Seconda Guerra Mondiale Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 13 Sep 2023 07:53:38 +0000 it-IT hourly 1 Stalin, biografia di un dittatore, libro di Oleg V. Chlevnjuk https://cultura.biografieonline.it/stalin-biografia-di-un-dittatore/ https://cultura.biografieonline.it/stalin-biografia-di-un-dittatore/#comments Wed, 16 Mar 2022 02:44:22 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21838 Josif Stalin è stato per 24 anni, dal 1929 al 1953,  il dittatore assoluto e indiscusso dell’Unione Sovietica. Con pugno di ferro e con una strategia che non ammetteva compromessi. Ma che ha sempre posto come prima decisione la violenza e l’annichilimento di chiunque lo contrastasse. Stalin ha gestito la società civile trasformando un paese arcaico in una superpotenza mondiale.

Stalin

Stalin, biografia di un dittatore

La sua interpretazione semplicistica e personale del marxismo, gli ha permesso di stravolgere totalmente il suo paese, senza che nessuno  abbia mai osato contrastarlo o ci sia riuscito con un minimo di efficacia. Anzi l’idea che più lo ossessionava era quella dell’esistenza di nemici all’interno del partito o nei vari strati della società, che avessero intenzione di deporlo o di ucciderlo.

Proprio per evitare questa possibilità, Stalin ha preventivamente incarcerato, fatto fucilare e processato milioni di persone. Il regime del terrore che riuscì a instaurare in URSS ha costretto tutti i cittadini a vivere in un clima di insicurezza e paura. In tale clima anche il vicino di casa poteva essere un pericoloso delatore.

Probabilmente più di 60 milioni di persone hanno subito le sue repressioni. Cittadini che sono stati coinvolti senza un vero processo o prove certe contro di loro, in un meccanismo kafkiano, che nella maggior parte dei casi si è concluso con  la prigione nei gulag o con la fucilazione.

Malgrado queste certezze storiche, pare che oggi in Russia la figura di Stalin stia vivendo un momento di gloria e che il suo mito stia riaffiorando con considerazioni molto positive sul suo operato. Ad esempio si discute su quanto la sua strategia politica abbia influito per trasformare un paese arcaico in una super potenza economica e militare che ha sconfitto Hitler e la Germania nazista.

Il libro

Oleg V. Chlevnjuk, forse il maggior esperto mondiale di Stalin, ha scritto un bel libro dedicato al dittatore. In esso sfata i miti che gli sono stati attribuiti. Il titolo è: Stalin, biografia di un dittatore, di Oleg Chlevnjuk, Le Scie, Mondadori editore (2016, Pagine: 467).

Stalin, biografia di un dittatore
Copertina del libro “Stalin, biografia di un dittatore” (2016), di Oleg V. Chlevnjuk

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L’autore contrasta nel libro questa riabilitazione di Stalin. Riesce a sfatare il suo mito di amministratore eccelso, stratega militare lungimirante o vittima di collaboratori avidi e corrotti che lo hanno spinto a vedere ovunque traditori e possibili nemici del popolo. Ma dall’altra parte, Chlevnjuk sfida anche i miti negativi che vedono Stalin solo come il traditore di Lenin e della sua eredità politica. O come un dittatore paranoico che si è concentrato unicamente sulla sua sanguinosa vendetta.

L’autore basandosi  su documenti d’archivio, testimonianze dirette e indirette ha incrociato una quantità notevole di materiale, ricostruendo in modo dettagliato la vita di Stalin. Ponendo una particolare attenzione al percorso che da oscuro combattente e rivoluzionario georgiano, ha visto il futuro leader sovietico diventare uno dei più stretti collaboratori di Lenin durante la rivoluzione d’Ottobre. Poi, in seguito, suo unico erede in seno al gruppo dirigenziale del Comitato centrale del partito comunista.

Stalin
Stalin

Infine, il ritratto di Stalin si compie con il racconto della dittatura dello Stato sovietico che lo ha visto protagonista di decisioni politiche spregiudicate. Decisioni che, però, gli hanno permesso di conservare, per quasi un quarto di secolo, un potere pressoché assoluto.

Recensione e commento

Chlevnjuk analizza però anche le scelte di Stalin quale leader politico di una nazione in espansione. In particolare l’autore racconta la genesi delle collettivizzazioni delle campagne russe e l’industrializzazione imposta secondo un metodo costruito a tavolino. Esso ha costituito uno degli errori più gravi nella storia moderna della Russia.

Con uno stile narrativo avvincente e ricco di dettagli, l’autore racconta gli ultimi giorni di vita del dittatore per poi tornare alla sua infanzia e adolescenza. Periodo in cui Stalin, dopo il seminario, ha cominciato a prendere le distanze dalla religione e ad abbracciare il marxismo. Per intraprendere così un percorso rivoluzionario clandestino che lo ha portato ad un’ascesa politica rapidissima. Il ritratto che ne viene fuori  è avvincente ed equilibrato. E permette al lettore di farsi un’idea chiara di ciò che fu Stalin nella  Russia del XX secolo.

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Cortina di ferro: cos’è e qual è l’origine del termine https://cultura.biografieonline.it/cortina-di-ferro-storia/ https://cultura.biografieonline.it/cortina-di-ferro-storia/#comments Sun, 09 Jan 2022 15:36:52 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=37962 La locuzione Cortina di ferro indica un limite concettuale, ideale e invisibile che lasciamo calare – spesso si utilizza insieme a questo verbo – sulle cose per separarle. Possiamo far calare una cortina di ferro fra noi e gli altri, fra le nostre posizioni e quelle degli altri. Questa espressione la mutuiamo dalla storia moderna e da quello che avvenne al termine della Seconda Guerra Mondiale quando la cortina fu tutt’altro che invisibile. Il termine era comunque già esistente.

Cortina di ferro - Iron Curtain - Map
Cortina di ferro: mappa

Quando cala la Cortina di ferro

Al termine del secondo conflitto mondiale l’Europa viene di fatto tagliata in due dalle allora due grandi potenze mondiali:

  • la parte occidentale resta sotto l’influenza degli Stati Uniti e della NATO;
  • la parte orientale prosegue sotto la bandiera dell’Unione Sovietica.

Le due metà sono divise dalla cosiddetta cortina di ferro a delimitarle.

Per oltre 30 anni le due metà si preparano a subire politicamente e culturalmente l’influenza delle due superpotenze, quando non a vivere internamente il conflitto in atto: vedi il caso della città di Berlino.

