Breve storia di Pompei
Alla morte del grande imperatore Vespasiano, avvenuta il 23 giugno del 79, suo figlio Tito eredita un impero florido, dinamico e pacificato. Di animo gentile, il nuovo imperatore si appresta a calcare le orme paterne nella tutela della pace sociale e militare, desideroso di vedere il suo popolo crescere e prosperare. Non immagina che di lì a poco, su una zona dell’impero, si abbatterà una immane tragedia che avrà risonanza perpetua nei secoli a venire.
L’ammiraglio e scienziato Gaio Plinio Secondo, più noto come Plinio il Vecchio, autore della celebre “Naturalis Historia”, nell’estate di quello stesso anno si trova a Miseno, nell’ameno golfo di Pozzuoli, al comando della flotta imperiale romana, la “Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex”. Egli vive con una sorella rimasta vedova e con il promettente figlio di lei, Plinio, che per distinguerlo dallo zio verrà detto “il Giovane”.
Quasi cinquantaseienne, pur rimanendo nel servizio militare attivo, è ormai quasi del tutto dedito ai suoi studi, immerso nella tranquillità, nella mitezza del clima e nella suggestione della natura incantata di quello scorcio di mondo che egli stesso definisce “Campania felix”. Dalla cima di Capo Miseno, che si erge per oltre 160 metri, si domina l’intero golfo di Pozzuoli e si apre la vista sul golfo di Napoli, con il Vesuvio sullo sfondo e le antichissime città, erette sulle sue pendici, di Pompei, di origine osca, poi sannita e quindi romana, Ercolano, Stabia ed Oplontis (che, più che una città, è una zona suburbana di Pompei).
Ed è per l’appunto immerso nelle sue letture, Plinio, nella tarda e calda mattinata del 24 agosto 79, quando sua sorella lo distoglie per indicargli una strana nube all’orizzonte, verso i monti. L’uomo si alza e va alla ricerca di un punto che consenta una vista migliore di quella nuvola che s’innalza a formare un fungo dai colori cangianti fra il bianco e il grigio scuro. Gli è subito chiaro che qualcosa di grave, spaventoso ma anche estremamente interessante, dal punto di vista scientifico, sta accadendo, e la sua tipica ostinata curiosità di studioso lo porta subito a superare ogni esitazione ed a decidere di salpare per poter osservare più da vicino il fenomeno.
La sua decisione viene ulteriormente rafforzata quando, poco dopo, gli giunge la richiesta di aiuto della nobildonna romana Rectina, moglie di Tasco – entrambi suoi amici – la cui villa sorge ai piedi del Vesuvio. Plinio comprende dunque che si tratta di un’eruzione vulcanica e predispone la sua spedizione che, a questo punto, assume il carattere di soccorso alla gente del posto. Dirige verso Stabia, a sud di Pompei e dello stesso Vesuvio, per raggiungere il suo amico ed amanuense Pomponiano. Intanto sta calando la sera e sulle navi in avvicinamento piovono già cenere e detriti.
Giunto a casa dell’amico, che trova spaventatissimo tanto per quella pioggia inquietante quanto per le fiamme che la montagna sprigiona in lontananza, lo tranquillizza e, dopo aver cenato, chiede di poter riposare. Poco dopo, però, viene svegliato perché alla cenere si vanno aggiungendo lapilli incandescenti accompagnati da scosse sismiche. L’aria tutt’intorno va facendosi irrespirabile per il diffondersi dell’odore di zolfo e di altre esalazioni.
Plinio si fa accompagnare verso la spiaggia per verificare la possibilità di riprendere il mare, ma quelle esalazioni gli sono fatali: si accascia a terra ed esala l’ultimo respiro. A Miseno, intanto, il giovane Plinio con sua madre e tutti gli abitanti del posto non chiudono occhio perché anche lì, nonostante la distanza dall’eruzione, si verificano scosse continue e cenere e lapilli vanno depositandosi dovunque a formare uno strato sempre più consistente, mentre una enorme nuvola nera si avvicina.
La gente fugge allontanandosi dagli edifici del centro abitato per paura dei crolli. Viene giorno, ma non c’è luce: quella nuvola oscura il cielo mentre continua ad adagiarsi lentamente per terra. Dovranno passare alcuni giorni prima di ritrovare un po’ di tranquillità e quel minimo di lucidità per apprendere che l’eruzione ha cancellato le città di Pompei, Ercolano, Oplontis e Stabia, luoghi, peraltro, già duramente provati e semidistrutti da un violento terremoto verificatosi 17 anni prima, nel 63.
