Il cinque maggio: testo della poesia e commento
Si intitola Il Cinque Maggio ed è un’ode che celebra la data in cui morì Napoleone Bonaparte, sull’isola di Sant’Elena, in esilio (nell’oceano Atlantico meridionale, vicino all’Angola). Questa celebre poesia fu scritta da Alessandro Manzoni nello stesso anno in cui l’imperatore francese morì: il 1821.
Approfondimento
La struttura della lirica
La struttura di questa opera, paragonata all’ode civile Marzo 1821, è più complessa. L’ode qui analizzata fu composta di getto da Manzoni, dopo che a Milano giunse il 16 luglio la notizia della morte di Napoleone. Essa ebbe un enorme successo in Italia e all’estero, e fu subito tradotta in tedesco da Goethe e da altri in altre lingue. E’ tuttora ritenuta, nonostante la forma grezza e qualche disarmonia, la più bella poesia scritta in onore di Napoleone, fra le tante che furono scritte anche da altri celebri poeti (come Silvio Pellico, Lord Byron, Lamartine, Béranger).
Manzoni e Napoleone
Il Manzoni, che non ha mai esaltato né vituperato Napoleone quando era vivo, ora che è morto, si fa interprete della generale commozione, e ne ripercorre le fasi frenetiche dell’ascesa, della grandezza e della sconfitta. Nella solitudine di Sant’Elena, il ricordo della passata grandezza e l’umiliazione della prigionia lo avrebbero fatto piombare nella disperazione, se Napoleone non avesse trovato rifugio e conforto nella fede in Dio. Alla luce della fede a Napoleone si schiarì l’oscuro destino della sua vita, che è poi quello di ogni uomo sulla terra. Ogni uomo infatti, sia quello di eccezione, in cui sembra che Dio abbia impresso un segno più grande del suo spirito creatore, sia quello umile e modesto, vive assolvendo il compito che Dio gli assegna.
Napoleone fu sotto tanti aspetti uno strumento della Provvidenza nell’evoluzione della storia europea del suo tempo, che sotto il suo impulso si scrollò di dosso le vecchie strutture feudali e si avviò alla vita moderna. Ma egli, per orgoglio ed egoismo, spesso trascese il fine assegnatogli e pagò con la sconfitta e l’esilio i suoi errori.
La fede ritrovata non solo gli fece comprendere le contraddizioni della sua vita, ma gli diede conforto e sostegno e “l’avviò, per i floridi sentieri della speranza”, al premio della beatitudine eterna. L’ispirazione dell’ode pertanto non è soltanto epico-drammatica, come riteneva la critica romantica, che si compiaceva del rilievo dato alle forti personalità, ma è anche, anzi è soprattutto religiosa, analoga a quella del coro in cui è rappresentata la morte di Ermengarda, nell’Adelchi.
Napoleone ed Ermengarda soggiacciono allo stesso destino di dolore, riconoscono umilmente l’azione purificatrice e plasmatrice della «provvida sventura», sono entrambi spiriti eletti, toccati dalla Grazia, e trovano, oltre la morte, il premio che supera tutti i desideri umani, l’appagamento dell’ansia d’infinito, che ci travaglia in terra.
Ecco il testo completo dell’ode Il Cinque Maggio :
Il cinque maggio: testo completo
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l’avvïò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trïonfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.