The iron curtain: la nascita del termine

Sebbene l’espressione fosse già in uso e se ne trovino tracce nell’ambito del teatro, nonché in varie lingue del continente europeo, quando si parla di Cortina di ferro così come la intendiamo storicamente, la si attribuisce a Winston Churchill e si fa riferimento a due sue uscite pubbliche.

La prima volta

La prima è un’occasione pubblica ma riservata. Si tratta di un telegramma che Churchill invia al Presidente americano Harry Truman l’11 maggio del 1945, nel pieno della crisi di Trieste. Churchill scrive:

“Una cortina di ferro è calata sul loro fronte [ndr. Dei russi]. Non sappiamo che cosa stia succedendo dietro essa. Non c’è dubbio che l’intera regione ad Est della linea Lubecca – Trieste – Corfù sarà presto completamente nelle loro mani. A ciò inoltre bisogna aggiungere l’enorme area tra Eisenach e l’Elba che gli americani hanno conquistato e che presumo i russi occuperanno fra poche settimane, quando gli americani si ritireranno”.

La seconda volta

Meno di un anno dopo Churchill ripete questa espressione.

Questa volta, però, lo fa pubblicamente e fra la gente.

È il 5 marzo1946. Churchill non è Primo Ministro del Regno Unito – sarà eletto per la seconda volta nel 1951. Egli tiene un discorso, divenuto famoso, a Fulton nello stato americano del Missouri. Così descrive la situazione europea agli americani:

“Diamo il benvenuto alla Russia nel suo giusto posto tra le più grandi Nazioni del mondo. Siamo lieti di vederne la bandiera sui mari. Soprattutto, siamo lieti che abbiamo luogo frequenti e sempre più intensi contatti tra il popolo russo e i nostri popoli. È tuttavia mio dovere prospettarvi determinate realtà dell’attuale situazione in Europa. Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popolazioni attorno a esse, giacciono in quella che devo chiamare sfera sovietica, e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo di Mosca”.

Leggi anche => Churchill. La biografia: recensione del libro di Andrew Roberts

Trent’anni e oltre di conseguenze geopolitiche

Una volta datata l’origine della Cortina di ferro europea nel 1946, possiamo parlare di 36 lunghi anni di rottura netta fra Occidente e Oriente in Europa.

Per 36 anni, infatti, la NATO e il Patto di Varsavia hanno definito il destino delle popolazioni. Non ci sono stati scontri diretti, ma USA e URSS hanno determinato gli schieramenti rispetto a tutti i fatti di politica internazionale, intanto che erano impegnate con tutte le forze al contenimento dell’avversario sul territorio europeo.

Questo a spiegazione delle posizioni dei Paesi europei, fattualmente e politicamente, rispetto ad alcuni conflitti della seconda metà del 900:

La fine della cortina di ferro: Europa 1990

La caduta della cortina di ferro corrisponde alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. A volerla datare si fa riferimento allo smantellamento della barriera fra Ungheria e Austria iniziata il 2 maggio 1989. Il giorno dopo giunge anche il nulla osta del leader russo Mikhail Gorbaciov.

L’ultimo tratto viene abbattuto il 27 giugno con una cerimonia ufficiale a cui prendono parte le massime autorità della Repubblica Federale d’Austria.

Il 19 agosto dello stesso anno avviene il famoso “picnic paneuropeo” sempre sul confine Ungheria Austria. Segue l’esodo di migliaia di cittadini della DDR fino alla caduta del muro di Berlino e l’effettivo scioglimento dell’Unione Sovietica.

Dal ferro alla pista ciclabile

Oggi il percorso che definiva la Cortina di ferro è una lunghissima pista ciclabile denominata appunto la strada della cortina di ferro. Si tratta di una via ciclabile lunga 10mila chilometri che taglia l’Europa. Attraversa 20 Paesi europei e offre ai viaggiatori la possibilità di vedere molti edifici storici, monumenti e musei.

Iron Curtain Trail Bike
The Iron Curtain Trail

Contestualmente però il percorso è ricco di paesaggi naturali mozzafiato e parchi naturali dal valore inestimabile. “La strada della Cortina di ferro” passa per:

  • Austria,
  • Belgio,
  • Croazia,
  • Repubblica Ceca,
  • Germania,
  • Grecia,
  • Ungheria,
  • Lituania,
  • Serbia,
  • Repubblica Slovacca,
  • Turchia.
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Battaglia di Midway https://cultura.biografieonline.it/midway-battaglia/ https://cultura.biografieonline.it/midway-battaglia/#comments Tue, 12 Nov 2019 16:21:29 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27453 I fatti, i protagonisti, lo scenario storico della Battaglia delle Midway
Midway, Battaglia di Midway
Battaglia delle Midway – Fu una storica battaglia della Seconda Guerra Mondiale che si combatté tra il 4 e il 6 giugno 1942 nei pressi dell’atollo di Midway, vicino alle Hawaii, tra Stati Uniti e Giappone

Midway: l’atollo

Midway è un atollo costituito da due isolette, Eastern e Sand. La sua unica importanza, nel 1942, risiedeva nella posizione strategica. Costituiva un avamposto della marina americana verso le Isole Filippine che, secondo tutti i piani prebellici, avrebbero dovuto costituire l’obiettivo principale dell’avanzata americana nel Pacifico. L’atollo di trova infatti a circa 2.300 km dalla più vicina base aeronavale americana, nelle Hawaii; e a oltre 5.000 km dalle coste Californiane; mentre è a circa 4.000 km da Tokyo. Queste enormi distanze devono essere sempre tenute presenti nel considerare lo svolgimento della Battaglia di Midway e, in genere, dell’intera guerra nel Pacifico. Tra il 4 e il 7 giugno 1942, Midway fu il teatro della più conosciuta battaglia aeronavale della storia.

Battaglia di Midway: la situazione alla vigilia

I giapponesi

Dopo il devastante attacco a Pearl Harbor (7 dicembre 1941), i giapponesi inanellarono una serie quasi ininterrotta di successi. Successi che li portarono, a fine aprile 1942, ad aver conseguito tutti i loro obiettivi strategici. Si erano infatti impadroniti di Singapore e della Malesia, di tutte le Filippine e delle Indie Orientali Olandesi, con i loro ricchi giacimenti petroliferi.

