L’epico incontro tra Ali e Foreman

Me lo mangerò in un boccone! Sono troppo veloce per lui! Troppo veloce!”. Comincia così uno dei docu-film più appassionanti di sempre, diretto dal regista Leon Gast e dal titolo, emblematico, “Quando eravamo re”. Un prodotto cinematografico epocale, soprattutto per la gestazione dell’opera in sé, durata circa ventidue anni. Al principio il documentario avrebbe dovuto raccontare, quasi esclusivamente, il concerto di musica soul che doveva precedere l’incontro di pugilato tra Muhammad Ali e il campione del mondo George Foreman, a Kinshasa, nella capitale dell’allora stato dello Zaire (poi Congo Belga), avvenuto il 30 ottobre 1974. Ne venne fuori, invece, un ritratto appassionante, formidabile, incentrato sulla figura di Cassius Clay, il pugile nato negli States e convertitosi all’Islam dopo la conquista del suo primo titolo mondiale, esattamente il giorno dopo, nel 1964.

Ali-Foreman, Kinshasa (Zaire), 30 ottobre 1974
Ali-Foreman, Kinshasa (Zaire), 30 ottobre 1974

Veloce come una farfalla e pungente come un’ape

All’epoca, il giovane pugile, definito un atleta politico per la sua determinazione nel farsi portavoce del riscatto del popolo afroamericano, “veloce come una farfalla e pungente come un’ape” (fly like a butterfly, sting like a bee), si appropriò del titolo mondiale mandando al tappeto il campione uscente Sonny Liston – impresa che ripeté l’anno dopo, nel Maine, dopo pochi attimi di gara e con il famoso “pugno fantasma”.

Nel 1974 invece, dopo aver perso il titolo mondiale contro Joe Frazier nel 1971 (la stampa lo definì “L’incontro del secolo”), l’ormai divenuto Muhammad Ali ebbe il coraggio di sfidare il campionissimo George Foreman, uno dei più grandi pugili di sempre, tra l’altro più giovane di lui. Foreman aveva inoltre battuto proprio Frazier, per prendersi il titolo, mandandolo a tappeto sei volte prima del K.O. finale. I bookmaker lo davano come strafavorito, tra l’altro in un momento di forma straordinario, che lo aveva visto sconfiggere in soli due round un altro pugile di enorme qualità e forza, Ken Norton, lo stesso che aveva fratturato la mascella a Muhammad Ali.

Cassius Clay a Kinshasa
Cassius Clay a Kinshasa

Entrambi i pugili passarono l’estate intera nello Zaire, per allenarsi e acclimatarsi all’ambiente africano. Per Ali fu un ritorno alle origini, un rientro a casa, che sfruttò fino all’ultimo, cavalcando il sogno di un riscatto africano a tutti gli effetti, in un momento cruciale della storia dei neri d’America e non solo. L’incontro si sarebbe dovuto tenere il 25 settembre, ma Foreman si ferì durante gli allenamenti e venne procrastinato di un mese.

Quando eravamo Re: il docu-film

Nel documentario di Leon Gast, scorrono le immagini preparatorie del match, gli allenamenti, le interviste ad Ali, le sue parole, le sfide più o meno audaci che lancia di continuo al suo sfidante, le provocazioni assurde e assolutamente d’impatto. “Lo manderò in pensione” dice Ali, “manderò in pensione il campione George Foreman”, “la cosa farà più scalpore delle dimissioni di Nixon, vedrete!”.

When we were kings - Quando eravamo re
When we were kings – Quando eravamo re

Emerge, chiaramente, il carisma di uno sportivo che sapeva bene d’essere più debole, ai pugni, del suo avversario, ma consapevole del fatto che, se fosse riuscito a portare dalla sua parte il pubblico, avrebbe potuto godere di un vantaggio psicologico non indifferente nei confronti di un pugile che faceva della stazza e della potenza fisica le proprie armi – gli esperti più volte parlarono di Foreman come l’atleta più forte in assoluto che sia mai esistito.

Ad ogni modo, nonostante fossero entrambi di chiare origini africane, è Foreman che viene subito individuato come l’Occidentale, l’americano imperialista da mandare al tappeto per riscattare un intero continente. Muhammad Ali si appropria del pubblico, lo incanala dalla sua parte, come spiega il grande regista Spike Lee, uno degli intervistati nel docu-film “Quando eravamo re”: “Per quei due pugili afroamericani – afferma il cineasta – era molto importante ritornare in Africa; Hollywood e la televisione ci avevano insegnato ad odiare l’Africa, un tempo se chiamavi “africano” un nero rischiavi il pestaggio”.

