Intervista a Giulio Di Luzio

Giulio Di Luzio. Nato a Bisceglie, in provincia di Bari. Giornalista, a lungo antimilitarista e obiettore di coscienza nella Caritas Italiana, si occupa da anni dei fenomeni migranti. Ha iniziato la sua esperienza giornalistica nel 1994 sul quotidiano provinciale “Bergamo-Oggi”. Dall’estate di quell’anno passa a fare il cronista dalla Puglia per “il Manifesto”.

Giulio Di Luzio
Giulio Di Luzio

Dopo anni di precariato giornalistico per il quotidiano di Via Tomacelli, collabora a “Liberazione” e “La Repubblica”. Attualmente scrive sulle pagine culturali de “Il Corriere del Mezzogiorno” di Bari. Autore di diverse inchieste, tra le quali si ricordano “I fantasmi dell’Enichem” (Baldini Castoldi Dalai, 2003) e “Il disubbidiente” (Mursia, 2008), nel 2011 pubblica il saggio “Brutti sporchi e cattivi” (Ediesse). Quest’ultimo lavoro, con passione e rigore di esperto, denuncia la deriva linguistica dei mezzi di informazione, omologati su piatti meccanismi di assimilazione spesso poco corretti non solo dal punto di vista deontologico, ma anche e soprattutto dal lato umano. Partendo da quest’ultima pubblicazione, Giulio di Luzio ha risposo ad alcune domande in merito al fenomeno migrante, da sempre oggetto dei suoi studi.

Entrando subito nell’argomento migranti e partendo letteralmente da un capitolo del tuo libro che si intitola “italiani brava gente”, la prima domanda è semplice e diretta: è ancora così? Gli italiani sono ancora brava gente?

Credo che negli anni ci sia stato un graduale taglio storico nella considerazione del nostro DNA di popolo migrante: gradualmente accecati dalle prospettive della filosofia dell’Occidente, abbiamo rimosso le radici del popolo italiano come popolo migrante, cosa che soprattutto nelle nuove generazioni ha creato vuoti di memoria piuttosto preoccupanti. Il famoso detto del popolo italiano fatto di santi, poeti, navigatori e migranti, è stato brutalmente messo in crisi dal fatto che l’Italia è, ormai stabilmente, un paese razzista. Nella media dei paesi europei non ricopre certo una posizione invidiabile, anzi.

E nello specifico, quali le responsabilità dei media, in questo?

Nel mondo dell’informazione è presente e perdurante un aspetto piuttosto preoccupante: tanti giornalisti non hanno approfondito la storia del popolo italiano come popolo migrante, fatta di stenti generazionali molto profondi, con cicatrici indelebili anche. Questa mancanza, incide molto sul tipo di narrazione mediatica che viene fatta, di racconto giornalistico, che vede preferire una narrazione tracciata quasi sempre con toni delittuosi e lugubri quando si affronta il tema dei migranti, appiattendo ogni discorso sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico. Tutto ciò, vien da sé, non restituisce affatto all’opinione pubblica in’idea completa ed obiettiva del fenomeno, il quale meriterebbe ben altri approcci.

Un tempo, sui giornali nazionali, si parlava di “pugliesi”, “siciliani” e “calabresi”. Oggi si dice “extracomunitario” o, peggio, “clandestino”. Quali le similarità, gli elementi in comune tra queste due forme di immigrazione, una tutta interna al paese, “italiana” se vogliamo, ed un’altra proveniente invece da “altri sud” del mondo?

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È l’anello più debole della gerarchia sociale che sopraggiunge in un luogo, come fu per i meridionali che dagli anni ’50 agli anni ’70 dal Sud si spostavano a Nord. Questo è un primo elemento in comune: i nostri meridionali si collocavano proprio nell’anello più debole della gerarchia sociale, al pari di chi arriva adesso provenendo dai posti a sud del nostro stesso Meridione. Questa è un’indicazione di svantaggio: dà la possibilità di rilevare nell’ultima catena sociale il classico capro espiatorio, il nemico simbolico cui addebitare le nostre frustrazioni e i nostri limiti. Sono inoltre accumunati dalla provenienza geografica, come detto: è il sud del mondo che cerca nelle aree più a nord di trovare un posto alla tavola del ricco Occidente. In questo, tra il migrante che viene in Italia dal nord Africa e il pugliese che andava a Torino e a Milano, per lavorare in fabbrica, non c’è molta differenza. Ricordo che i meridionali sono stati stigmatizzati dai grandi quotidiani del Nord, come il Corriere della Sera e La Stampa, in modo del tutto simile a come gli americani vedevano gli italiani che emigravano agli inizi del Novecento. In tal senso, cito una relazione realizzata nel 1912 negli Usa, firmata dall’Ispettorato all’immigrazione e presentata al Congresso americano, incentrata sugli immigrati d’Italia: ci rappresentavano con un lessico discriminatorio, con frasi del genere “sono di piccola statura”, “non amano l’acqua”, “puzzano e sono inclini alla violenza”, e via discorrendo. È lo stesso trattamento che attualmente riserviamo ai migranti.

Non è strano che italiani svantaggiati e stranieri svantaggiati, uniti da simili condizioni di precariato lavorativo e, soprattutto, economico, non si siano mai uniti in un movimento comune?

Innanzitutto, non è facile creare un movimento, il quale dovrebbe essere anzitutto politico, con una propria direzione. Secondo me, tentativi sono stati fatti, ma da segmenti minoritari. Poi, va detto, non è che si parta dagli stessi elementi: un migrante che arriva qua, che cerca di normalizzare la propria condizione, vive una condizione diversa dal “povero italiano”, è ancora più sotto nella gerarchia sociale e deve faticare di più. Credo che per dare vita ad un movimento congiunto e coeso, serva innanzitutto una piattaforma comune dalla quale partire, che metta insieme le istanze ti tutti.

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