In questa situazione, lo stato maggiore nipponico aveva deciso di attuare una strategia più cauta. Perfezionarono così un perimetro difensivo costituito dalle isole del Pacifico sud-occidentale e centrale, allo scopo di opporre un’autentica barriera alla prevedibile controffensiva americana.

Rientravano in quest’ottica gli eventi che portarono alla cosiddetta Battaglia del Mar dei Coralli (4-8 maggio 1942); essa fu la prima mai combattuta tra 2 flotte che non si avvistarono e si colpirono solo per il tramite degli aerei imbarcati; ma fu anche la prima battuta di arresto per la Marina Imperiale che non riuscì a conseguire il controllo della Nuova Guinea e delle Isole Solomone.

Anzi, le 2 portaerei di squadra impegnate nel Mar dei Coralli furono danneggiate, soprattutto nella componente aerea. Furono compromesse al punto da non poter partecipare allo scontro a Midway. E questa assenza risultò probabilmente decisiva per la sconfitta.

Gli americani

Il disastro di Pearl Harbor aveva pesantemente condizionato la strategia americana fino a metà del 1942. Di fatto, le poche navi da battaglia superstiti avevano lasciato Pearl Harbor ed erano state ritirate verso la più sicura costa californiana.

La US Navy poteva schierare solo le portaerei, per coprire l’immensa vastità del Pacifico. Di queste, la Lexington era stata affondata proprio nel Mar dei Coralli; la Saratoga era in riparazione dopo essere stata silurata dal sottomarino giapponese I-6 e poté salpare da San Diego solo l’1 giugno: troppo tardi per partecipare alla battaglia.

Rimanevano le portaerei di squadra Enterprise, Hornet e Yorktown; quest’ultima riparata in fretta e furia dopo essere stata danneggiata nel Mar dei Coralli. Con le portaerei, l’ammiraglio Chester W. Nimitz, nominato comandante supremo della flotta del Pacifico dopo Pearl Harbor, aveva effettuato qualche operazione offensiva di secondaria rilevanza, allo scopo di non lasciare l’iniziativa totalmente nelle mani del nemico.

Midway: portaerei in fiamme
Portaerei in fiamme

In questo quadro rientrava il famoso raid Doolittle, dal nome del Tenente Colonnello James H. Doolittle che il 18 aprile aveva guidato 16 B-25B Mitchell, per l’occasione imbarcati proprio sulla Hornet, in una missione – più dimostrativa che efficace – di bombardamento di Tokyo e altre città giapponesi.

Secondo alcuni storici, il vero successo di questo raid fu soprattutto psicologico: spinse cioè lo stato maggiore nipponico e cercare di annientare le portaerei nemiche per prevenire ulteriori operazioni di questo tipo.

I piani delle due parti

I giapponesi avevano in animo di impadronirsi dell’atollo di Midway da utilizzare come base aerea e di attirare in battaglia il nemico per distruggerne le ultime 2 portaerei: erano infatti convinti che la Yorktown fosse affondata nel Mar dei Coralli.

Come era loro abitudine, avevano quindi concepito un piano complesso, articolato sulla loro tanto enorme quanto supposta superiorità qualitativa e quantitativa in campo navale.

La flotta giapponese

La flotta Imperiale era coinvolta quasi nella sua interezza ed era ripartita in numerosi gruppi operativi; alla prova dei fatti, essi si troveranno troppo lontani gli uni dagli altri per aiutarsi reciprocamente.

I giapponesi avevano inoltre concepito una contemporanea manovra nelle Aleutine che aveva lo scopo di occupare alcune località di questa nebbiosa catena insulare, contemporaneamente fungendo da esca per confondere gli americani.

La punta di diamante del loro schieramento era costituita dalla Forza d’attacco del viceammiraglio Chuichi Nagumo, composta dalle 4 portaerei Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu, da 2 incrociatori da battaglia, 2 incrociatori pesanti, uno leggero e 8 cacciatorpediniere. Sarà proprio questa squadra a subire quasi tutto l’impeto del contrattacco statunitense.

La flotta americana

La flotta statunitense aveva ricevuto importanti informazioni dalla sezione destinata alla decodifica dei messaggi radio del nemico circa una probabile missione nel Pacifico Centrale e, con uno stratagemma, era riuscita a stabilire che l’obiettivo sarebbe stato l’atollo di Midway.

L’ammiraglio Nimitz decise di impiegare qui le sue ultime tre portaerei, lasciando quasi indifeso il fianco delle Aleutine, al quale vennero destinati pochi incrociatori e cacciatorpediniere. A supporto erano schierati anche 19 sommergibili, con il compito di attaccare il nemico durante il suo avvicinamento, non senza averne preventivamente comunicato l’avvistamento, e un assortimento di aerei dell’esercito e della marina schierati sulle piste di Midway.

La flotta in mare era affidata al contrammiraglio Frank J. Fletcher, comandante supremo in mare e della Task Force 17, che schierava la Yorktown, 2 incrociatori e 6 cacciatorpediniere, e al subordinato contrammiraglio Raymond A. Sprunce, con la Enterprise, la Hornet, 6 incrociatori e 9 cacciatorpediniere. La missione di Fletcher e Spruance era di colpire i giapponesi con attacchi aerei fin dalle primissime fasi della battaglia.

Il primo attacco giapponese

Gli aerei nipponici cominciarono a decollare dai ponti di volo di Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu ancor prima dell’alba del 4 giugno. Obiettivo: Midway, e in particolar modo le piste di volo che, secondo i piani e secondo la dottrina bellica dell’epoca, dovevano essere messe fuori servizio prima che le truppe cominciassero l’assalto.

Un quadro raffigurante la battaglia delle Midway
Un quadro raffigurante la battaglia delle Midway

L’incursione non incontrò un’opposizione particolarmente efficace. Gli arei da caccia americani levatisi in volo erano quantitativamente inferiori (20 F2A Buffalo e 7 F4F Wildcat). I giapponesi invece schieravano 36 A6M Zero, che in questa fase della guerra erano di gran lunga superiori a qualsiasi apparecchio americano.

Tuttavia il comandante dell’incursione, tenente di vascello Joichi Tomonaga, segnalò all’Akagi, ammiraglia di Nagumo, la necessità di eseguire un secondo attacco, poiché le difese di Midway erano state sì duramente colpite ma non annientate: per le truppe di fanteria sarebbe stato troppo pericoloso lo sbarco.

