La grande odalisca (dipinto di Ingres)
Vestita di semplice bellezza, “La grande odalisca” (La Grande Odalisque, 1814) di Jean Dominique Ingres (1780 – 1867) si circonda di pregiate stoffe, nella morbidezza di un letto languidamente reso nel disordine di un evento che non c’è dato conoscere. Una fisicità bianca e tonicamente tornita, nell’eleganza di un volto tristemente giovane e bello, dove il corpo è esposto, esaltato nell’avvenenza di una scelta estetica che richiama gli echi delle superbe veneri cinquecentesche.
Un capo riccamente avvolto da pietre preziose e broccati degni di un alto lignaggio, regala l’eternità di un attimo intenso, perdurante nel tempo, in una prodigiosa attesa che fugacemente rende immortale lo sguardo svenevolmente proteso verso lo spettatore, in quella fisionomia ambigua, dove risulta difficoltoso estrapolare un’espressione serena o indifferente.
La grande odalisca di Ingres non fu solitaria nell’ideazione, né unica bellezza eternizzata dalla mano del pittore francese, collocandosi, di fatti, nelle vicine e risplendenti sorti “Odalisca con schiava“, custodita nella Walters art Gallery, a Baltimora
Esempio mirabile di una pittura ottocentesca d’incantevole magnificenza, Ingres colpì nuovamente nel segno di una seduzione fatta di un classicismo nuovo, di forme morbide e di colori intensamente brillanti.
Le scultoree membra della Grande Odalisca trovano rifugio nelle sontuose sale del Louvre ospitanti i capolavori della pittura francese, riportando lo spettatore verso la contemplazione di un artefatto d’ingegno illustre, e che inevitabilmente conduce al raffronto teorico con la premonitoria bagnante di Valpinçon (La Baigneuse, “La grande bagnante“, 1808 ) e al consecutivo capolavoro conosciuto come “La sorgente” (“La Source”, 1820) dello stesso Ingres.
La grande odalisca: genesi del dipinto
Il dipinto fu commissionato nel 1813 da Carolina Murat (1782 – 1839), sorella di Napoleone (1769 – 1821) e moglie di Gioacchino Murat (1767 – 1815), il generale francese e maresciallo dell’Impero con Napoleone. La tela nasceva per fare da pendant al nudo dipinto intorno al 1808 chiamato “La dormiente di Napoli“, andato perduto nel 1815 per la caduta del Regno e noto solo grazie ad una versione più tarda.
“Alla Grande Odalisca sarebbe toccata la stessa sorte, se non fosse rimasta nello studio di Ingres più a lungo: alla caduta di Murat, infatti, non era stata ancora consegnata”. (DAVERIO)
Note tecniche e descrittive
La rappresentazione pittorica di una schiava vergine al servizio degli ottomani (“odalik“) è la giusta espressione di un secolo, l’Ottocento, in cui l’evasione dalle noiose pratiche della vita matrimoniale avveniva attraverso l’adulterio.
Lo spirito del “secolo lungo” ribolliva e vibrava sovente nella clandestinità dei rigidi valori vittoriani, in quella moralità che più rinvigoriva lo spirito bohemien e che in ogni misura sfociava nell’eccesso, spesso ghigliottina sotto cui calava e infine si spegneva la vita di molte menti geniali.
In un parallelo letterario, nei connotati di una vergine dalle memorie fortemente legate alla “Fornarina” (1518) di Raffaello (1483 – 1520) e al nudo di schiena della Paolina Borghese, vediamo risplendere il nobile pallore della cortigiana Margherita Gautier, la sublime creatura nata dalla penna di Alexandre Dumas figlio (1824 – 1895), nell’intreccio dello spirito flaubertiano di Emma Rouault, l’adultera Madame Bovary.
