol. II, Ditta editrice F. Manini, Milano, 1875
M. Buonarroti, S. Fanelli, “Rime”, Garzanti, Milano, 2006
P. Daverio, “Louvre”, Scala, Firenze, 2016
F. Gasparoni, B. Gasparoni, “Arti e lettere. Scritti raccolti”, Tipografia Menicanti, 1865