Nagumo, che come misura precauzionale aveva trattenuto a bordo molti aerei, alle 07:15 diede ordine di prepararli per un secondo attacco su Midway. Alle 07:40 cominciarono però ad arrivare i primi rapporti dei ricognitori giapponesi sull’avvistamento di navi nemiche.

Queste notizie contraddittorie finirono per determinare l’esito della battaglia. Lo stato maggiore nipponico decise prima di riarmare gli arei in preparazione per l’attacco a Midway in modo che potessero danneggiare le navi nemiche. Ricevuta poi l’informazione, errata, che il nemico non disponeva di portaerei, si decise di tornare a concentrarsi sull’attacco a Midway, con conseguente contrordine e nuova preparazione degli aerei a bordo.

A tutta questa serie di ordini contraddittori, si aggiungeva la necessità per i giapponesi di sgombrare i ponti di volo per accogliere i velivoli di ritorno dall’incursione sull’atollo.

La reazione statunitense

Nel frattempo, la marina americana non se n’era certo stata con le mani in mano. Alle 05:34, un idrovolante PBY Catalina decollato da Midway aveva avvistato i giapponesi. Le TF16 e -17 virarono quindi per accorciare la distanza; dato che il raggio d’azione degli aerei imbarcati a quell’epoca era inferiore a quello dei giapponesi.

Alle 07:50 Spruance fece decollare la sua forza di attacco, seguito alle 09:06 da Fletcher. Il raggio estremo al quale gli aerei vennero inviati, con l’intento di colpire le portaerei nemiche prima che queste avessero la possibilità di fare altrettanto nei confronti delle ultime, preziosissime portaerei della U.S. Navy, fece sì che le varie squadriglie americane raggiungessero i loro obiettivi in varie ondate, impossibilitate a eseguire un attacco coordinato. Paradossalmente, questa si rivelò una fortuna.

Gli aerei da caccia del Sol Levante che proteggevano le navi amiche erano stati parecchi impegnati a respingere numerosi attacchi scagliati nelle prime ore del mattino da aerei basati a Midway e decollati prima che l’atollo venisse danneggiato dagli aerei di Tomonaga.

Ora, si trovarono a respingere i primi apparecchi decollati dalle portaerei, i lenti e vulnerabili aerosiluranti TBD Devastator che volavano a bassa quota per sganciare i loro letali siluri.

Fu una strage: solo uno riuscì a sganciare poco prima di essere abbattuto, ma il suo ordigno non andò a segno. 34 dei 41 aerosiluranti non fecero ritorno e la flotta giapponese era ancora intatta.

Aerei USA durante la Battaglia di Midway: foto della flotta americana scattata in volo
Aerei USA durante la Battaglia di Midway: foto della flotta americana scattata in volo

La battaglia di Midway si decide

La fortuna, più che il calcolo, aveva guidato le squadriglie di bombardieri in picchiata SBD Dauntless decollate da Enterprise e Yorktown, a convergere sulla squadra d’attacco di Nagumo da direzioni differenti. Con gli Zero giapponesi impegnati a bassa quota per contrastare lo sfortunato e già ricordato attacco degli aerosiluranti, gli aerei dei comandanti C. Wade McClusky e Max Leslie poterono sfruttare condizioni quasi ideali per l’attacco. Anche perché sui ponti di volo le squadre di marinai nipponiche erano impegnate a rifornire e riarmare gli aerei.

Ciò comportava la presenza sul ponte di grandi quantità di bombe e carburante, condizione pericolosissima per una portaerei.

Tra le 10:25 e le 10:28 i Dauntless colpirono e incendiarono 3 delle portaerei di Nagumo. Benché queste impiegassero ancora diverse ore ad affondare, la battaglia era decisa. Ai giapponesi rimaneva una sola portaerei operativa, la Hiryu.

La Yorktown e la Hiryu affondano

Furono proprio bombardieri in picchiata Aichi D3A Val, fatti decollare dalla portaerei superstite, a colpire una prima volta con 3 bombe la Yorktown poco dopo mezzogiorno.

I marinai statunitensi, lavorando con grande alacrità, riuscirono però a riparare i danni, e quando gli aerosiluranti Nakajima B5N Kate colpirono nuovamente l’ammiraglia di Fletcher, circa 2 ore più tardi, riferirono che si trattava di un’altra portaerei, non quella già danneggiata in precedenza.

I giapponesi si convinsero così di aver affondato 2 portaerei nemiche. Viceversa, erano tutte e tre ancora a galla: 2 totalmente intatte e la Yorktown gravemente danneggiata, che finirà per affondare alle 05:30 del 7 giugno, dopo essere stata silurata anche dal sommergibile I-168.

La squadra di Spruance, dopo l’atterraggio degli aerei reduci dal vittorioso attacco contro le portaerei, era ben decisa a non lasciarsi sfuggire la superstite portaerei nemica. Una nuova ondata di attacco colpì la Hiryu poco dopo le 17:00 e anche questa nave seguì la sorte delle altre portaerei: divorata dagli incendi finì per affondare.

Fu nel corso della successiva notte che i giapponesi valutarono la situazione; decisero di abbandonare l’operazione e di ritirarsi: anche se si ebbe qualche ulteriore scontro che portò all’affondamento dell’incrociatore Mikuma e al danneggiamento del gemello Mogami, la battaglia di Midway si era conclusa con un decisivo successo americano.

Il dopo Midway e l’analisi della battaglia

Perché gli americani riuscirono a ottenere una vittoria così clamorosa, in condizioni di netta inferiorità come quelle in cui cominciarono la battaglia di Midway? I principali motivi sono:

  • lo straordinario lavoro dell’intelligence, che mise nelle mani di Nimitz una ricostruzione sufficientemente accurata del piano nemico;
  • le lacune del piano giapponese, in particolare l’eccessiva frammentazione delle forze;
  • la vulnerabilità delle portaerei giapponesi: gli scafi erano protetti meno di quelli delle equivalenti americani; e gli equipaggi erano meno addestrati nel controllo del danno;
  • la fortuna, che portò i Dauntless di McClusky e Leslie ad attaccare il nemico in condizioni ideali;
  • le indecisioni del viceammiraglio Nagumo il mattino del 4 giugno;
  • l’assenza delle portaerei Shokaku e Zuikaku, danneggiate nel Mar dei Coralli.

I numeri a confronto

Inoltre, secondo alcuni storici, H. P. Willmott su tutti, la superiorità numerica giapponese era solo presunta. A causa dell’errato piano d’attacco nemico, le flotte che effettivamente si scontrarono a Midway erano sostanzialmente di pari forza in quello che sarebbe diventato il decisivo “punto di incontro”: 4 portaerei giapponesi contro 3 americane.

