Woodstock Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 03 Jul 2020 18:54:27 +0000 it-IT hourly 1 Dal Rock & Roll delle piccole sale ai grandi concerti all’aperto https://cultura.biografieonline.it/dal-rock-delle-piccole-sale-ai-grandi-concerti/ https://cultura.biografieonline.it/dal-rock-delle-piccole-sale-ai-grandi-concerti/#respond Fri, 03 Jul 2020 17:37:34 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29906 L’arte preistorica viene studiata dall’archeologo attraverso il riconoscimento di strumenti primordiali reperiti negli scavi, quali semplici strumenti a percussione, sonagli, raschiatoi e flauti in osso. Per mezzo degli strumenti si riusciva a creare solo suoni ritmici di accompagnamento, quindi è ipotizzabile che la parte essenziale della musica ancestrale consistesse in ciò che non può essere ritrovato, cioè la voce . (1)

L’importanza della voce per esprimersi musicalmente si ritrova, ad esempio, nella nascita ed evoluzione del teatro greco, nato come espressione religiosa di gruppo, sostenuta dalle voci dei coreuti, che solo in un secondo tempo ha evoluto le parti singole delle prime voci, divenute poi gli attori dediti al recitativo. (2)

Il passaggio evolutivo da esibizione musicale e corale a “recita” ha inoltre causato un primo allontanamento del pubblico, non più completamente interattivo, dagli esecutori, ormai divenuti artisti. Da un lato questa trasformazione ha prodotto i grandi spettacoli greci e romani, che hanno tenuto banco per secoli, dall’altra ha fatto nascere le professioni di artisti itineranti che, spesso da soli, si esibivano nelle piazze dei mercati, contemporaneamente all’evoluzione della musica cantata di impronta religiosa. (3)

Teatro greco e teatro romano

Tra costoro, chi riusciva a raccogliere maggiori consensi poteva aspirare a esibirsi nelle corti nobiliari, dove il pubblico era numericamente ridotto, più raffinato nella cultura musicale e per ciò consolidava dei canoni estetici standardizzati tipici del periodo.

L’americanizzazione della musica in Europa

A cavallo tra il XIX e il XX secolo giungono in Europa i primi accenni di popular music, direttamente dagli Stati Uniti; un esempio può essere trovato, a metà dell’800, con Louis Moreau Gottschalk, che per alcuni anni spopola presentando musicalità caraibiche e afroamericane. Molti autori europei contribuiscono a diffonderle, come Georges Bizet (1838-1875), che inserisce nella sua Carmen la danza cubana “El Arreglito”. Anche Debussy compone alcuni pezzi a carattere afro-americano, ispirato dalle compagnie di minstrels che iniziano a girare per l’Europa, presentando la novità della musica sincopata. (4)

Un secondo passo nell’americanizzazione lo compie negli anni dieci del novecento l’avvento in Europa del tango, musica da ballo liberatoria dell’espressione corporea e – perché no – degli istinti repressi. (5)

Tango Luego Mario Eduardo Aguilera Merlo

Ad esso segue, negli anni venti, l’avvento del jazz: in realtà all’inizio si tratta di balli riecheggianti la “modernità” della nuova epoca. Solo in un secondo tempo prendono piede le grandi orchestre.

La definitiva conquista del vecchio Continente da parte dell’America avviene, però, nell’immediato dopoguerra: al seguito dei soldati statunitensi è presente la loro musica, quella realmente “popular”, sotto forma delle incisioni di grandi musicisti americani realizzate appositamente per le truppe al fronte.

Una volta terminata la guerra, quei dischi – soprattutto di jazz – divengono merce di scambio con i giovani, soprattutto inglesi, che si trovano a contatto con le forme più aggiornate di musica popolare americana. Grazie anche al cinema, quella musica opererà la trasformazione della musica popolare europea, mentre l’originale inizia a spegnersi in patria (5).

Rock & Roll, Rhythm & Blues

Le influenze americane penetrano nel sentire musicale collettivo dei giovani e nelle forme musicali da loro preferite, fin alla conversione al rock and roll, suonato e vissuto però nell’ottica stilistica tipica del folk britannico.