L’inebriante bellezza di un corpo nudo, giovane e di una verginità intatta racchiude in sé molto del proprio secolo, omaggiando e dando lustro ai grandi maestri del Rinascimento italiano, che verosimilmente insegnarono al mondo il potenziale espressivo di una casta nudità.
Quando Alfredo Germont, l’amante di Violetta Valéry, intonava le celebri note del “Libiamo, libiamo ne’ lieti calici, che la bellezza infiora; e la fuggevol, fuggevol ora s’inebri a voluttà“, qualcosa ridestò la verità negli animi, portando la realtà, quanto meno diffusa, della “Traviata” di Giuseppe Verdi (1813 – 1922) negli altisonanti e nobili teatri europei.
L’Odalisca diviene così riflesso reale ed emblema pittorico esaltante le eroine dell’Ottocento, di una figura di donna non più sottomessa, ma sagacemente in grado di dominare la propria sessualità.
E’ dunque facile dedurre, come spesso accade per il mondo dell’arte, la stretta correlazione d’ideali che ben penetrava ogni ambito dello scibile umano, connettendo in affini schemi arte, letteratura e teatro.
La Grande Odalisca di Ingres è simbolo di una bellezza ideale, minacciata, intonsa ma allo stesso tempo corrotta, vivida e livida di un lusso che disarma e arma lo spirito verso le più sconvolgenti imprese, in quell’arte che insegnò ad ardire.
Nel gusto esotico che arricchiva di nuove avvolgenti iconografie l’arte e che dava la nascita alle più interessanti collezioni private, la cortigiana si staglia nuda, mostrando la schiena oltre ogni misura allungata con l’espediente di due vertebre in più, esponendo in tal modo una forte spinta manieristica e neoclassica.
Il candore di un viso di un’innocenza illusoria è esaltato dallo sfondo nero, quasi a voler lasciar intendere la spazialità di un luogo ampio, quello di un palazzo o di una ricca dimora.
Charles Pierre Baudelaire (1821 – 1867) soleva affermare che “Ciò che distingue il talento di Sig. Ingres è l’amore per la donna. Il suo libertinaggio è serio e assai scrupoloso“, come a voler nuovamente ridisegnare i confini di una concezione impregnante lisere’ e chine’, nel tintinnante gioco di seduzione che portava a scoprire le crinoline.
L’audacia sentimentale di Ingres tonificò ogni strato della vita privata e artistica, rispecchiando la foga sentimentale nell’amore nato con Madeleine Chapelle, un sentimento germogliato per corrispondenza e che non privò il pittore francese dell’abilità di dirigere la propria umana e artistica affettuosità nei confronti del gentil sesso:
“A Parigi non mancheranno certo le modelle, ma è l’Italia che egli ha canonizzato a pantheon delle divinità femminili, a cui, come pittore, rimarrà sempre fedele: Thérèse, la Mariuccia, o altre senza nome fissate in eterno nella posa di “Angelica” legata allo scoglio, oppure della “Venere di Anadiomene” o della “Sorgente” ” (DAVERIO).
Ingres dedicò molta attenzione alla resa dei tessuti e dei contrasti cromatici, com’è facilmente visibile dal rosa ambrato della carnagione, l’azzurro intenso del tendaggio ricamato in oro, le note raffinate e preziose dei gioielli, del ventaglio e del turbante; un’attenzione cromatica che non viene in nessun modo estesa alla resa del disegno, volgendo a “deformazioni anatomiche funzionali alla resa di un’ideale di armonia visiva“.
La mancata verità anatomica fu aspramente criticata al Salon nel 1911, portando il pittore e critico d’arte francese Charles Paul Landon (1760 – 1826) a disapprovare l’esito pittorico di una vergine senza ossa, né muscoli, né sangue, nel plausibile e inatteso tentativo di “resuscitare la maniera pura e primitiva dei pittori dell’antichità“.
Note Bibliografiche
P. Daverio, Louvre, Scala, Milano, 2016
M. F. Apolloni, Ingres, Giunti, Roma 1994