A ciò si aggiungeva la stessa Midway, che fungeva da portaerei immobile ma inaffondabile; si aggiungeva inoltre un numero di aerei che varia in base alle fonti; anche se variabile esso può essere considerato sostanzialmente equivalente, tra i 260 e i 270 per parte.

Alcuni storici ritengono che la Battaglia di Midway costituisca il “turning point” della guerra nel Pacifico. Senza addentrarsi nella diatriba, è indubbio che l’affondamento delle 4 migliori portaerei nemiche, insieme ai loro addestratissimi equipaggi e aviatori, costituì un colpo durissimo per una nazione dalle limitate capacità industriali, qual era allora il Giappone.

Di fatto, mentre a partire dal 1943 gli americani mettevano in servizio enormi quantità di navi tecnicamente all’avanguardia, i giapponesi non si risollevarono più dalla perdita. Combatterono ancora per tutto il 1942 nell’intento di mantenere l’iniziativa strategica nel Pacifico. Con la sconfitta nella campagna di Guadalcanal, furono costretti sulla difensiva e, infine, alla resa incondizionata il 15 agosto 1945.

Film sulla battaglia di Midway

Sono stati prodotti alcuni film sull’evento storico della Battaglia di Midway. I più celebri sono quello del 1976 intitolato “La battaglia di Midway” (Midway), diretto da Jack Smight, con Charlton Heston, Henry Fonda, Robert Mitchum e Glenn Ford; e quello più recente del 2019 intitolato semplicemente Midway, diretto da Roland Emmerich, con Ed Skrein, Patrick Wilson, Luke Evans, Aaron Eckhart, Nick Jonas, Mandy Moore, Dennis Quaid e Woody Harrelson.

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Volto della Guerra (Visage de la Guerre), quadro di Salvador Dalí https://cultura.biografieonline.it/volto-della-guerra-dali/ https://cultura.biografieonline.it/volto-della-guerra-dali/#respond Mon, 22 Jul 2019 14:48:43 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26713 Orrori e morti racchiusi dentro la tela Volto della Guerra (Le visage de la guerre) di Salvador Dalí artista surrealista, nato in Catalogna nel 1904, che si avvicinò intorno agli anni Venti del Novecento al Dadaismo, dal quale fu condizionato per tutta la sua carriera artistica. Si tratta di un quadro che racconta gli orrori della guerra percepiti dal pittore, tra la fine della Guerra Civile Spagnola e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

Volto della Guerra Visage de la guerre Face of War Dalì
Volto della Guerra (Visage de la guerre, Face of War) • Salvador Dalí, 1940

Il “Volto della Guerra” o “Le visage de la guerre” è un olio su tela di centimetri 79 x 64, realizzato nel 1940. È custodito a Rotterdam presso il Museum Boijmans Van Beuningen.

Volto della Guerra: descrizione del dipinto

Sulla tela è impresso un volto spaventoso, enorme. Sullo sfondo un paesaggio desertico. Il viso dalla pelle scura con una smorfia di dolore e disperazione non identifica la fisionomia di donna o di uomo. Rappresenta – all’interno delle due orbite oculari e della bocca – dei teschi che, a loro volta, mostrano dei teschi all’interno delle tre cavità.

Dalla parte posteriore del viso – dal Volto della Guerra – emergono dei serpenti che si lanciano verso il davanti, minacciosi, e che avvolgono il viso: alcuni si insinuano all’interno delle orbite, altri cadono al suolo.

Sulla destra della tela, su di una roccia, si vede l’impronta di una mano. C’è, sempre sulla destra, ma in alto, una quinta rocciosa che chiude il paesaggio nell’angolo.

La storia dell’opera

La tela fu dipinta da Salvador Dalí durante il suo soggiorno in California, negli Stati Uniti. Era lì che si era rifugiato durante lo scoppio della guerra in Europa.

Prima della tela realizzò molti disegni preparatori. Tra questi, uno riporta un occhio invaso dalle api. Mentre in un’altra stampa sono raffigurati due ubriachi che presentano le orbite degli occhi trasformate in teste.

Il tavolo ha i denti, mentre i bicchieri assumono la forma di narici a triangolo. A suggerire l’acquisto del dipinto “Volto della Guerra” da un collezionista francese nel 1971 fu stata la curatrice Renilde Hammacher.

La simbologia: interpretazione del quadro Volto della Guerra

L’artista con questo dipinto evidenzia la distruzione causata dalla guerra. È una tela che assume un carattere universale. I teschi sono replicati all’infinito: è come se questo continuo rimando alla morte significhi la perenne presenza della guerra nel destino dell’umanità.

La tecnica usata da Salvador Dalí

Salvador Dalí nel dipinto “Il volto della guerra” stese con cura il colore sfumandolo per creare superfici levigate. I toni utilizzati sono caldi. Predomina il colore ocra arancio che rappresenta il suolo desertico. Mentre il volto è bruno con parti illuminate ocra dorato.

Salvador Dalí mentre dipinge il Volto della Guerra
Salvador Dalí mentre dipinge il Volto della Guerra (1940)

Le rocce sulla destra della tela sono brune e marroni. E poi c’è il cielo color turchese, in alto, e bianco giallastro verso il basso.

Il pittore usò contrasti di luminosità per evidenziare il viso all’interno dell’opera. Non a caso il colore scuro si stacca in modo deciso dal colore vivo del deserto, dove anche l’ombra disegna una sagoma sulla sabbia. Un’illuminazione che è solare e proviene da destra.

Proprio per questo si vede l’ombra del viso che si prolunga a sinistra. Sul viso le ombre scure disegnano le rughe, che sono profonde e che rivelano le orbite e la bocca, tutte spalancate.

L’inquadratura, vista la forma rettangolare dell’opera d’arte di Dalì, con orientamento orizzontale permette di rappresentare la vastità del paesaggio ampio e profondo. La fronte del volto sembra avere un seguito oltre il bordo del dipinto.

Le diagonali si incrociano al centro del viso, vicino alla base del naso. Il volto è inquadrato al centro del dipinto, assumendo così una costruzione simmetrica.