Intorno alla fine degli anni cinquanta anche in GB il Jazz tradizionale inizia a perdere terreno e non è più musica di tendenza; alcune giovani band inglesi si dedicano al Rhythm & Blues e lo acquisiscono integrandovi il folk tradizionale. È il caso dei Rolling Stones, che iniziano come amici che amano suonare insieme e si ispirano a musicisti che trovano unanimemente di loro gradimento.

In questo periodo storico i gruppi musicali agli esordi, quelli meno conosciuti e le avanguardie si esibiscono in pub e balere, locali a capienza limitata; gli artisti famosi, in parte statunitensi, vengono invitati in teatri e sale concertistiche, davanti a poche centinaia di persone o poco più. Il polo di intrattenimento musicale londinese era il quartiere di Soho: qui prende vita lo skiffle nel 1956 e sul finire del decennio vi fiorisce una serie di famosi locali che offrono concerti di jazz e skiffle.

Il Marquee Club, ad esempio, nasce nel 1958 sulle ceneri di una sala da ballo che già aveva tentato senza successo di trasformarsi in punto di aggregazione musicale; nel 1962 inizia con serate dedicate al rhythm & blues.

Rolling Stones, Beatles e l’hard rock

I Rolling Stones, che hanno trovato i primi ingaggi nei piccoli locali in cui è ancora relegata la nuova forma musicale, nel 1962 vi suonano in pianta stabile come “gruppo spalla” di altre band di rhythm and blues, quali Brian Auger, John Mayall and the Bluesbreakers, gli Yardbird e il bluesman americano Sonny Boy Williamson.

I Rolling Stones già nel 1962 avevano un contratto allo Station Hotel, iniziato come occasionale tappabuchi in una giornata piovosa: davanti a tre soli spettatori riescono ad essere talmente convincenti da moltiplicare in brevissimo tempo il pubblico, che spiega il loro successo affermando che “suonano la nostra musica”.

Durante questo periodo avvenne un fatto significativo che può far comprendere come la musica avvince il pubblico e lo rende partecipe. In quelle sale strapiene e con molti posti a sedere non era immaginabile che gli uditori potessero interagire con gli esecutori esprimendosi attraverso il ballo e quindi il pubblico ascoltava fermo e un po’ silenzioso.

Tale situazione poco si avvicina alle coinvolgenti ritualità ancestrali di forte impatto emotivo, come le danze tribali, perciò i Rolling Stones, benché si impegnassero enormemente e trovassero riscontro nella grande affluenza di fans, sentivano che mancava un’indefinibile completamento dell’evento. A questo ovviò un loro collaboratore, che una sera, nel momento clou dell’esibizione, salì su un tavolo, alzò le braccia in
alto e iniziò ad agitarle. La risposta fu immediata e totale, il pubblico rispose all’invito imitando i gesti dell’uomo. (6)

Negli stessi anni in Gran Bretagna si sta sviluppando la variabile nazionale dell’industria musicale, riadattando a scopi commerciali forme musicali americane, come il beat, il blues e il rhythm and blues, che saranno riesportate negli USA da gruppi come Beatles e Rolling Stones; in pratica, grazie alla estrema vicinanza linguistica, gli inglesi sono parte fondamentale nella creazione della popular music consumistica e nel prosieguo sono proprio le band inglesi le più impegnate nel creare il nuovo genere, l’hard rock. (7)

Il capitalismo nella musica

Con la commistione tra USA e Great Britain il capitalismo trova interesse a entrare con forza nel mondo musicale, attirato dalla possibilità di arricchire e iniziano le azioni di marketing: non sono più basilari le capacità degli interpreti, ma la loro presa sul pubblico, ovvero sul potenziale acquisto di dischi.

Il discografico arruola i gruppi esordienti, modifica la formazione per meglio commercializzare l’immagine, vedasi per esempio Jan Stewart, escluso dal manager Andrew Oldham prevalentemente per motivi estetici. Oldham può essere considerato un archetipo di questa nuova figura, trova i Beatles e li lancia, poi li lascia quando non riesce a legarli a contratto con la Decca Record e si rivolge ai Rolling Stones, che invece vengono arruolati.

Un altro fenomeno negativo provocato dal capitalismo nella musica è che, curando il progetto e quindi le vendite, contribuisce a distanziare l’esecutore dal suo pubblico: fisicamente relegando le presenze nelle platee sempre più lontane dal palco e spiritualmente comprimendo i significati musicali, riducendo il musicista a registrare le sue creazioni e spingendo il pubblico ad acquistare il disco per poterlo ascoltare.

