Analisi musicale del Macbeth di Giuseppe Verdi
Macbeth, opera lirica di Giuseppe Verdi, dopo l’iniziale successo andato in scena il 14 marzo 1847 al Teatro della Pergola di Firenze, l’opera di Giuseppe Verdi cadde nell’oblio. In Italia fu riesumata con strepitoso successo al Teatro alla Scala il 7 dicembre 1952, con Maria Callas nel panni della protagonista femminile, Lady Macbeth. Da allora l’opera è entrata stabilmente in repertorio.
L’analisi musicale che segue è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini.
Analisi musicale
Si tratta di una tragedia fosca, cruenta, in cui domina il male e in cui i personaggi sono complessi ed ambigui. Lady Macbeth, è l’impersonificazione del male e dell’ambizione e della sete di potere: è lei a convincere il marito, spesso indeciso, a commettere il regicidio nel ll atto.
Macbeth presenta una certa ambiguità: la sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso pur essendo incapace di pentimento. Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell’animo umano.
Nella follia sanguinaria Macbeth trova conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all’inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza rassicurante, in realtà è molto enigmatico, eppure Macbeth vi si appiglia con convinzione ed affronta i nemici nel V atto fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie.
Il tema del potere è sviluppato anche da altri personaggi, come il giovane figlio di Duncan che finge di essere indegno del titolo di re ed allora il nobile scozzese gli spiega quale sia la vera essenza del potere e quale differenza intercorra tra il regno, anche quello di una persona ambiziosa e corrotta, e la tirannide. Interessante poi è la riflessione esistenziale – atto V, scena V – con una famosa definizione della vita umana, dominata da precarietà ed incertezza, temi dominanti del barocco, il tempo in cui il celeberrimo Shakespeare visse.
Egli scrisse: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla“.
Il Macbeth non ebbe il successo auspicato, non avendo superato la dozzina di repliche. La rinascita di Verdi la si deve ed un gruppo di musicisti Inglesi e Tedeschi, che diede una nuova lettura ai suoi lavori nei primi anni del Novecento, recuperando il melodramma del Verdi, e dandone una valenza in chiave drammaturgica, dandone così giusta giustizia al Cigno di Roncole.
Fu così che Macbeth, una partitura poco udita nei Teatri d’Europa, venne rappresentata a Berlino, Zurigo, Dresda, Vienna Glyndebourne, Liegi e Parigi ed infine al Festival di Salisburgo. In Italia invece la rinascita verdiana fu lenta, coincise infatti con l’edizione del 1951 al Maggio Musicale Fiorentino, e definitivamente con l’edizione del 1952 al Teatro alla Scala di Milano con la direzione di Victor de Sabata e Maria Callas nel ruolo di Lady Macbeth.
Sicuramente Macbeth, segna una svolta nel quadro del melodramma italiano, sebben che il Donizetti fu il più innovativo, ma non la completò in maniera significativa e totale, quello che avvenne dopo con il Verdi, ossia quella novità musicale drammaturgica che né decretò la sua grandezza. Verdi amava Shakespeare e lo si comprese dal fatto che per quest’opera scrisse una sceneggiatura dettagliata a dimostrazione che egli possedeva una completa cognizione letteraria e progettuale, conosceva profondamente il suo complesso lavoro, alla stregua di Wagner impegnato alla stesura del suo Lohengrin.
Parole d’ordine: “Brevità e solennità” raccomandò Verdi a Piave, inviandogli gli appunti della sceneggiatura perché in Macbeth non c’è tempo per rallentare il ritmo. Siamo in pieno svolgimento di un crimine, compiuto da una efferata coppia di potenti con implicazioni psicanalitiche, regressioni, complessi di colpa.
Quello di Macbeth e di Lady Macbeth è il dramma di due solitudini che non si incontrano. Si vivono i drammi in un’atmosfera cupa e tenebrosa in cui il colore è il rosso del sangue e per Lady Macbeth la solitudine affonda nel vuoto della follia, per Macbeth nel vuoto di un annientamento progressivo e delirante.
Nell’opera c’è anche lo spazio per la dimensione corale, con la partecipazione del popolo che assiste al dramma della prepotenza dei potenti di cui subisce le sue angherie. Il famoso canto “Patria oppressa” all’inizio del IV atto, è la grande scena corale sul tema della libertà degli “oppressi” che Verdi, negli anni del Risorgimento, volle inserire nell’opera, quasi a simbolo del Risorgimento come lo furono anche il “Va pensiero” di “Nabucco” e “Oh Signore dal tetto natio” dei “Lombardi alla prima crociata”.
In seguito, questi canti assunsero un significato diverso dal dolore per la patria perduta. Nella versione del 1865, così lontana dai temi e dagli anni del Risorgimento, la dimensione corale del ’47 è sostituita da una nuova versione dal tessuto armonico e melodico rarefatto, anticipatrice del futuro Requiem e da interpretare in senso più generale di “sofferenza umana universale” qual’era infatti il linguaggio consono alle ultime creazioni verdiane.
Macbeth è una delle rare opere nel XIX secolo in cui non figura il dramma d’amore ma un dramma della coscienza e della psicologia del potere ed è peculiare anche per la mancata presenza del ruolo tenorile sostituito per la parte protagonista dal timbro baritonale. Mentre la vocalità di Lady Macbeth al suo fianco è di soprano drammatico di agilità, a espressione della passione della donna e del desiderio di potenza che si spinge fino al delitto come nell’aria: “Accetta il dono, ascendivi a regnar, ascendivi a regnar“. A questa passione malvagia fanno da riscontro il buio, la notte, l’ombra che a loro volta richiamano gli abissi inesplorati dell’inconscio della Regina.