L’innominato: riassunto, descrizione e analisi del personaggio
Circondato da un alone di mistero sulla sua identità, l’Innominato è un personaggio centrale in tutta la vicenda raccontata da Alessandro Manzoni nel romanzo “I promessi sposi”. È una delle figure più interessanti create dallo scrittore per rendere la storia più accattivante e ricca di colpi di scena. L’Innominato vive nel suo castello nei pressi di Lecco, messo al bando dallo stato e dedito ad attività illecite.
Ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato. (Dal Capitolo XIX)
Approfondimento
L’Innominato e don Rodrigo
È a lui che don Rodrigo si rivolge per chiedere aiuto nel rapimento di Lucia, in quanto nutre per questo uomo potente e malvagio grande rispetto e devozione.
Dal punto di vista fisico, il Manzoni descrive l’Innominato come un uomo di mezz’età, sulla sessantina, di carnagione scura, con pochi capelli bianchi ancora sulla testa. Ciò che colpisce della descrizione dell’Innominato è il “lampeggiar sinistro ma vivo degli occhi” che denota la sua grande forza sia nel corpo che nello spirito, forse pari o maggiore a quella di una persona giovane.
Il profilo psicologico
Dal punto di vista psicologico, l’Innominato appare subito avvolto nel mistero, un personaggio malvagio e influente, che si circonda di uomini di fiducia che lo aiutano a realizzare i suoi atti illeciti. Pur incarnando l’eroe negativo, in realtà l’Innominato a metà dell’opera si converte: il rapimento di Lucia, su richiesta di don Rodrigo, è l’ultimo atto malvagio che lui compie prima di decidere di cambiare vita.
L’incontro con Lucia gli suscita sentimenti di pietà, e si rende conto di aver inseguito nella sua vita soltanto il male, senza mai fermarsi a provare pietà per le persone che lo circondano.
Il Manzoni è molto bravo nel descrivere “la notte dell’Innominato”, i tormenti interiori che l’uomo prova e che lo portano a pensare all’esistenza di Dio e del perdono divino.
Sarà poi il colloquio con il Cardinale Federigo Borromeo a suscitare in lui la ferma volontà di cambiare vita ed utilizzare il suo potere e le ricchezze accumulate per aiutare le persone povere e bisognose.
La conversione
Il cambiamento dell’Innominato lo rende un personaggio in divenire: appena il lettore si arrende e lo considera un nemico, un essere spregevole, ecco che il barlume della conversione lo trasforma. Attraverso il personaggio dell’Innominato il Manzoni riesce a trasmettere un messaggio ai lettori:
il confine tra il bene e il male non è mai così netto come sembra.
Il dramma dell’Innominato, che si svolge nell’intimo dell’uomo, è raccontato in modo dettagliato.
Il lettore riesce quasi a identificarsi con tale stato d’animo.
L’ispirazione di Manzoni
Pur non facendo esplicitamente il nome, pare che Alessandro Manzoni abbia preso spunto per la creazione del personaggio dell’Innominato da un uomo realmente esistito, Francesco Bernardino Visconti, un bandito che visse in maniera turbolenta spargendo sangue ovunque e che poi si convertì proprio grazie all’intervento del cardinal Federigo Borromeo.
Il personaggio dell’Innominato era già presente nella prima stesura dell’opera manzoniana, intitolata “Fermo e Lucia”, dove si macchia di un delitto sul sagrato di una chiesa. Il macabro episodio, però, non viene riportato nella stesura definitiva.
Nel capitolo XXIV è molto toccante l’incontro con Lucia, alla quale l’Innominato chiede perdono per il male commesso.
Analisi del personaggio
L’innominato si configura come aiutante dell’antagonista, perché organizza su commissione di don Rodrigo il rapimento di Lucia da Monza. Ma in seguito, grazie anche alla virtù salvifica di questa, si converte al cospetto del cardinale Federigo Borromeo e cambia vita. Si dedica così all’espiazione dei propri peccati per mezzo delle buone azioni. La prima delle quali è donare alla giovane cento scudi, con i quali al termine della vicenda Renzo potrà finalmente rilevare insieme a Bortolo un’attività di filatura.