A questo cliché sono costretti a sottostare tutti i musicisti che desiderano diventare famosi, anche se hanno un messaggio da offrire; d’altro canto, il musicista stesso ha piacere a vedere ampiamente diffuse le sue opere.

Esistevano già case discografiche specializzate di piccole o medie dimensioni, ma la vera svolta si verifica quando le grandi etichette, compresa la ricerca del nuovo da parte di una larga fetta di pubblico, iniziano a offrire contratti alle band di nuova tendenza.

La moda e la trasgressione

Negli anni sessanta inizia il periodo che può venir definito “della trasgressione”, partendo dalla moda: Mary Quant, che già alla fine degli anni cinquanta aveva iniziato a vestirsi in modo eccentrico, divenuta stilista propone abiti sempre più corti, presentando modelli semplici, colorati e coordinati; lancia la “minigonna” nel 1963, insieme a collant colorati, grandi cinture appoggiate ai fianchi e gli “skinny ribs”, attillati maglioni a costine.

Altri stilisti la seguono, venendo incontro allo stile casual dei giovani, tra cui Barbara Hulanicki, che nel 1964, con un’attentamente studiata operazione commerciale apre Biba, negozietto-bazar di sue creazioni destinato a divenire un punto fermo nella moda. Le attività degli “alternativi” si concentrano a Soho, soprattutto lungo Carnaby Street, e proprio in questa zona alcune band – tra cui i Rolling Stones – stabiliscono la loro base per lavorare.

Nel frattempo si verifica un importante cambiamento culturale nelle giovani generazioni, che prediligono trasgredire anche altre imposizioni estetiche e comportamentali degli stereotipi inglesi, riassumibili in giacca, cravatta e bombetta. Appaiono sempre più spesso ragazzi con i capelli più lunghi del normale e che assumono atteggiamenti volutamente trasgressivi, da “cattivi ragazzi”.

Contemporaneamente, negli Stati Uniti dagli stimoli espressivi della Beat generation si originava un movimento di controcultura formato da persone che, partendo dal rifiuto della guerra in Vietnam e delle convenzioni borghesi, propugnavano e praticavano la rivoluzione sessuale e l’uso di allucinogeni come LSD e cannabis, ascoltando rock psichedelico e musiche di protesta, alla ricerca di un nuovo equilibrio sociale: la cultura hippie. Molti di costoro portavano vestiti colorati e sognavano un mondo impregnato di pace e libertà totale, non solo dalle convenzioni.

La moda e i valori hippie hanno avuto un notevole impatto sulla cultura, influenzando la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura e l’arte in generale e molti suoi aspetti sono diventati di comune dominio, compresa la diversità culturale e religiosa e le filosofie orientali.

È evidente che nel corso degli anni sessanta avviene una commistione tra economie di mercato e preferenze musicali diffuse. Le produzioni che vengono veicolate attraverso canali tipicamente consumistici sono però quelle gradite dalle classi socioeconomiche basse, parlano alle minoranze e invitano gli oppressi ad alzare la testa. (8)

Quindi la domanda che ci si potrebbe porre è la seguente.

Quanto pesa in generale il market sulla diffusione delle musiche e degli stili di vita?

Un diverso approccio, stimolato dallo studio delle tipologie proposte da Merrian, in cui si ricercano collegamenti tra musica e dinamiche culturali, suscita invece l’interesse a indagare su quanto lo stile di vita hippy ha influenzato i cambiamenti sociali degli anni sessanta e settanta. (9)

I festival musicali

Riguardo a ciò, è palese che la voglia di condividere le esperienze quotidiane tipica della cultura hippy e l’istintiva pulsione umana alla concentrazione di grandi masse – come accadde già in preistoria per la nascita delle prime città – porta alla necessità di trovare luoghi molto molto più capienti del pub o del teatro per le esibizioni di artisti con centinaia di migliaia di fans; nella seconda metà degli anni sessanta si inizia a sperimentare concerti in ampie aree pubbliche che non siano tipicamente destinate a manifestazioni: inizia il fenomeno dei festival musicali.