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Conferenza di Jalta: evento storico che si svolse tra il 4 e l’11 febbraio 1945 https://cultura.biografieonline.it/conferenza-di-jalta/ https://cultura.biografieonline.it/conferenza-di-jalta/#comments Thu, 28 Jun 2018 17:29:24 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=24954 Nel febbraio 1945 la Seconda Guerra Mondiale volgeva ormai al termine. Dopo qualche mese gli Alleati avrebbero vinto il conflitto mondiale, sconfiggendo definitivamente la Germania nazista. Al fine di prendere importanti decisioni sul futuro, per una settimana – dal 4 all’11 febbraio 1945 – i capi politici dei tre maggiori Paesi Alleati nonché dei tre Paesi più potenti del mondo (Stati Uniti, Regno Unito e Russia), si incontrarono a Jalta. La località è indicata in lingua anglosassone anche come Yalta ed è ubicata in Crimea, sul Mar Nero. Quella che storicamente è nota come la Conferenza di Jalta si tenne presso il Palazzo Livadija.

1945 - Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Jalta
1945 – Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Yalta

Jalta: cosa era successo prima

I tre leader presenti alla Conferenza di Jalta (Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Josif Stalin) si erano già incontrati in precedenza, durante la Conferenza di Teheran, tenutasi nel 1943. Già allora la situazione si presentava alquanto complicata, in quanto Hitler aveva tradito il patto “Molotov-Ribbentrop stipulato nel 1941 tra i Ministri degli Esteri di Germania e Russia. In esso era stata stabilita l’annessione alla Russia di Estonia, Lituania e Lettonia, la non aggressione reciproca tra i due Paesi e la divisione della Polonia.

Secondo i piani di Hitler l’operazione “Barbarossa intentata contro la Russia nel giugno del 1941 doveva svolgersi in maniera veloce e “indolore”, ma così non fu. Il 3 luglio dello stesso anno Stalin, rivolgendosi al popolo con un discorso divulgato alla radio, annunciò la sua intenzione di entrare in guerra contro la Germania, definendo i nazisti con a capo Hitler dei veri e propri “criminali”. Più tardi l’URSS valutò la necessità di allearsi con i Paesi dell’Occidente; proprio per questo si tennero tre incontri a breve distanza uno dall’altro: Teheran, Jalta e Potsdam.

Lo svolgimento della Conferenza di Jalta nel dettaglio

L’incontro era stato fissato per valutare lo scenario presente e prendere decisioni sul periodo post-bellico che sarebbe seguito di lì a poco. Gli incontri tra i leader si tennero presso il Palazzo Livadija. Qui fu anche realizzato un centro comunicazioni che smistava le notizie dell’incontro in tutto il resto del mondo. Pare che la Conferenza di Jalta si sia svolta in un clima comunque disteso; non ci furono recriminazioni tra i partecipanti, nonostante tra loro ci fossero grandi differenze sia culturali che ideologiche.

Le riunioni non si svolsero secondo un ordine del giorno prefissato: i tre partecipanti discussero della situazione in cui si trovava la Polonia, del futuro della Germania e della Jugoslavia, e di un possibile intervento della Russia in Giappone. Secondo gli studiosi che affrontarono la conferenza di Jalta dal punto di vista storiografico, anche se l’incontro era stato previsto per garantire ai Paesi un futuro di “pace e prosperità”, in realtà ognuno cercò di difendere i propri interessi. Sempre secondo gli storiografi fu Stalin ad avere la meglio rispetto agli altri due, nelle decisioni che furono prese.

Le posizioni del tre leader

Durante le trattative Winston Churchill si mostrò accondiscendente a che l’Europa orientale fosse interamente sotto il controllo della Russia. Stalin e Roosevelt, invece, discussero a lungo circa la situazione dell’estremo Oriente, addivenendo ad alcune conclusioni. In particolare, il leader degli Stati Uniti ottenne da Stalin la promessa di entrare in guerra contro il Giappone. In cambio l’URSS acconsentì ad alcune concessioni territoriali, oltre al riconoscimento degli interessi nei porti cinesi di Dalian e Port Arthur. Altro argomento che fu approvato durante la conferenza di Jalta fu l’istituzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Oggetto di discussione fu soprattutto la modalità di voto che il Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto adottare in futuro. In particolare Stalin aveva avanzato la possibilità di introdurre il diritto di veto. La redazione e la sottoscrizione della Carta delle Nazioni Unite vennero però rimandate ad un incontro successivo; esso si sarebbe tenuto circa due mesi dopo in America, per la precisione a San Francisco. A quell’incontro, però, non si presentò Roosevelt, che morì qualche giorno prima dell’inizio dei lavori. Il documento finale, che venne sottoscritto il 26 giugno, stabilì la struttura delle Nazioni Unite, così come risulta ancora oggi.

Cosa successe dopo la Conferenza di Jalta

Al termine della conferenza di Jalta, Roosevelt si dichiarò soddisfatto del risultato conseguito, definendolo una “grande vittoria della pace”, ma non fece in tempo a partecipare alla conferenza di Potsdam indetta successivamente, perché morì qualche giorno prima. Churchill lasciò Jalta prima degli altri leader per recarsi di persona a verificare l’esito delle elezioni nel Regno Unito, ma siccome vinsero i laburisti, a Potsdam ci andò un altro primo ministro: Clement Attlee. Ma la situazione era destinata a mutare velocemente: il 5 marzo 1946 cominciò ufficialmente la Guerra Fredda.

Considerazioni sulla Conferenza di Yalta

La conferenza di Jalta può essere valutata secondo due prospettive opposte.

  1. Secondo alcuni studiosi l’incontro tenutosi in Crimea aveva finito con il favorire l’avvento della Guerra Fredda. La causa fu l’espansione sovietica e la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti tra loro.
  2. Secondo altri, invece, la conferenza rappresentò un’occasione di confronto su temi importanti. Ad essi seguì una fattiva collaborazione tra le potenze che erano risultate vittoriose nella Seconda Guerra Mondiale.
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Linea Maginot https://cultura.biografieonline.it/linea-maginot/ https://cultura.biografieonline.it/linea-maginot/#comments Thu, 05 Oct 2017 09:14:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23434 Un grande sistema difensivo all’avanguardia fu realizzato per difendere lo Stato francese e i suoi abitanti. In cosa consiste la Linea Maginot?