L’innominato, storicamente, è Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Ghiara d’Adda presso Treviglio, contro il quale il governatore di Milano emise diverse gride tra il 1603 e il 1614. Egli fu poi convertito da Federigo.
L’identità
Manzoni tuttavia preferisce non specificare la sua identità, nonostante citi una serie di passi da opere che parlano di lui, soprattutto dalla vita del cardinale Federigo Borromeo di Francesco Rivola e dalla Storia Patria di Giuseppe Ripamonti, una delle sue fonti più importanti.
Addirittura, la definizione di questo personaggio, al cui passato viene dedicata una breve digressione nel capitolo 19, si fa più vaga nel passaggio dal “Fermo e Lucia” all’edizione successiva: se prima si chiamava il Conte del Sagrato, con riferimento a un omicidio da lui perpetrato, appunto, in un luogo sacro come il sagrato di una chiesa, nella stesura definitiva egli è semplicemente l’innominato, proprio perché le cose o le persone di cui si sa meno sono quelle che fanno più paura.
Il confronto con gli altri personaggi
E l’innominato è, effettivamente, un uomo spaventoso, grande nel male come sarà poi nel bene, che per certi tratti, sia nella descrizione fisica che nel carattere, ricorda Fra Cristoforo.
È quanto più lontano possibile, invece, dalla figura di don Rodrigo, del quale dovrebbe essere «collega», tanto che quest’ultimo esita a lungo prima di chiedere il suo aiuto, per paura di trovarsi invischiato in qualcosa di sgradevole.
L’uno infatti, dice Manzoni, è un «tiranno straordinario», che vuole primeggiare per il gusto di farlo e non ha timore di nulla; l’altro invece fa parte della schiera di quei «tiranni ordinari» il cui scopo nell’esercitare il potere è semplicemente poter darsi alla bella vita senza nessun intoppo.
Anche la descrizione della sua dimora, il «castellaccio» dell’innominato (capitolo 19), isolato e minaccioso, si può contrapporre a quella del palazzotto di don Rodrigo (cap. V), e sottolinea la distanza che corre tra i due personaggi.
La crisi interiore
Egli dunque, impegnatosi a rapire Lucia con l’aiuto di Egidio, suo complice, pensa di farla condurre direttamente a casa di don Rodrigo, ma un «no imperioso» gli risuona dentro convincendolo a tenerla una notte presso di sé: è questa la chiamata della Provvidenza, alla quale però l’innominato è pronto a rispondere positivamente perché già da tempo si arrovella sul senso della propria vita di fronte alla morte ormai prossima.
Una visita a Lucia lo conduce a una crisi dalla quale pensa di uscire suicidandosi, ma il pensiero delle parole della giovane
lo risolleva e lo fa sperare in una rinascita che, simbolicamente, arriva all’alba con il suono delle campane a festa per la visita del cardinale.
Una nuova vita
Tra le braccia di Federigo Borromeo, che lascia tutti i suoi ospiti ecclesiastici – tra i quali don Abbondio – per accogliere «la pecorella smarrita» nonostante il cappellano crocifero lo inviti alla prudenza, l’innominato si scioglie in un pianto liberatorio che segna l’inizio della sua nuova vita: una vita che, seppure cambiata nel segno, dal male al bene, non cambia nell’intensità, come si vede dal discorso tenuto ai suoi bravi di ritorno al castello (capitolo 24).
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.
Stese le braccia al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento. L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: «Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!».
L’innominato si dedicherà alle opere di misericordia, liberando per prima cosa Lucia e riunendola a sua madre; poi sarà anche pronto ad accogliere i fuggitivi durante la calata dei lanzichenecchi (capitolo 29).