Intervista a Giuseppe Sansonna
Giuseppe Sansonna. Regista, pugliese di Conversano, in provincia di Bari, ma da una vita ormai a Roma. Specializzato in documentari d’autore, ha dedicato gli ultimi tre anni della sua carriera professionale all’allenatore di calcio più discusso dell’ultimo ventennio, Zdenek Zeman. Nel suo obiettivo, per la precisione, sono finite le due stagioni vissute dal mister boemo sulla panchina a lui più cara, che lo ha consegnato agli annali: quella del Foggia. Due stagioni distanti circa vent’anni tra loro, la prima, cara ai tifosi rossoneri e agli amanti del calcio spettacolo, andata in scena nel triennio 1991-1994, con quello che è passato alla storia come “Il Foggia dei miracoli”, spavaldo e vincente in serie A. La seconda, durata appena un anno calcistico, quello 2010/2011, che ha segnato il ritorno di Zeman nel calcio che conta, sempre in sella al suo Foggia, questa volta però dalla terza serie professionistica del campionato di Lega Pro. Il risultato di questa avventura firmata da Giuseppe Sansonna è un cofanetto, pubblicato a fine 2011 dalla casa editrice Minimum Fax, il quale mette insieme entrambi i lavori: “Zemanlandia” e “Due o tre cose che so di lui”, con un libretto-reportage a firma sempre del regista pugliese. Tuttavia, come emerge nell’intervista di seguito, l’autore Sansonna non è solo un appassionato di calcio in generale e dell’allenatore praghese in particolare. Ma un regista di nicchia, appassionato di documentari e di ritratti d’autore.
Dopo “A perdifiato”, dedicato a Michele Lacerenza, il trombettista dei western di Sergio Leone, arriva il lavoro su Rodolfo Valentino, ne “Lo sceicco di Castellaneta”. E, per ultimo, il doppio su Mister Zeman. Più che una passione per il documentario classico, con l’accento posto soprattutto sui fatti narrati, Sansonna sembra avere una predilezione per il ritratto d’autore, è così? Meglio la personalità (o il personaggio) da narrare, per dirla alla Sorrentino, piuttosto che la trama in sé?
Perennemente disorientato dalle derive della mia esistenza, provo a rintracciare senso e percorsi nelle vite altrui. Privilegiando quelle impervie e articolate, che lambiscano il mito, la persistenza nell’immaginario collettivo. Ho sempre in mente il cartello “No trespassing”, inquadrato all’inizio di “Quarto potere”. Cerco di individuare, nei percorsi biografici altrui, situazioni rivelatrici- senza definire identità aprioristiche, lapidarie. I miei lavori sono ibridi che triturano linguaggi disparati, calibrati sull’oggetto in questione.
In generale, quello attuale, che momento è per il documentario d’autore a livello nazionale? E per quale ragione in America questo genere gode di ben altra attenzione rispetto all’Italia? Solo un problema economico?
Credo che in Italia, salvate le solite eccezioni, sia in atto da decenni un impoverimento del linguaggio filmico. Ormai indistinguibile dal deperibile linguaggio catodico. Le fiction sono un grande collettore fognario di prodotti seriali e anonimi, che non si incidono mai nella memoria collettiva. Fanno ribrezzo in primis ai propri artefici. Oggetti anomali come i documentari sono quasi esclusi dal mercato. In America il cinema è, invece, un’industria ancora fiorente. In quanto tale ha bisogno di coltivare prodotti indipendenti, ai suoi margini. Da copiare, patinando e disinnescando, per renderli fruibili alle grandi masse. Ma intanto lasciano vivere e sperimentare chi ha autentiche necessità espressive.
Entrando nel merito: raccontare il calcio, quale che sia il modo, è sempre un rischio grosso, al cinema. La stessa storia cinematografica è densa di fallimenti, più o meno clamorosi. Alla luce della tua doppia esperienza, cosa non si deve mai fare in un documentario-reportage calcistico? Quali, i rischi più grossi?