Il primo ad accomunare rivoluzione musicale e stili di vita alternativi fu l’inglese Reading, iniziato nel 1961, che lanciò definitivamente i Rolling Stones nel 1963. Negli USA esisteva dal 1959 il Newport Folk Festival (10).

Dal 1966 il festival rock divenne il palcoscenico della contestazione giovanile, della nascita della cultura hippie e della rivoluzione sessuale. Il Monterey Pop Festival del 1967 fu un grande evento gratuito, con un foltissimo cartellone di musicisti e un pubblico di ben 200.000 persone.

In Europa uno dei luoghi – poi divenuti simbolici – può essere identificato in Hyde Park a Londra, dove iniziarono a esibirsi i Pink Floyd. (11)

Il 1969 è un altro anno importante per i grandi eventi all’aperto in Europa: i Rolling Stones perduto tragicamente Brian Jones, sentono la necessità di esprimere i loro umori del momento:

“Il concerto ad Hyde Park fu davvero strano. Per certi versi era come ricominciare tuto d’accapo, ma invece di farlo al Crawdaddy club o da qualche altra parte presentavamo un nuovo membro per la prima volta davanti al più grande pubblico che avessimo mai avuto […] dovevamo affrontare il fatto Brian non aveva sol lasciato il gruppo ma anche questo pianeta. Eravamo preda di emozioni contrastanti, suona r e in quelle condizioni era come camminare su una corda molto sottile” (12)

Il concerto, naturalmente gratuito, si dimostra ricchissimo di emozioni già per i componenti della band, che anni dopo ricorderanno ancora la forte comune commozione, i timori per il debutto di Mick Taylor, le problematiche di amplificazione e la loro mediocre prova dal punto di vista musicale. (13)

Ma per il pubblico si tratta dell’apoteosi, dell’avvenimento unico e irripetibile. Sicuramente giocano un ruolo notevole le emozioni e il totale coinvolgimento emotivo in sinergia tra la massa e gli esecutori. (14)

Molti concerti seguono a Monterey e Hyde Park. Sorge il contrasto a sfondo prettamente economico tra le band che propongono l’ingresso libero e gli imprenditori (discografici, agenti e organizzatori) che, da bravi capitalisti, puntano a massimizzare i profitti. Il risultato è che gli artisti vedono assottigliarsi notevolmente i proventi e il pubblico inizia ad assuefarsi al dover pagare per entrare. È una delle cause – a mio avviso forse la principale – del declino per questo tipo di esibizione.

Pochi mesi dopo Hyde park ecco Woodstock, considerato l’apoteosi del fenomeno hippy e della musica ad esso legata: tre giorni di maxi-concerto con 500.000 presenze fanno credere che davvero il rock possa cambiare il mondo.

Festival di Woodstock 1969
Il Festival di Woodstock si tenne dal 15 al 17 agosto del 1969

La rapidissima disillusione giunge, sempre nel 1969, ad Altamont, un festival gratuito voluto dai Rolling Stones allo scopo di favorire il pubblico della costa orientale , ma organizzato pessimamente, che degenera in risse e nella morte di un ragazzo. Infine il festival (a pagamento) dell’Isola di Wight nel 1970, con Doors, Free, ELP , Taste, Jethro Tull, Who e Jimi Hendrix, pubblicizzato a dismisura dai discografici, evidenzia drammaticamente la divaricazione fra esigenze del marketing e ideali giovanili.

Assodato che la scelta degli ambienti condiziona la musica, l’artista e l’ascoltatore, viene da domandarsi quanto il periodo dei grandi eventi abbia influito, in bene e in male, sulla creatività degli artisti e sull’ascesa della cultura hippy, che sembrava inarrestabile ma che ha subito un duro colpo dalla sua mercificazione.

È giusto che l’etnomusicologia, nello studiare le manifestazioni musicali di un popolo, ponga attenzione alla musica delle classi socioeconomiche basse, degli oppressi e delle minoranze. (15)

Esiste però un’altra categoria che necessita di maggiore attenzione, l’universo femminile.