Ali si appropria del termine e, com’è riportato nel documentario, durante le svariate interviste preparatorie all’evento, senza mezzi termini manda al diavolo l’America e afferma solennemente l’appartenenza dei neri, degli afroamericani, alla grande mamma Africa. Secondo lo scrittore Norman Mailer invece – che anche lui descrisse la vicenda epocale in più di un lavoro – Muhammad Ali aveva paura, e sapeva che questa sarebbe aumentata con l’avvicinarsi dell’evento e aveva bisogno di esorcizzarla, di farla propria, di trasformarla in boxe.

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Il prodotto di Leon Gast, ad ogni modo, venne fuori solo nel 1996 e vinse numerosi riconoscimenti: l’Oscar, innanzitutto. Ma anche il “Broadcast Film Critics Association Award”, “l’Independent Spirit Award”, il “New York Film Critics Circle Award”, il premio come miglior documentario da parte del “National Society of Film Critics Award”, e molti altri. Nel docu-film la musica ebbe un ruolo importante, come da copione, almeno inizialmente, con sprazzi di concerti molto intensi, come quello dell’eroina Miriam Makeba e dei Crusades.

Ma, oltre alla vicenda di Ali, alla sua carriera, alle sue provocazioni continue e affermazioni più o meno politiche, fu soprattutto il combattimento tra i due pugili ad avere un ruolo centrale.

Terremoto nella giungla

Ali bomaye! Ali bomaye! Ali bomaye!”. Il 30 ottobre 1974, allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, nell’allora Zaire, il pubblico ha già scelto per quale pugile fare il tifo e, per tutta la durata dell’incontro, non fa che ripetere quel coro: “Ali, uccidilo!“.

Il match passerà alla storia come “Il terremoto nella giungla” (A Rumble in the Jungle) e, soprattutto, per l’impresa di Muhammad Ali: l’unico, dopo Floyd Patterson, capace di riprendersi il titolo dei Pesi Massimi dopo averlo perduto.

L’incontro cominciò alle 5 di mattina secondo l’ora di Kinshasa, in modo che tutte le televisioni potessero trasmetterlo, in particolar modo la tv americana, con il consueto commento di Bob Sheridan. All’incontro, tra il pubblico, erano presenti anche i “grandi sconfitti” Ken Norton e Joe Frazier.

La vittoria di Ali segnò un cambio di passo epocale nella storia della boxe: fu un risultato figlio di una pianificazione tattica senza precedenti, rappresentata da quella che lo stesso Ali, più volte anche prima del match, aveva definito anche ai suoi stessi allenatori come la sua “tattica segreta”.

Io sono il più grande
Muhammad Ali: Il più grande

Il futuro campione, dopo i primi due round nei quali diede sfoggio della sua capacità atletica e della velocità di gambe, intuì che non avrebbe potuto reggere per tutto l’incontro quei suoi stessi ritmi. Assestò alcuni colpi a Foreman, leggeri ma precisi, giocò d’astuzia per tutti i round, provocandolo con frasi come “mi avevano detto che sapevi dare pugni” e altre, le quali non facevano altro che innervosire l’avversario, di fatto deconcentrandolo.

Ma ben presto si incollò alle corde, per oltre sei riprese, dando la possibilità a Foreman di sfogarsi: un’idea rischiosa ma, a suo modo, geniale. L’azione elastica delle corde infatti, attutiva i colpi, rendendoli meno potenti, consentendo ad Ali tempi di ripresa superiori, preziosi in una condizione del genere. Nel frattempo, ogni volta che gli riusciva, Ali colpiva Foreman al collo e in pieno viso, destabilizzandolo.

L’ottavo decisivo round

All’ottavo round, Foreman era stremato. Nonostante avesse tenuto in mano l’incontro per tutti i round, era quello che riportava i segni più netti sulla faccia, mal ridotta dalle puntata del suo sfidante, come sempre velocissimo e astuto nell’assestare i suoi colpi.

Alì colse il momento al volo e, vedendo Foreman più lento del solito, si lanciò in una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto: prima gli alzò il viso e poi lo stese con un diretto micidiale. Il gigante indietreggiò per quasi mezzo ring, per poi accasciarsi a terra, di schiena. Impiegò nove secondi per rialzarsi ma, anche quando fu sulle ginocchia, l’arbitro decretò la fine del match, sancendo anche il decimo secondo.

Fu la più memorabile delle vittorie per Muhammad Ali.

Muhammad Ali campione
Muhammad Ali esulta a braccia alzate

Il premio Oscar

Alla cerimonia degli Oscar del 1997, vinto da Gast e Sonenberg per il loro “When we were kings” (titolo originale di “Quando eravamo re”), fu proprio Muhammad Ali ad essere chiamato sul palco per ricevere l’ambita statuetta. Affetto dal morbo di Parkinson però, l’ex campionissimo fece fatica a salire i gradini e a raggiungere i presentatori che lo attendevano per la cerimonia di premiazione.

A quel punto, fu proprio l’eterno rivale George Foreman ad aiutarlo a salire le scale. I due infatti, dopo il famoso incontro e, soprattutto, dopo anni di polemiche, erano diventati amici.

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