Il Giudizio Universale di Michelangelo
Nel 1534, interrompendo le opere laurenziane, Michelangelo Buonarroti lascia Firenze, dove non tornerà più, e si reca a Roma per dipingere il “Giudizio Universale” nella parete di fondo della Cappella Sistina (affresco; metri 13,70×12,20. Roma, Palazzo Vaticano, Cappella Sistina).
Per dipingere questo affresco ne fu distrutto un altro del Perugino che si trovava nella parte bassa, e, in alto, le lunette dipinte dallo stesso Michelangelo insieme alla volta. Nelle lunette nuovamente dipinte sono raffigurati gli strumenti della Passione; Cristo è al centro dell’affresco, avendo alla sua destra gli eletti, alla sua sinistra i dannati; in basso a sinistra è rappresentata la resurrezione della carne, al centro una grotta (probabilmente l’ingresso all’inferno), poi, con sicuro riferimento a Dante, Caronte con alcuni peccatori e, nell’angolo di destra, Minosse.
Intorno al 1536 il pittore inizia a tradurre i cartoni sul muro e, dopo quattro o cinque anni di lavoro, nel 1541 la grande parete fu resa visibile al pubblico. Le quasi quattrocento figure campeggiano contro il cielo libero, senza riferimenti prospettici.
Ancor più che altrove, la pittura si identifica con un altorilievo, incentrato sulla figura di Cristo giudice, la cui inesorabilità è mitigata dalla presenza della Madonna, dolcemente raccolta accanto a lui.
Cristo, nell’emettere il suo giudizio inappellabile, imprime con il suo alzare e abbassare le braccia, un movimento all’intera composizione, ascendente a sinistra, discendente a destra, chiamando a sé, verso l’alto dei cieli, gli eletti, e precipitando verso il basso dell’inferno i dannati.
Al tempo stesso, avvolgendosi su se stesso, trasmette un’analoga rotazione a tutte le altre immagini, dalle più vicine alle più lontane, come Caronte che, dantescamente, traghetta le anime peccatrici.