Colosso di Rodi
Più di duemila anni fa il dio del sole Helios si ergeva sulle tiepide acque egee di cui si bagnavo le coste dell’isola di Rodi. Una divinità tangibile e bronzea, immensa e assoluta come lo spirito di chi investì la grandezza dell’umana forza per esprimere gratitudine alla divinità protettrice. Il Colosso di Rodi, realizzato nel IV a.C., accoglieva i naviganti e ricordava loro la potenza divina che gli aveva sottratti alla guerra, memoria che viene rinforzata dalla presenza della statua bronzea nel novero delle sette meraviglie del mondo antico.
Cenni storici
Nel IV secolo a.C. l’isola di Rodi presentava un impianto di tipo ippodameo, ovvero una pianificazione del tessuto urbano realizzata partendo dalla tracciatura delle strade e la successiva distribuzione diversificata degli edifici, permettendo una netta separazione tra aree pubbliche, private e sacre. L’ isola era organizzata in terrazzamenti ed era dotata di una cinta muraria di cui, grazie a delle indagini archeologiche, è stato possibile individuare la fase classica e quella ellenistica, probabilmente realizzata dopo l’assedio di Rodi da parte del re macedone Demetrio Poliorcete nel 305 a.C. .
Lo scontro con i macedoni era nato in seguito ai tentativi di interrompere i vantaggiosi rapporti tra l’isola di Rodi e l’Egitto, complicità che ostacolava la politica degli Antigonidi.
La conquista dell’isola avvenne con i mezzi più alti che l’arte poliorcetica poteva elargire: lo storico siceliota Diodoro Siculo (90 a.C. circa – 27 a.C. circa) raccontava della costruzione di una torre con ruote chiamata “Helepolis”, realizzata dall’ingegnere Epimaco, necessitava di 3400 uomini per essere manovrata (Βιβλιοθήκη ἱστορική, Biblioteca storica, XX, 5-6). Nonostante il considerevole coinvolgimento di uomini e armi, Demetrio fu obbligato ad arrendersi e a firmare la pace con Rodi.
L’acropoli della città era situata sull’altura naturale del Monte S. Stefano, luogo che restituì le tracce del santuario di Atena e Zeus Poliadi e quello di Apollo Pizio, al di sotto della quale era collocato l’Odeion.
“La presenza di tombe monumentali come il cosiddetto Ptolemaion nei dintorni di Rodi o le altre grandi tombe nelle necropoli della stessa Rodi o l’archokrateion sono gli esempi più imponenti di una produzione di monumenti funerari tipologicamente varia e di grande impatto visivo che fanno di Rodi uno dei centri più interessanti per lo studio della architettura funeraria, di cui tuttavia ancora manca una trattazione complessiva” (CALIÒ).
Ricostruzione storica ed iconografica del Colosso di Rodi
Uno dei riferimenti più completi attestanti l’esistenza del Colosso di Rodi è da attribuirsi a Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.):
“Ma sopra tutti fu ammirato il Colosso del Sole in Rodi, opera di Chares Lindio discepolo di Lysippos. Fu dell’altezza di 70 cubiti questo simulacro, il quale poi cadde a terra dopo 66 anni a causa di un terremoto; ma anche a terra è uno spettacolo meraviglioso. Pochi arrivano ad abbracciare il pollice; le sue dita sono più grosse di molte statue. Vaste caverne si aprono nelle fratture della membra; e dentro si vedono dei sassi di grande mole, col peso dei quali l’artista aveva consolidato la massa durante la costruzione. Dicono che fu fatto in dodici anni e con 300 talenti che si erano ricavati dalla vendita del macchinario bellico abbandonato davanti a Rodi dal re Demetrio stanco del prolungarsi dell’assedio” (Naturalis Historia).
I 300 talenti indicati nel brano vennero utilizzati per la realizzazione del Helios Eleutherios. La storia classica rimanda alla memoria la tradizione di dedicare enormi statue per la salvezza ottenuta, come nel caso dello Zeus Eleutherios, costruito dopo la cacciata dei tiranni Dinomenidi di Lindo, nel V secolo a.C. .