André Maginot è stato Ministro della guerra francese negli anni dal 1929 al 1931. A lui si deve la progettazione della complessa rete difensiva realizzata dal Governo francese nel decennio 1930-1940, la c.d. Linea Maginot (che appunto da lui ha preso il nome). Inizialmente guardato con favore ed orgoglio dai Francesi, tale ingegnoso sistema militare costruito per la maggior parte sottoterra per difendere il territorio francese dalle invasioni nemiche, si rivelò successivamente uno degli errori più pesanti compiuti durante il secondo conflitto mondiale. Il ministro Maginot, a seguito delle gravi ferite riportate durante la prima guerra mondiale, dovette utilizzare stampelle e ausili per le gambe fino alla sua morte.

Linea Maginot

La Linea Maginot nello specifico

Gli architetti militari francesi, sotto la guida dell’allora ministro Maginot, progettarono la costruzione di tutto ciò che serviva per difendere la nazione dagli attacchi esterni. Anche quelli eventualmente compiuti con i mezzi più moderni e letali come il gas, gli aeroplani e carri armati. Al suo interno, sotto il suolo, la Linea Maginot era dotata di strade ferrate per agevolare la comunicazione tra i quartieri. Vi erano anche ascensori, gallerie, depositi di munizioni e armi di ogni tipo.

All’esterno la linea di fortificazione era piena di bunker. L’uso era destinato al rifugio di oltre 600 soldati, campi minati, fortini in cemento armato, postazioni di artiglieria a scomparsa, bacini artificiali, canali anticarro. Dal punto di vista geografico, la linea Maginot si estendeva dal confine della Francia con la Germania fino ad arrivare al Belgio. Passava inoltre per la Svizzera e l’Italia.

Linea Maginot - Maginot Line
Linea Maginot

Si tratta di una imponente linea difensiva che però non servì a molto. Infatti durante il secondo conflitto mondiale, nel 1940, le truppe tedesche raggiunsero la Francia e invasero Parigi passando attraverso il Belgio, senza attaccare frontalmente la Linea. Essa in effetti restò intatta. Più tardi, nel 1944-1945, la Linea Maginot si rivelò utile per la difesa degli attacchi provenienti dal retro. Gli Americani ebbero problemi a superarla.

Perché la Linea Maginot è stata un flop

Dal punto di vista strategico e militare, l’imponente linea Maginot, con le sue fortificazioni e le strutture difensive sul suolo e sottoterra, si è rivelata un autentico fiasco. La costruzione di un sistema difensivo così imponente e sofisticato per quei tempi ha comportato un enorme dispendio di denaro, incidendo pesantemente sulle casse dello Stato francese. La Linea Maginot era un progetto che all’epoca aveva coinvolto tanto l’opinione pubblica ed aveva avuto un forte seguito sull’immaginazione collettiva, proprio per la sua maestosità. E per l’’ambizioso obiettivo di proteggere la Francia e i suoi abitanti da qualsiasi incursione esterna.

In realtà l’errore del Governo fu quello di credere che un sistema siffatto fosse in grado, da solo, di assicurare la difesa dello Stato francese, senza prevedere integrazioni difensive, come l’impiego dei carri armati o gli aerei, che furono parecchio utilizzati nel corso della seconda guerra mondiale. Così come fu realizzata, la Linea Maginot lasciava scoperte alcune zone del territorio francese. Vi erano alcune zone minerarie industriali confinanti con la Germania, che venivano difese particolarmente perché un loro attacco avrebbe potuto compromettere l’economia francese. Oppure, alcune regioni come l’Alsazia e la Lorena venivano protette più di altre a causa della loro precaria posizione geografica, che le lasciava scoperte e facilmente attaccabili dall’esterno.

Le armi presenti nella Linea Maginot

Lungo tutto lo snodo della Linea Maginot erano state impiantate armi di ogni genere, adatte a fronteggiare qualsiasi incursione da parte dei nemici. Tra le armi di artiglieria vi erano un mortaio, un lanciabombe, un cannone (l’arma principale tra quelle di artiglieria). Le armi di fanteria comprendevano un mortaio, un lanciagranate, due cannoni, un fucile mitragliatore, armi miste. Per le armi esistevano due tipologie di protezione: le torrette e le casematte, entrambe presenti nella Linea Maginot.

Illustrazione di una torretta di difesa della Linea Maginot
Illustrazione di una torretta di difesa della Linea Maginot

La Linea Maginot oggi: informazioni generali

L’imponente costruzione militare, realizzata dal 1928 al 1940, si presenta come una linea fortificata alta circa 93 metri. Attualmente la maggior parte di essa è abbandonata e quindi impraticabile, ma vi è una zona visitabile che è stata oggetto di un profondo restauro. Il proprietario di ciò che resta della Linea Maginot è il Demanio militare francese, tanto è vero che molte aree sono state dichiarate “zona militare” e quindi ne è stato inibito il transito. I visitatori possono entrare solo nelle zone restaurate e in quelle adibite a museo.

Linea Maginot come metafora

Proprio perché inizialmente si riponeva in questo sistema difensivo una grande aspettativa che poi fu delusa, il termine “Linea Maginot” viene utilizzato metaforicamente per indicare qualcosa di cui ci si fida ciecamente ma che poi invece si rivela del tutto inadeguato.

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La Battaglia di Dunkerque e l’Operazione Dynamo https://cultura.biografieonline.it/battaglia-dunkerque-operazione-dynamo/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-dunkerque-operazione-dynamo/#comments Sat, 19 Aug 2017 12:38:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23116 Nella storia della Seconda Guerra Mondiale, Dunkerque, porto situato nel nord della Francia, svolse un ruolo importante. Rappresentò fu contemporaneamente la testimonianza della forza militare tedesca e della capacità inglese di resistere, dimostrando una notevole organizzazione logistica e una sorprendente velocità d’azione.

Battaglia di Dunkerque
Una foto del 29 maggio 1940: il traghetto dell’isola di Man SS Mona’s Queen in fumo dopo aver colpito una mina al largo di Dunkerque.

Il contesto

Il 26 maggio del 1940 truppe francesi e inglesi si ritrovarono nel porto di Dunkerque a causa dello sfondamento del fronte della Mosa ad opera delle truppe tedesche della Wehrmacht. Esse dal 10 maggio avevano sbaragliato ogni resistenza da parte dell’esercito francese. Nel quadro dell’offensiva in Occidente i tedeschi, in pochi giorni, grazie all’avanzata lampo della Panzer-Divisionen, avevano attraversato le Ardenne e superato la linea di difesa della Mosa, chiudendo in un cuneo le truppe superstiti francesi e il corpo di spedizione britannico. Quest’ultimo fu mandato a contrastare l’esercito tedesco e ad aiutare l’alleato francese fin da subito in forte difficoltà.