La storia dell’eruzione del Vesuvio del 79 è giunta sino a noi grazie alla descrizione che Plinio il Giovane ne fa quando, molti anni dopo, lo storico Tacito gli chiede di raccontargli della morte dello zio e degli accadimenti di quei giorni. Ecco la sua descrizione di quanto accaduto a Miseno:
“…Allora, finalmente ci parve bene di uscire dalla città. Ci segue una folla sbigottita e ciò che nello spavento appare come prudenza, antepone il proprio parere all’altrui e in gran massa incalza e preme chi fugge. Usciti dall’abitato ci fermammo. Quivi assistiamo a molti fenomeni e molti pericoli. Infatti i carri che ci facemmo venire dietro sebbene il terreno fosse pianeggiante andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre restavano nello stesso punto. Inoltre si vedeva il mare riassorbito in sé stesso e quasi respinto dal terremoto. Certamente il litorale si era allargato e molti pesci restavano a secco. Dal lato opposto una nera ed orrenda nube squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato si apriva in lunghe lingue di fuoco; esse erano come lampi e più che lampi … né passò molto tempo che quella nube discese a terra e coprì il mare. Aveva avvolto e nascosto Capri e tolto dalla vista il promontorio di Miseno … Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida dei mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi erano di coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella notte dovesse essere l’ultima notte del mondo … Fece un po’ di chiaro; né questo ci sembrava giorno, ma piuttosto la luce del fuoco che si avvicinava. Se non che il fuoco si arrestò più lontano; nuova oscurità e nuovo nembo di fitta cenere; noi ci alzavamo a tratti per toglierla di dosso; altrimenti ne saremmo stati se non coperti schiacciati… Finalmente si attenuò quella caligine e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece proprio giorno ed apparve anche il sole, ma scolorito come suol essere quando è in ecclisse. Agli occhi ancor tremanti tutto si mostrava cambiato e coperto da un monte di cenere, come se fosse nevicato … Intanto continuavano le scosse di terremoto…”.
E’ soprattutto la cenere mista ad altro materiale lavico ad aver sepolto per alcuni metri i centri abitati tranne quello di Ercolano che, diversamente dagli altri, viene sommersa per circa 20 metri da fango incandescente. Stabia sarà in parte ricostruita, ma dell’ubicazione di Pompei ed Ercolano si perderà memoria. Dovranno passare ben 1500 anni perché, fra il 1594 ed il 1600, nel corso dei lavori per la realizzazione di un canale irriguo fra il fiume Sarno e Torre Annunziata, vengano rinvenuti alcuni reperti e monete, ma questo ritrovamento rimane solo una traccia per i posteri in quanto non vengono avviate altre ricerche e l’eruzione del 1631 provvede a ricoprire nuovamente il tutto.
Bisognerà attendere circa un altro secolo affinché, durante lo scavo di un pozzo nelle campagne di Resina, si rinvengano nuovi reperti alla profondità di otto metri; siamo nel 1713 e finalmente, grazie prima al duca Emanuele Maurizio d’Elboeuf e poi a Carlo III di Borbone, hanno inizio scavi regolari che portano alla luce molti reperti di grande interesse fino ad una iscrizione su una lastra di marmo dalla quale si desume con certezza che quegli insediamenti sono l’antica Ercolano.
La scoperta di Pompei
Altrettanto casuale è la scoperta di Pompei, dovuta ad un contadino che, nel dissodare il suo terreno, nel 1748, si accorge che pochi metri lì sotto c’è tutto un mondo da portare alla luce.
L’indicibile tragedia, per quanto immensa, ha tuttavia creato le condizioni affinché giungesse fino a noi, dopo 2000 anni, uno spaccato autentico ed inviolato della vita dell’epoca, dalle più semplici abitudini quotidiane delle persone all’organizzazione sociale, all’architettura e all’arte.
Quello che oggi sappiamo della pittura romana fra il II secolo a.C. ed il 79 lo si è appreso proprio grazie agli scavi di Pompei ed Ercolano – se si eccettua qualche sporadica testimonianza a Roma – che ci hanno consentito di conoscere la pittura decorativa romana dalle pareti affrescate delle case. Da tali studi si sono potuti individuare ben quattro “stili pompeiani”, riferiti alle epoche di appartenenza: il primo va dal 150 a.C. fino all’80 a.C.; il secondo dall’80 a.C. alla fine del I secolo a.C.; il terzo giunge fino all’epoca di Claudio (41-54) ed il quarto riguarda l’età neroniana.
Gli ultimi due sono particolarmente importanti perché, trattandosi spesso di riproduzioni di grandi opere pittoriche greche andate perdute, ci hanno consentito di approfondire anche la conoscenza della pittura ellenica. Lo stesso discorso vale per l’arte decorativa a mosaico, testimoniata in particolare dal mosaico di Alessandro, nella casa del Fauno di Pompei, ma anche da insegne di negozi, da superfici pavimentali e dagli usi più diversi, come ad esempio l’avvertenza “cave canem”, sempre a Pompei. Di grande interesse sono altresì gli edifici e gli spazi pubblici rinvenuti, come il Foro, il tempio di Giove e della Triade Capitolina, l’edificio degli edili, la basilica per l’amministrazione della giustizia, il tempio di Apollo, il mercato coperto, il larario pubblico, il tempio di Vespasiano, l’edificio di Eumachia, il Comintium per l’elezione dei magistrati, l’arco di Druso, nonché le numerose case e ville private, quali la villa dei Misteri, villa di Diomede, una grossa azienda agricola, la casa dei Vetti, la casa del Fauno, la casa degli Amorini dorati, la casa dei Dioscuri, la casa del Poeta tragico, la casa di Elpidio Rufo, importante per i suoi dipinti, la casa del Menandro.
L’imperatore Tito durerà in carica soltanto 27 mesi per la sua prematura scomparsa avvenuta a soli 42 anni. In tale breve frangente si distingue e si fa benvolere per la generosità e capacità di comprensione delle esigenze del popolo. Si trova a fronteggiare le due grandi calamità dell’eruzione del Vesuvio e, l’anno successivo, di un gigantesco incendio a Roma. Egli si recherà ben due volte a Pompei partecipando anche con proprie risorse ai pochi interventi possibili in favore della popolazione colpita. Qualche decennio più tardi lo storico Gaio Svetonio Tranquillo definirà l’imperatore Tito, nell’opera “De vita Caesarum”, “amore e delizia del genere umano“.