Intervista a Michele Iula
Michele Iula. Laureato in Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi di Teramo, giovane giornalista pugliese, da anni segue le vicende legate alla sanità nazionale, con taglio preciso e puntuale, scevro da condizionamenti politici ed economici. Nel 2012 fa il suo esordio nel giornalismo d’inchiesta, con un saggio dal titolo emblematico, pubblicato dalla casa Editori Internazionali Riuniti: “Caduti in corsia. Viaggio in un’Italia malata”.
Una sorta di manuale di “non-sopravvivenza”, nel quale viene raccontato – dati alla mano – tutto il malaffare che ruota intorno al Sistema-Salute nazionale, senza dimenticare di citare, e analizzare, anche le poche realtà virtuose d’Italia: mosche bianche in un cupo pulviscolo costellato di errori sanitari, diagnosi sbagliate, interventi chirurgici senza risveglio e, soprattutto, scandali, tangenti e corruzione dilagante. Intervistato, il giovane e brillante giornalista ha risposto ad alcune domande mirate, facendo il punto sulla situazione.
Da termine di paragone positivo di un tipo di welfare illuminato, che trovava nella sanità il proprio fiore all’occhiello, l’Italia sta diventando un paese sempre più vittima di cattiva gestione e mala sanità, intendendo con quest’ultima espressione tanto l’inefficienza medica che quella politico-istituzionale. Come e quando è accaduto tutto questo?
Intendiamoci, l’idea che sta alla base del nostro Sistema sanitario nazionale è eccellente. La tutela della salute, cristallizzata nell’articolo 32 della Costituzione, è il presupposto dal quale non possiamo permetterci di scostarci. L’accesso universalistico alle cure, per il quale chiunque può recarsi in ospedale per farsi curare, è l’elemento principe della bontà del nostro sistema. Solo che, negli anni, abbiamo assistito ad un vero e proprio scempio. Le risorse, 110 miliardi, messe a disposizione delle regioni, troppe volte sono state sperperate o hanno preso direzioni diverse dall’obiettivo che dovrebbe essere l’efficienza dei servizi. Ogni regione, poi, ha agito con sistemi propri, e così si sono create delle differenze sostanziali che hanno allontanato ancora di più il Nord dal Sud. Ma, vorrei precisarlo, quando si parla di “malasanità”, non c’è differenza tra le due aree del Paese.
Prendendo come basilari i dati preoccupanti che hai analizzato nel tuo libro, ad oggi, secondo te, è possibile unicamente arginare questa deriva, o si può ancora invertire la rotta?
Certo, anzi si deve cambiar rotta, altrimenti rischiamo di perdere anche gli elementi positivi del Sistema Sanitario Nazionale. Il tema da riportare all’attenzione è quello dei controlli. Il senatore Ignazio Marino (Pd), presidente della commissione parlamentare sull’efficienza del Sistema Sanitario, ha proposto più volte il tema dell’Authority, ma non è mai stato accolto. Servono misure stringenti, insieme ad un importante processo di rinvigorimento delle professionalità nelle tecnostrutture. Capita spesso, soprattutto al Sud, che i dipendenti (dirigenti e funzionari) delle aziende, non abbiamo le competenze per ricoprire i propri incarichi. Anche in uffici particolarmente importanti per la definizione delle spesa. E questo non può essere certo un bene se si vogliono allocare nel miglior modo disponibile le risorse. Soprattutto in periodi come questi, con i tagli che si prefigurano all’orizzonte.
Quali le regioni maggiormente colpite negli ultimi anni da sistemi di mala sanità e in che modo? Ci sono elementi “tristemente comuni”?
Basta guardare i risultati della commissione sugli errori sanitari, presieduta da Leoluca Orlando (Idv). Nell’ultimo periodo di riferimento, da aprile a settembre 2011, i presunti casi di malasanità registrati sono 470, di cui 329 terminati con la morte del paziente. Ancora una volta il record spetta a Calabria, Sicilia e Lazio, le tre regioni che segnalano oltre la metà dei casi (239). Anche sul fronte dei decessi la maglia nera spetta alla Calabria. E’ un caso che queste regioni abbiano i conti disastrati? Evidentemente no, se si pensa che la sanità assorbe mediamente i due terzi dei bilanci regionali. Il risultato? I cittadini pagano più tasse ed hanno servizi peggiori. Di conseguenza, sono costretti ad alimentare le cifre della cosiddetta “mobilità passiva”, i viaggi della speranza delle famiglie per curarsi al nord. Con conseguente esborso di denaro.
Quali, invece, i modelli positivi e come fare per evitare che non restino solo sparute eccezioni?
Emilia Romagna, Toscana e Lombardia possono già dare qualche spunto in questo senso. Emilia e Toscana si fanno concorrenza nel miglioramento dei servizi, con alcuni progetti pilota che esportano addirittura in Cina. Entrambe le regioni, puntano con decisione sul vero valore aggiunto dell’offerta sanitaria: il senso civico ed i controlli pressanti dei cittadini sulla qualità dei servizi. Se ci sono gli “anticorpi”, gli aspetti patologici del sistema fanno fatica a progredire. Per queste ragioni, è questa forse la parte d’Italia che funziona meglio: è la “Linea Gotica” della governance, che divide il nord dal sud del Belpaese.
Possibile che un Paese che ha sostenuto in quasi tutte le sue fasi storiche di governo il sistema pubblico sanitario, puntando e investendo risorse umane ed economiche, debba oggi pensare al privato quale unica forma di risoluzione dei problemi? (Per giunta in un momento storico in cui, si guardi agli Stati Uniti, il sistema privatistico del welfare sembra aver dichiarato il proprio fallimento, ritornando indietro sui propri passi e anzi capovolgendo i propri assiomi di partenza). È davvero questa la strada?
Il sistema non guarda al privato. Solo che, quest’ultimo, è indirettamente favorito dalle inefficienze del pubblico. Non è una bella prospettiva per un Paese che ha cercato di favorire – giustamente – la sanità pubblica. Bisogna però precisare che il privato accreditato, in Italia, può essere equiparato al pubblico: il sistema dei rimborsi fa si che le cliniche vengano pagate con i soldi dei contribuenti. Dunque, non è questo il punto. Serve creare un equilibrio che garantisca tutte le fasce sociali. Altrimenti sì che lo sfascio del pubblico diventa il pretesto per ingrassare il privato.