Intervista a Carmine Castoro
Carmine Castoro. Giornalista, collaboratore e inviato per quotidiani e magazine nazionali, autore di numerosi programmi per il palinsesto notturno della RAI e per canali Sky. Da alcuni anni si dedica assiduamente allo studio filosofico di alcuni format televisivi, dopo aver incentrato gran parte della sua carriera professionale sui cosiddetti “fenomeni estremi”, con reportage su trasgressione, prostituzione, manicomi, droga, malasanità, psicosette, devianze giovanili, pedofilia e molto altro.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta “Roma erotica” (Castelvecchi, 1997), ha rivolto i propri studi verso le logiche televisive, soprattutto grazie al volume “Crash Tv. Filosofia dell’odio televisivo” (Coniglio 2009).
Nel gennaio del 2012, ha portato a termine un libro che, in poco tempo, non ha mancato di far discutere addetti ai lavori e semplici lettori, dal titolo emblematico “Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo” (CaratteriMobili). In un’intervista, le sue convinzioni sulla televisione e i media in generale.
Da “Crash Tv” a “Maria De Filippi ti odio”. Quale il percorso dall’uno all’altro testo e, soprattutto, quali differenze tra i due lavori?
In “Crash tv” ho utilizzato come suono onomatopeico il crash, appunto, nel senso di attrito fra due placche da me individuate, nella fattispecie il mondo esistenziale classico, i modelli antropologici da sempre condivisi, e dall’altra parte il mondo virtuale, da internet alla televisione. Lì era in atto uno scontro che, probabilmente, con questo nuovo libro, io ritengo superato: volendo usare ancora una volta un’allegoria sonora, possiamo dire che oggi siamo finiti nello “splash”. Non c’è più quel sisma, quella oscillazione di significati, quello scontro, ma siamo noi completamente immersi iconograficamente in questo acquario che è la televisione. La tv, oggi più che mai infatti, ed è proprio questa la soglia di pericolo che io individuo, non accoglie più le nostre istanze, non rappresenta più il nostro mondo, non è più, soltanto, un moltiplicatore di sensazioni com’era un tempo, ma è un sistema, uno strumento vero e proprio che produce il reale.
La tv modula le nostre sensibilità e ci trasforma in tanti abitanti acquatici di questo mondo, dove tutto è abbastanza definito e dove è sempre più alta la soglia di criticità rispetto a quello che ci propone.
Andando al cuore della questione. Più che “chi è”, “che cos’è” Maria De Filippi? Sia per l’immaginario comune e sia per lo studioso, per il massmediologo, come nel tuo caso specifico?
In effetti, è una giusta osservazione questo individuare una caratteristica inorganica della De Filippi, la quale forse è proprio un acceleratore del suo stesso fascino… In verità, il concetto di odio va al di là della persona umana: il libro non vuole disperdersi in gossip di nessun tipo, su come veste, sul tono di voce o su altro, cose per giunta già raccontate e ironizzate altrove. Per me, la De Filippi è il “sole nero”, l’epicentro di un sistema massmediatico che secondo me è malato, collassato. I miei richiami vanno a grandi opere di grandi pensatori, dalla filosofia alla psichiatria, discipline mediante le quali, come un grimaldello, ho tentato di scardinare i format televisivi esaminati. In lei, in breve, vedo questo collasso totale della parola, dell’immagine: la creazione di un universo parallelo che è sognante, che è paradisiaco rispetto alle frustrazioni, alle mortificazioni che viviamo giorno per giorno, nella vita vera. Il rischio è questo processo di falsificazione minimale.
Una delle accuse che muovo alla De Filippi è proprio quella di aver inventato questa “chimera del falso”, come la chiamo nello specifico: non ci sono più parametri di riferimento, non ci sono più dicotomie tra vero e falso, ma c’è solo l’evidenza falsificata fin dall’inizio. C’è dunque una spirale del vero e del falso che non ci permette mai di venirne a capo. È quello che alcuni studiosi ai quali io mi richiamo definiscono “la retorica dell’osceno”, qualcosa che va al di là del pornografico.
Che idea hai in merito ai cosiddetti reality o pseudo-reality show? Dal Grande Fratello alla Talpa all’Isola dei Famosi?
Ritorniamo sempre allo stesso discorso di falsificazione di cui sopra. Per capire ancora meglio quel cortocircuito che si crea tra reale e fittizio pertanto, basta osservare che anche quest’anno, purtroppo, è ricominciato quel grande “baratro di demenza” che è “L’isola dei famosi”. E, guarda caso, proprio nello stesso periodo noi assistiamo ad un naufragio vero, con i morti, qui da noi, in Italia. A volte anche questa sorta di confusione, di velocizzazione di significati, non depone a favore di quella certa presa sulla realtà che invece noi, fruitori, dovremmo sempre avere. Da una parte c’è un naufragio vero, con una nave ancora in mezzo al mare, e dall’altra c’è questo baraccone pseudo-fiabesco dei finti naufraghi che fanno finta di mangiare cocchi e granchi su un’isola dove tutto è ricreato ad hoc. Nonostante alcuni giornali abbiano sollevato o meno la polemica sulla necessità di partire o no con questo programma, guarda caso, ancora una volta, il format è partito.
Siamo ad un vicolo cieco allora? O ci sono spiragli di luce?
La centralizzazione dei palinsesti televisivi fa sì che noi pensiamo che ormai certe cose sono inesorabili, ineluttabili, e che dobbiamo tenercele così, in nome di una logica commerciale inequivocabile: i bilanci lo impongono, la gente vuole quello, gli sponsor gradiscono e tutto deve andare così. Bé, questo non è vero. Non è vero perché se Fiorello ha battuto il Grande Fratello, facendo un ascolto del 50 %, praticamente come una finale dei mondiali di calcio, se lo stesso contestato Santoro ha fatto incassare milioni di euro di pubblicità alla Rai, se le stesse letture di Dante di Roberto Benigni o se Saviano che parla venti minuti di fila (che è la cosa meno televisiva del mondo), hanno fatto il 40 % di share, ebbene, significa che la gente ha ancora voglia di salvarsi. Magari semplicemente ascoltando cose più concrete, più stimolanti, non solo culturali. Quindi, un’altra strada è possibile.
Intorno a questo discorso sarebbe bello creare anche un movimento di pensiero: non nego che il mio sogno personale è quello di portare in piazza un movimento di opinione contro un certo tipo di televisione, contro queste sacerdotesse, queste streghe del consenso contro cui cerco di, filosoficamente, di lottare.