Carmine Abate, intellettuale con la valigia. Intervista.
Carmine Abate. Insegnante e, soprattutto, scrittore, nativo di Carfizzi – una delle comunità di origini albanesi più note e popolose d’Italia – sembra essere giunto ormai ad un momento di svolta della propria carriera letteraria. Dopo aver esordito con “Il ballo tondo” (Mondadori, 1991), ha costruito la propria opera scrittoria attorno alle vicende riguardanti le comunità arbëreshe, come nell’ultimo romanzo, ambientato quasi totalmente a Rossarco, nella sua Calabria.
Tra i molti altri romanzi poi, si segnalano “Tra due mari” (Mondadori 2002), “La festa del ritorno” (Mondadori, 2004) vincitore del Premio Napoli, del Premio Selezione Campiello e del Premio Corrado Alvaro, “Il mosaico del tempo grande” (Mondadori, 2006) e il romanzo “Gli anni veloci” (Mondadori, 2008), vincitore del Premio Tropea.
In merito all’ultimo romanzo pertanto, pubblicato nel marzo del 2012 da Mondadori e intitolato “La collina del vento”, per giunta inserito nella cinquina del Premio Campiello 2012, l’autore Carmine Abate ha risposto ad alcune domande.
Un libro positivo, il tuo ultimo romanzo, il quale mette d’accordo un po’ tutti circa la tua maturazione, come conferma anche il fatto di essere entrato, e da favorito, nella cinquina del Premio Campiello 2012. Si può dire che siamo ad una svolta, dal punto di vista letterario?
Questo romanzo è un po’ la summa di tutto quello che ho scritto, nel senso che ci sono tutti i temi a me cari. C’è, ad esempio, fortissimo, il tema della difesa della propria terra da parte di una famiglia, come quella protagonista del libro, la famiglia Arcuri. Ma c’è anche il tema della memoria, soprattutto, inteso come recupero della memoria storica, che quasi si riesce a toccare con mano e messo in atto attraverso il racconto della mia terra, della mia gente, a partire dal 1902 e fino ai giorni nostri, con una incursione addirittura nella Magna Grecia, risalendo quindi alle origini lontane della terra. Una cosa è certa però, non c’è nessuna nostalgia, nessuna retorica, in questo romanzo. Piuttosto, un recupero della memoria in funzione del presente: come fosse una grande luce che serve ad illuminare l’attualità, a vivere meglio oggi.
“La collina del vento” racconta la storia degli Arcuri, la famiglia protagonista dell’intera vicenda narrata. È una scelta cara ai narratori italiani e non solo, ritornata in auge negli ultimi anni e con la quale, prima o poi, tutti sembrano volere o dovere fare i conti. Come mai questa scelta della saga familiare?
La caratteristica dei miei libri e degli autori come me è proprio questa: raccontare un microcosmo, per poi inserire, tramite questo microcosmo, i grandi temi della letteratura. C’è l’amore, il mistero, la morte, ne “La collina del vento”. I conflitti generazionali, la ricerca dell’identità anche, e la memoria, come detto. Tutti temi che vengono trattati da sempre. La scelta di un microcosmo per me è importante perché solo così riesco a toccare con mano i problemi, a toccare con mano i profumi, senza fare discorsi generici. Arrivi ai grandi temi della vita partendo da un mondo piccolo, che padroneggi e conosci in tutte le piccole sfumature.
Ne “La collina del vento” ci sono elementi autobiografici?
Ho voluto narrare il passaggio di testimone da una generazione all’altra, nient’altro che questo, quattro generazioni di Arturo che si tramandano le storie. L’unico elemento autobiografico è legato al rapporto padre-figlio, che ho cercato di sviscerare nel romanzo prendendo spunto dalla mia vicenda personale. Ho mantenuto una promessa, fatta a mio padre, anche se tacitamente, nel suo ultimo anno di vita.
Carmine Abate è un intellettuale con la valigia, senza dubbio. Ma che cos’è, davvero, l’emigrazione? È quel fenomeno negativo, inteso come una costrizione, un’incapacità di autodeterminarsi socialmente e culturalmente nella propria terra? O è ricchezza, creatività: incontro e scontro con altre culture e lingue, tali da produrre un terzo elemento nuovo e più stimolante? Dov’è la verità?
Ho scritto un libro che sintetizza nel titolo proprio questi spunti e si intitola “Vivere per addizione”. Io ho vissuto sulla mia pelle e ho raccontato, anche, tutto il percorso lungo e doloroso dell’emigrazione meridionale, vissuto direttamente da me e dalla mia famiglia, di mio padre ad esempio, emigrato in Francia e poi Germania, e di mio nonno, che è stato un “mericano”, come si diceva, emigrato in America più volte e spesso anche come clandestino. E poi è accaduto a me, anche, perché come tanti giovani meridionali sono stato costretto ad andare altrove per cercare lavoro. Ebbene, dopo aver vissuto tutte le mille difficoltà, come quello con a lingua, l’integrazione sociale, senza dimenticare il razzismo, che vivi sulla tua pelle, io mi sono anche reso conto degli aspetti positivi dell’emigrazione.
Questa non va vista solo come una ferita, come un distacco e basta, ma anche come una ricchezza: la sintesi è, appunto, vivere come addizione. Io ho deciso ad un certo punto della mia vita di non dover scegliere più per forza tra il Nord e il Sud, tra la mia madrelingua, la lingua del cuore, e le cosiddette lingue del pane, imparate fuori dalla nostra comunità. Ma ho deciso di addizionare il tutto, quindi per esempio di recuperare le nostre radici originarie e curarle, al pari delle nuove radici che ci crescono sotto i piedi. È, questa, una cosa che l’emigrante tradizionale non faceva. L’emigrante nuovo, rispetto a quello di alcuni anni fa, che viveva con i piedi al nord e la testa al sud, adesso è una persona che ha un piede al Nord e un piede al Sud, semplicemente.