In memoria di Leonardo Bellanca
Accade che all’improvviso un amico al quale più volte a settimana invio da anni ed anni i miei scritti non li legga più.
Non me ne accorgo subito.
O fingo invero di non avvedermene per il timore che – abbiamo tutti una certa età – qualche cosa di indicibile sia accaduto?
Così solo oggi, a distanza di qualche settimana, deciso finalmente a sapere cosa significasse il suo tacere, ho verificato che Leo, in quel di Andora dove lasciata Milano da un quarto di secolo viveva con l’amata Noemi, se ne è improvvisamente andato.
Leonardo Bellanca, Leo, è una delle persone alle quali devo riconoscenza assoluta.
Generoso di sé e del suo sapere, in un momento di grave mia difficoltà, senza interessi personali, per pura generosità, mi ha insegnato – dandomi modo poi di esercitarlo a lungo in quel di Pavia – il mestiere più bello, quello di formatore, prima dello scrivere, tra quanti nella mia vita sempre sospesa io abbia esercitato.
Continue, dopo, fino al 2010, le nostre frequentazioni dato che ogni qual volta io fossi a Pietra Ligure al mare trovavo modo di andarlo a trovare.
Ho vergato poco fa un altro ‘In memoria di Leonardo Bellanca che uscirà nei miei siti.
Mi piace qui invece aggiungere il divertissement che una simpatica sua specificità mi ha spinto a mettere in pagina anni fa.
Questioni di vita, stretta.
Il requisito al quale maggiormente, se non esclusivamente, guardava L. B. allorquando – nelle vesti di amministratore dell’elegante e prestigioso palazzetto in centro Milano nel quale aveva altresì studio – doveva scegliere la portinaia era che fosse una capace pantalonaia.
L. B., ahi lui, tendeva difatti all’ingrasso e – causa l’età, maledizione – soprattutto in vita.
Non accettando l’idea di dare ragione alla consorte che, ove i pantaloni – dove s’allaccia la cintura, appunto – si fossero palesati stretti, gli avrebbe detto con l’insopportabile aria di un rimprovero frammisto a commiserazione “Stai ingrassando!”, quando occorreva, salita a piedi (l’indispensabile esercizio fisico al quale si sottometteva!) la rampa di scale ed entrato in studio, indossata la comoda vestaglia colà conservata, chiamava la predetta guardaporta, le affidava i pantaloni e, attendendo al lavoro senza costrizioni poco gradevoli, aspettava ella tornasse a mansione compiuta.
Ebbi all’epoca – conosciuto l’intracchen – a saziare la mia curiosità chiedendo a L. B. come mai i suoi pantaloni avessero margine per essere allargati anche più di una volta quando mi rispose che da sempre li faceva su misura da un complice sarto che, a parte della necessità, era generoso appunto nel margine.
Per quanto il discorso sembrasse filare, non convinceva, dacché mi rappresentava infine una consorte allocca, che non s’era mai avveduta e ancora non s’avvedeva dell’articolato malaffare.
M’occorse in avanti d’incontrare più volte in circostanze mondane la Signora e di raggiungere quel grado di compiacenza che permette di avanzare, su temi in fondo fatui, domande alquanto indiscrete.
“So perfettamente”, confidò a quel mentre l’assennata donna, “come nasce e sviluppa la faccenda dei pantaloni di L..
Vuole non me n’avvedessi?
Ho pensato di fare la gnorri in merito.
Gli ho lasciato e gli lascio a ciò uno spazio di libertà.
Almeno uno dovrà pure averne?!
Ma guardi che L. – lo negherebbe se interrogato in ragione – sa benissimo che io so.
Finge con lei e con gli altri ai quali racconta la storia delle braghe.
Non finge affatto con se stesso!