Nonostante i numerosi riferimenti filologici, sono poche le informazioni legate all’aspetto e alla precisa collocazione del Colosso di Rodi: per il geografo e storico greco Strabone (60 a.C. –24 d.C.) il Colosso di Rodi, in seguito al terremoto del 227- 226 a.C. che ne aveva provocato la distruzione, venne nuovamente ricostruito in età romana-imperiale su volontà di un oracolo.
Filone di Bisanzio (280 a.C. – 220 a.C.) riportò alle cronache che la statua, realizzata in bronzo, era stata costruita assemblando pezzi fusi separatamente e in seguito giustapposti in progressione a partire dai piedi: tale supposizione è in netto contrasto con l’ipotesi più recente di un’esecuzione a martellatura su metallo.
L’aspetto del Colosso, secondo Albert Gabriel, era quello di un bellissimo kouros (scultura greca del periodo arcaico) dotato di torcia e lancia, descrizione che coinciderebbe con le serie montali dell’isola.
La ricostruzione iconografica del Colosso è stata facilitata dal ritrovamento di due reperti scultorei, probabili copie della statua bronzea: la testa fittile di Rodi, con dei fori sulla testa che lascerebbero pensare alla presenza di una corona ed identificata con Helios, e la statua in marmo di poro che, rivenuta a Santa Marinella e conservata a Civitavecchia, risale ad al periodo adrianeo (117 – 138 d.C.).
Nella statua di Santa Marinella il kouros ha una faretra sulle spalle e probabilmente nella mano destra porgeva una fiaccola, mentre nella sinistra un arco che fungeva da sostegno.
In un epigramma dell’Antologia Palatina, da molti considerato un carme celebrativo all’opera, compare un riferimento alla luce, precisamente alla “luce che brilla in mare e in terra“, espressione che confermerebbe la presenza della torcia nelle mani del rinomato Colosso di Rodi.
Per quanto riguarda la collazione è davvero molto difficile esprimere un responso conclusivo:
dalle note incisioni di Maarten van Heemskerck (1498 – 1574) e Joseph Emanuel Fischer von Erlach (1693 – 1742), il Colosso era posto a gambe divaricate all’entrata del porto, con i piedi separati e posti sulle due sponde.
Questa figurazione, ormai fortemente consolidata nell’immaginario collettivo, deve la sua sussistenza alla testimonianza di un italiano: Niccolò de Martoni, tornato da un viaggio a Rodi nel 1394, riportò ai contemporanei che le tradizioni locali parlavano dell’ubicazione del Colosso nell’attuale porto di Mandraki, nei pressi nel forte di San Nicola.
L’archeologo inglese Reynold Higgins (1916 – 1992) indicando certe discrepanze logistiche sulla presenza di alcuni frammenti nei pressi del forte, suppose che il Colosso era un tempo posizionato nelle vicinanze del Tempio di Helios, nel quale era custodita la “Quadriga del Sole” realizzata dallo scultore greco Lisippo (390/385 a.C. –306 a.C.).
Un contributo importante alla definizione dell’esatta collocazione fu dato dal classicista tedesco Wolfram Hoepfner che, attraverso l’esame dei blocchi in marmo grigio – blu presenti nella zona nord est del forte di S. Nicola, rilevò il basamento del Colosso, talmente alto che probabilmente fungeva anche da cinta muraria difensiva.
Per Hoepfner la statua presentava la mano destra alzata in un gesto di saluto e la sinistra, per ragioni statiche, era poggiata su una roccia. Gli ultimi frammenti del Colosso furono venduti ad un mercante arabo che, grazie all’ausilio di 900 cammelli, li trafugò da Rodi nel VII secolo d.C. .
Note Bibliografiche
D. Barbagli, Le sette Meraviglie del mondo antico, Giunti, Firenze, 2003
L. M. Caliò, Un architetto a Rodi. Amphilochos di Laago, (2008)
http://www.raco.cat/index.php/SEBarc/article/viewFile/208187/277370 [Accesso: 11/02/2016]