Il calcio, per sua natura, tende all’ irrappresentabilità. Puoi solo coglierlo nel suo farsi. Evitando la cosmesi alla Matrix delle pay tv, quell’arsenale di carrelli, dolly, zoomoni improvvisi, atti a enfatizzare il nulla. Omologando tutte le partite. I fuoriclasse e la grandi azioni vengono esaltati dal campo lungo, a camera fissa. Mettere in scena il calcio al cinema conduce poi a esiti pacchiani. Penso alla rovesciata di Pelé in “Fuga per la vittoria”. Compiuti i sei anni, ha smesso di affascinarmi. “Ultimo minuto”, di Pupi Avati, non mostra mai la partita. Filma la panchina. Un’idea che ho ripreso e calato nella realtà, in “Due o tre cose che so di lui”. La panchina è un microcosmo cangiante, una zattera sospesa tra il boato della folla e il campo, animata da improvvise urla belluine alternate a silenzi carichi di tensione.
Quali differenze sostanziali tra quest’ultimo lavoro, “Zemanlandia” e “Due o tre cose che so di lui”, e i tuoi precedenti?
“A perdifiato” e “Lo sceicco di Castellaneta” sono le storie di due defunti, Michele Lacerenza e Rodolfo Valentino. Uno anonimo, l’altro celeberrimo. Il primo, sputando sangue e anima nella sua tromba, ha colorato la sonorità del western leoniano, intridendolo di quel fatalismo mistico, tipico del sud Italia. Il secondo, pioniere del divismo, ha lasciato una Castellaneta che sembrava Aci Trezza, per trasformare Hollywood nella capitale della debordiana società dello spettacolo. Una sproporzione che deflagra ancora oggi, nella memoria orale dei compaesani.
Zeman è vivo, per sua e nostra fortuna. Il problema era indurlo a raccontarsi.
A bruciapelo: perché proprio Zeman?
Ho sempre percepito il volto di Zeman come un’anomalia seducente, una scheggia di cinemascope fluttuante nel piatto flusso catodico delle trasmissioni sportive. Quel ciuffo biondo spento, lo sguardo gelido, la mascella serrata. Le sue pause stranianti, che spiazzavano puntuali la vacua concitazione della stampa. Lo stoicismo rigoroso, immutato negli anni. Inventore di un gioco folgorante e innovativo, riproposto ossessivamente. Una monotonia vitale e sfaccettata, da artista puro. Elementi sufficienti per dedicargli un ritratto approfondito.
Quanto ti ha concesso, secondo te, del suo vero modo di essere? È stato sempre Zeman davanti la telecamera, o a volte ti è sembrato “fare Zeman”?
Cominciando le riprese di Zemanlandia, decisi di rinunciare all’intervista classica e collocai il boemo e il patron Casillo su di un divano. La formula funzionò, creando un clima autentico. Esibirono le opposte prospettive esistenziali , con tempi comici perfetti, da coppia consumata Casillo tracimava, in ogni senso possibile. Zeman ne congelava le emorragie verbali con frasi lapidarie. “Due o tre cose che so di lui” è stato un pedinamento discreto, basato sulla fiducia reciproca, finalizzato a cogliere Zeman nella sua quotidianità lavorativa. Diventando trasparenti, nel corso del tempo. Osservandolo stemperare tensione e noia in infinite partite a carte, circondato dagli amici di una vita. Scandendo il tempo, con un sincretico flusso di coscienza canoro, che tritura e ritesse schegge di immaginario musicale anni sessanta.
“Due o tre cose che so di lui” racconta, in sintesi, la storia di un ritorno , di una rinascita, almeno calcistica, la quale poi non è riuscita, almeno stando ai numeri. Più romantico così, nel caso di Zeman? O sarebbe stato molto meglio se fosse finita diversamente?