Le cantanti donne

Per secoli la cultura maschilista interconnessa al concetto di capitale e proprietà ha mantenuto la donna in condizioni di minorità. Negli ultimi due secoli la condizione femminile ha iniziato a trovare riconoscimenti e sbocchi, ma siamo ancora molto lontani da una reale parità. In campo
musicale la rivalutazione è iniziata grazie al melodramma, che ha sdoganato dal settecento la presenza di donne sul palco, ma secondo Reublin e Beil, la scarsa rinomanza delle cantautrici è un’omissione imbarazzante nel patrimonio musicale. (16)

Anche se dalla seconda metà del secolo scorso grandi cantanti hanno ottenuto la fama, esse paiono più casi singoli, artiste di altissima levatura come Aretha Franklin. Certamente la rivoluzione sociale iniziata negli anni sessanta, lo stesso fenomeno hippy e le molteplici manifestazioni femministe hanno contribuito a ridurre il divario tra i sessi, ma resta il fatto che i discografici continuano a puntare su cantanti donne di bell’aspetto senza curarsi delle loro reali doti musicali.

Ma siamo ancora lontani dalle condizioni neolitiche, in cui le donne guidavano a pieno titolo il canto corale intorno al fuoco dell’insediamento.

Note bibliografiche

(1) Corso di Storia della Tecnologia del prof. Vittorio Marchis presso il Politecnico di Torino
(2) Aristotele, Poetica, IV secolo a.C.
(3) Raffaele Arnese, Storia della musica del medioevo europeo, Historiae Musicae Cultores, ISBN: 978882223
(4), (5) Weschool, La popular music americana in Europa fino al secondo dopoguerra.
(6) Intervista a Giorgio Gomelsky, 2003
(7) Ira A. Robbins, Encyclopedia Britannica – British Invasion, maggio 2020
(8) Credo, Bruno Nettl (The Study of Ethnomusicology, 2005)
(9) Antropologia della musica, Alan P. Merriam, Sellerio Editore, Palermo, 2000
(10) Alfredo Cristallo, Rock Festival Storie di musici e musica – Gli anni del Festival, in musicastrada.it
(11) Hearn, Marcus (2012). Pink Floyd, Titan Book
(12) Intervista a Keith Richards, According to The Rolling Stones, Weidenfeld & Nicolson, 2003
(13) According to the Rolling Stones, Mondadori, 2003
(14) Sito ukrockfestivals.com
(15) Credo, Bruno Nettl, The Study of Ethnomusicology, 2005
(16) Richard Reublin e Richard Beil, Women in american Song, The parlour Song Academy

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Woodstock: il Festival del 1969 https://cultura.biografieonline.it/woodstock-1969/ https://cultura.biografieonline.it/woodstock-1969/#comments Fri, 06 Sep 2013 11:13:01 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7802 Il Festival di Woodstock fu un evento tanto importante, da diventare un aggettivo: utilizzato per rendere l’idea di una grande manifestazione, soprattutto se a carattere musicale e se popolata da un pubblico numeroso, perlopiù giovanile (e, anche, trasgressivo). È Woodstock, il più grande raduno della storia del rock, andato in scena nella piccola cittadina rurale di Bethel, situata nello stato di New York, in una distesa di prato aperto (per la precisione, si tenne nel caseificio di proprietà di Max Yasgur, poco fuori il White Lake).

Festival di Woodstock 1969
Il Festival di Woodstock si tenne dal 15 al 17 agosto del 1969

Il festival ebbe luogo dal 15 al 17 agosto del 1969, con un’appendice finale “debordata” al 18 agosto (per la verità non prevista), e può ben essere considerato il punto culminante, il vero apice, della diffusione della cultura hippy. Un happening mondiale organizzato allo scopo di riunire gli amanti della musica rock e del movimento della controcultura sessantottina, in tre giorni di “Peace And Music”. Vi presero parte alcune delle migliori espressioni musicali del tempo, vere e proprie leggende della musica, ancora oggi idolatrate in tutto il mondo: da Jimi Hendrix a Janis Joplin passando per Santana, David Crosby e Richie Havens.

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Tutto nacque da un annuncio sul giornale

Conosciuto anche come “An Aquarian Exposition”, Woodstock nacque grazie all’intuizione di quattro giovani organizzatori: John Roberts, Joel Rosenman, Artie Kornfeld e Mike Lang. Il più vecchio dei quattro, aveva appena ventisette anni.  Il gruppo diede vita ad un evento storico di una portata ben più grande rispetto a quella che, almeno all’inizio dei lavori, avevano intenzione di mettere in piedi.