Tra il 26 maggio e il 4 giugno, dunque, le truppe alleate superstiti furono ammassate nel porto di Dunkerque per dare avvio alla più grande missione di salvataggio della storia: l’Operazione Dynamo. Grazie anche all’intervento della RAF (Royal Air Force) britannica che riuscì a distruggere molti aerei dell’aviazione militare tedesca, navi da flotta e mercantili britannici riuscirono a portare in salvo oltre la Manica 340.000 soldati.

Battaglia di Dunkerque: i fatti

Il 10 maggio del 1940 iniziò la prima fase dell’offensiva tedesca che aveva lo scopo di distruggere ogni resistenza da parte dell’esercito olandese, belga e francese. L’esercito tedesco utilizzò la tecnica della guerra lampo avanzando contemporaneamente da nord e da sud. Sia le truppe olandesi che belghe vennero sconfitte velocemente. La fanteria francese resistette qualche giorno per poi capitolare di fronte all’avanzata inarrestabile della divisione corazzata tedesca. Questa non aveva uguali in termini di organizzazione, velocità e potenza di fuoco.

In tre giorni i carri armati della Panzer-Divisionen penetrarono nelle Ardenne raggiungendo le rive del fiume Mosa. I francesi si ritrovarono allo sbando.

I tedeschi non si fermarono e proseguirono fino alle coste della Manica, spingendo e isolando sia le truppe francesi che le truppe britanniche che erano state inviate per aiutare gli eserciti alleati.

I comandi inglesi, belgi e inglesi cercarono di organizzare velocemente una contro offensiva, ma l’impatto con i mezzi tedeschi li aveva destabilizzati e non riuscirono a trovare il giusto coordinamento per respingerne l’avanzata. A questo punto gli alleati erano bloccati e divisi in un cuneo che avrebbe potuto essere contrastato da nord. I comandi avrebbero potuto riorganizzarsi e attaccare i tedeschi per impedire di essere chiusi in una morsa mortale. Tuttavia la debolezza e lo sfiancamento morale di francesi e belgi non permise un tale atto di forza, che avrebbe impedito i successivi accadimenti.

L’esercito tedesco aveva vinto in pochi giorni e contro tutti i pronostici.

Una pausa per i tedeschi

A questo punto i generali della Wehrmacht decisero di fermare l’avanzata da sud. Questa decisione, che permise di evitare un disastro totale per gli eserciti alleati, fu presa probabilmente per permettere alle forze in campo di riposarsi e di approvvigionarsi di carburante. Era il 24 maggio del 1940. Hitler fu entusiasta per il trionfo delle sue divisioni e ritenne la vittoria in Europa un dato di fatto. Per questo motivo impartì i primi ordini per organizzare il secondo attacco che avrebbe portato alla capitolazione della Francia.

Tuttavia, sia il Führer che il suo alto comando, sottovalutarono la capacità della marina inglese di organizzare un’evacuazione di massa, ritenendo che fosse impossibile salvare una tale quantità di uomini in così poco tempo. Fra il 24 e il 26 maggio 1940, dunque, le divisioni corazzate tedesche si fermarono, permettendo involontariamente ai comandi alleati di ammassare le loro truppe a Dunkerque, organizzando contemporaneamente la difesa del porto e delle spiagge limitrofe.

In realtà l’Ammiragliato britannico già il 14 maggio 1940 aveva svolto un’indagine per verificare la disponibilità di imbarcazioni private e mercantili, che erano attraccate sulla costa antistante a quella francese, di svolgere una missione di salvataggio. Dopo pochi giorni era evidente che l’esercito sul continente avrebbe dovuto essere evacuato velocemente. Il primo ministro britannico Winston Churchill, diede ordine all’Ammiragliato di ammassare tutti i mezzi disponibili nei porti al fine di iniziare l’evacuazione delle truppe. L’operazione venne chiamata Dynamo.

Winston Churchill
Winston Churchill

Operazione Dynamo

Dal 24 al 30 maggio 1940 i comandi alleati riuscirono ad ammassare tutte le truppe a Dunkerque. Fortificarono il perimetro e diedero ordine di distruggere tutti i mezzi a motore e tutti gli equipaggiamenti militari che non era possibile trasportare in Inghilterra. L’aviazione tedesca cercò di infliggere più perdite che poteva agli alleati. La loro azione si focalizzò su una serie di bombardamenti e di assalti alla spiaggia in cui le truppe inglesi e francesi erano state riunite.

Nel frattempo, visto che il porto era stato in gran parte distrutto dai bombardamenti, fu necessario creare dei ponti di fortuna per permettere alle truppe di salire sulle imbarcazioni. Il tempo era contato.

Operazione Dynamo Operazione Dynamo

Grazie all’abilità e al coraggio dell’aviazione britannica l’attacco degli aerei tedeschi fu contenuto. Tuttavia l’evacuazione subì, a causa della fretta e dell’utilizzo di barche private e pescherecci, oltre alle navi da guerra, rallentamenti e confusione organizzativa. Due inaspettati vantaggi permisero di limitare le perdite umane: il mare calmo e l’aviazione britannica.

Il 3 giugno 1940 gran parte dell’evacuazione era terminata. Pochi soldati erano rimasti a difendere il perimetro attorno a Dunkerque e le ultime navi arrivarono per prelevarli e portarli via. Il cacciatorpediniere Shikari fu l’ultima nave militare a salpare dal porto francese alla volta dell’Inghilterra.

L’epilogo

Quando i tedeschi giunsero a Dunkerque trovarono equipaggiamenti, armi e alcuni mezzi non ancora distrutti. Trovarono però anche 34.000 soldati che non erano riusciti a fuggire, probabilmente perché erano arrivati tardi. Per questo furono catturati e imprigionati. Il 4 giugno 1940 gli ufficiali catturati firmarono la resa totale.

Malgrado la sconfitta e l’avanzata inarrestabile delle truppe tedesche, i comandi alleati riuscirono a portare a termine l’Operazione Dynamo ottenendo un insperato successo. Vennero salvati 340.000 uomini. Anche se prima di imbarcarsi ne morirono circa 9.500. Considerando la cocente sconfitta e il rischio che venissero uccisi tutti, intrappolati in un cuneo mortale ad opera delle divisioni corazzate, questo salvataggio entrò nella storia per la velocità e la quantità di vite risparmiate.

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