Una promozione in serie B avrebbe reso la trama più avvincente. Tuttavia, a me le trame interessano relativamente. Mi allettava la chance di raccontare il ritorno di Zeman nel suo habitat naturale. Alle prese con l’odore dell’erba e la ripetitività ossessiva degli schemi, nel silenzio monastico dei campi d’allenamento. Gli amici riuniti dalla voglia di riscatto, il tentativo di cancellare il tempo trascorso. L’impatto con lo Zaccheria adorante, quindici anni dopo. La cruda realtà ha imposto al finale un retrogusto malinconico, chiaroscurale. La nota lieta è il carisma intatto di Zeman, un sessantenne in grado di comunicare nel profondo con i ventenni di oggi. Il suo calcio è ancora vivo e il presente lo dimostra.
Quale aneddoto ricordi con maggiore affetto, di quelli che hanno riguardato il tuo lavoro con il boemo?
Ritiro di Termoli, settembre, Hotel Meridiano, vigila di Foggia-Foligno. Zeman fumava addossato al muro, lo sguardo rivolto al mare in tempesta. Io, seduto a fianco a lui, ascoltavo Franco Altamura, eterno Sancho del boemo, perplesso sulla remuneratività del cinema.”Troppa fatica per pochi soldi”, l’ardua sentenza. Zeman, senza staccare gli occhi dai flutti termolesi, sibilò: “Lui non lo fa per soldi. Queste cose si fanno per pubblico, non per soldi”. Poche parole, con la solita cavernosa atonia, istituendo una commovente analogia fra il suo calcio e il mio cinema.
Scegliendo liberamente tra personaggi di film e attori, al cinema, Zeman, chi potrebbe essere? E Pasquale Casillo?
Zeman è fin troppo aderente al Clint Eastwood di Million Dollar baby e di Gran Torino. Trincerato dietro un’apparente durezza, dotato di grande sensibilità e di una sana smania didattica. A suo agio nei silenzi e nelle surreali sospensioni di Kaurismaki. Casillo è la condensazione estrema dei noir di Scorsese, Abel Ferrara e di tanto hard boiled americano. E’ il sosia sputato di Big Boy Caprice, l’Al Pacino espressionista, nemico giurato del Dick Tracy di Warren Beatty. Un talento attoriale folgorante, una maschera atellana che buca lo schermo.
Ma alla fine è proprio vero questo: o lo ami o lo odi, Zeman? Oppure c’è un’altra possibilità?
Detesto la mitopoiesi di chicchessia. Il mito ha perso il senso profondo che aveva nel mondo greco. Non insegna più nulla. E’ diventato il guscio vuoto e sfavillante, in cui ciascuno sversa il liquame della propria immaginazione. Un’icona deresponsabilizzante, da adorare acriticamente. Io credo che Zeman ambisca ad essere un esempio, più che un mito. Da seguire, ognuno nel suo campo da gioco. Animato da un’utopia semplice, molto concreta, vive il calcio come uno sport da giocare con lealtà, dando l’anima fino al fischio finale ed esaltando il pubblico sugli spalti.
E in ogni caso, dopo il doppio lavoro sul boemo e sul suo Foggia, Sansonna è pronto a lavorare ad un seguito? O sei già proiettato su altre storie, altri ritratti? Qualche cenno?
Mi interessava raccontare lo Zeman foggiano, in omaggio a un’adolescenza spensierata, ultimoperiodo davvero sereno della mia vita. Vivevo la mia intima aventura solitaria a Foggia, partendo da Bari col treno. Mescolandomi anonimo alla folla, come certi personaggi pirandelliani, che si liberano del peso dell’identità. Osservavo la città in visibilio, estasiata e urlante, sedotta dal suo sacerdote afono in trench chiaro. Penso di aver assediato Zeman a sufficienza. Rimane un rapporto d’amicizia, che non ha bisogno di telecamere. Al momento sto lavorando a un nuovo ritratto. Di chi? E’ancora un segreto. Una personalità sulfurea e complessa, da maneggiare con precauzione.