Enrico IV di Pirandello: trama e storia dell’opera
Il 24 febbraio 1922 fu rappresentata per la prima volta al Teatro Manzoni di Milano la tragedia in tre atti Enrico IV di Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936), drammaturgo, scrittore e poeta italiano, che nel 1934 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura.
L’opera appartiene a quella che viene definita la Terza Fase del teatro pirandelliano, il “teatro nel teatro”, dopo il “teatro siciliano” ed il “teatro umoristico/grottesco”, e prima del “teatro dei miti”.
Enrico IV fu scritto per Ruggero Ruggeri (Fano, 14 novembre 1871 – Milano, 20 luglio 1953), uno degli attori più noti del periodo, che faceva parte della “Compagnia del Teatro D’arte”, fondata a Roma dallo stesso Pirandello il 6 ottobre 1924.
La trama
La tragedia inizia con il racconto dell’antefatto. Un nobile del primo ‘900, di cui non viene mai fatto il nome, partecipa ad una festa in maschera travestito da Enrico IV. Egli ha scelto di vestire i panni di quel sovrano per poter stare vicino alla donna amata, Matilde di Spina, mascherata da Matilde di Canossa.
All’evento partecipa anche il barone Belcredi, suo rivale in amore, che disarciona da cavallo Enrico IV, il quale cade battendo violentemente la testa. A seguito del trauma subìto, Enrico IV si convince di essere davvero il personaggio storico di cui portava le vesti.
Credendolo pazzo, tutti lo assecondano ed il nipote di Nolli cerca di alleviare le sue sofferenze per dodici anni ricostruendo l’ambientazione in cui aveva vissuto il vero sovrano. Trascorso questo tempo, Enrico guarisce e si accorge che era stato Belcredi a farlo cadere intenzionalmente per toglierlo di mezzo e poter sposare la donna contesa da entrambi. Infatti, dopo l’incidente, Matilde era scappata con Belcredi, si erano sposati ed avevano avuto una figlia. Enrico decide di continuare a fingersi pazzo per riuscire a sopportare in qualche modo il dolore che gli procura la presa di coscienza della realtà.
Dopo venti anni dall’incidente, si ritorna al presente, come all’inizio. Matilde con Belcredi, la loro figlia, Frida, e uno psichiatra fanno visita ad Enrico. Lo psichiatra è molto incuriosito dal suo caso, e , per farlo guarire, consiglia di ricostruire l’ambientazione di venti anni prima e di ripetere la caduta da cavallo.
Durante la messa in scena, Enrico si trova davanti la figlia della donna che ama da sempre e per la quale è costretto a fingersi pazzo. La giovane Frida è identica alla madre, quando aveva la sua età, ed Enrico non può fare a meno di abbracciarla. Belcredi non tollera che Enrico si avvicini alla figlia, ma, quando tenta di opporsi, Enrico sguaina la spada e lo ferisce a morte. Per sfuggire alla realtà di dolore, che per di più lo costringerebbe anche ad un processo e alla prigione, Enrico si rassegna a vivere per sempre fingendosi pazzo.
Preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia […] questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere […] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! – Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. […] La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non l’ho vissuta! (Enrico IV, atto terzo)
Questa tragedia mette in evidenza il relativismo psicologico in cui credeva Pirandello. Tutti gli uomini nascono liberi, ma il Caso interviene impedendo loro di esprimere le proprie volontà, imprigionati come sono dalle convenzioni di società precostituite, in cui ciascuno ha un ruolo prefissato.
L’io non riesce a venire fuori, e così non c’è comunicazione tra esseri umani, perché ciascuno è costretto ad indossare una maschera, dietro la quale si nascondono infiniti io. Un concetto che viene espresso nel romanzo Uno, nessuno, centomila: l’individuo è uno, perché ogni persona crede di essere unica e avere caratteristiche peculiari; centomila, perché ciascuno ha, dietro la maschera che indossa, tante personalità quante sono le persone che lo giudicano; nessuno, perché nel suo continuo cambiare personalità non può dare mai spazio al suo vero io.
Da qui deriva inevitabilmente l’incomunicabilità tra individui, perché ciascuno ha un proprio modo di vedere, e non esiste un criterio oggettivo ed universale su cui basare uno scambio di opinioni. Questo crea solitudine ed emarginazione dalla società, ma anche da se stessi, in quanto l’io è sempre frammentato, nonostante gli sforzi per trovare un senso all’esistenza e all’identificazione di un ruolo che vada oltre la maschera.
Pirandello pone tre tipi di reazioni degli individui a questo relativismo: una reazione passiva, in cui si accetta la maschera e l’infelicità che ne consegue, senza opporre resistenza, come nel caso de Il fu Mattia Pascal; oppure una reazione ironico-umoristica, come ne La patente, in cui si accetta la maschera con un atteggiamento ironico e aggressivo, cercando almeno di trarne vantaggio.
Oppure c’è una reazione drammatica, come nel caso di Enrico IV: l’uomo si rende conto che l’immagine che ha sempre avuto di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui, e cerca di comprendere questo lato sconosciuto del suo io.
Vuole togliersi la maschera che gli hanno imposto, ma non riesce a strapparsela di dosso, ed egli sarà sempre come gli altri lo vogliono, anche se continuerà a lottare per impedirlo, arrivando fino alle tragiche conseguenze delle pazzia, del dramma e del suicidio.
L’unico modo per vivere e trovare il proprio io è accettare il fatto di non avere un’identità, ma tanti frammenti, essere consapevoli di essere completamente alieni da se stessi. Eppure, la società non accetta questo relativismo, e chi lo fa è ritenuto pazzo.
Dell’Enrico IV sono state fatte due trasposizioni cinematografiche, una del 1943, per la regia di Giorgio Pàstina, e uno del 1984, per la regia di Marco Bellocchio.