Ad ogni modo, a dare l’abbrivo al festival fu un semplice annuncio pubblicato sul New York Times, il quale diceva pressapoco così: “Giovani con capitale illimitato sono alla ricerca di interessanti opportunità di investimento e business, legali”. I soldi, in pratica, erano quelli di Roberts, il quale li aveva ereditati dal ramo farmaceutico. Con lui, nella missione, era impiegato il suo migliore amico, Rosenman. Ma a far scoccare la scintilla furono i due nuovi arrivati, Kornfeld e Lang.

Il “Piano Woodstock”

La prima proposta di business era legata all’idea di dare vita ad uno studio di registrazione di grande portata, all’avanguardia, punto di riferimento per i rocker, in una località, New York, già famosa per accogliere alcuni dei musicisti più in voga del momento. Subito dopo però, Kornfeld e Lang pensarono che dare vita ad un concerto rock che potesse ospitare fino a cinquantamila persone, avrebbe fatto da trampolino di lancio sia per un successivo studio di registrazione e sia dal punto di vista finanziario.

Gli inizi non sono entusiasmanti. I quattro individuano un luogo utile per lavorare all’allestimento dell’evento e lo trovano in un parco industriale nella vicina Wallkill, sempre nello stato di New York. Stampano biglietti da 7, 13 e 18 dollari ciascuno, rispettivamente per una, due o tre giornate di concerto. Vengono venduti in alcuni negozi selezionati o, anche, per corrispondenza. Tuttavia, la cittadinanza di Wallkill non sembra vedere di buon occhio la cosa: la gente del luogo, semplice e perlopiù operaia e contadina, non vuole “un mucchio di drogati” nella propria località e così, dopo molte dispute legali, la cittadina riesce a far approvare una legge esattamente il 2 luglio del 1969, nella quale viene vietato il concerto tanto a Walkill che nelle immediate vicinanze.

In pratica, ad un mese e mezzo dal Festival, tutto è in alto mare: senza località, il rischio di far saltare tutto all’aria è concreto. Intanto, a seguito dell’ordinanza cittadina, molti musicisti cominciano a declinare l’invito e anche i rivenditori dei biglietti non hanno più intenzione di sostenere un evento così in bilico.

L’uomo della Provvidenza. Anzi, del caseificio

A tirare in ballo Max Yasgur fu il proprietario del Motel El Monaco, Elliot Tiber, titolare di una tenuta di circa quindici acri. Quest’ultimo infatti, contattato dagli organizzatori, pur avendo accettato di dare asilo agli ospiti, ben presto si rese conto che non avrebbe mai potuto accogliere, con i propri mezzi, l’enorme mole di gente prevista. A metà luglio infatti, con il festival in alto mare e nonostante l’annuncio di spostamento della località, erano già stati venduti oltre centocinquantamila biglietti. Per tale ragione allora, Tiber suggerì di interpellare Max Yasgur, proprietario di un caseificio di 600 acri a ridosso di uno stagno il quale a propria volta, successivamente, sarebbe stato reso famoso proprio dagli hippy intervenuti alla tre giorni di concerto (il bagno completamente svestiti divenne infatti uno dei momenti leggendari di Woodstock).

Woodstock 1969 - una foto della folla
Woodstock 1969 – una foto della folla

La nuova location si prestava bene ma l’intera organizzazione era molto, molto in ritardo: tutti i contratti di locazione (e non solo) dovevano essere ancora redatti, stesso dicasi per quanto riguarda la costruzione e l’allestimento del palco, i padiglioni, un parco giochi per i bambini e molto altro ancora, bagni compresi. Infine, cosa ancora più grave, non si riuscì mai a mettere in piedi le biglietterie e le cancellate di recinzione: cosa che trasformò il festival di Bethel in una enorme kermesse gratuita. Da ogni dove, prima e immediatamente dopo il concerto, fioccarono le accuse di aver dato vita ad un evento disorganizzato e pericoloso.

Ciononostante, fu proprio il titolare del caseificio, Max Yasgur, a dare la definizione più giusta del festival di Woodstock, parlando di come mezzo milione di persone, in una situazione che avrebbe permesso risse e saccheggi, avessero creato realmente una comunità motivata dagli ideali di pace e amore: “Se ci ispirassimo a loro potremmo superare quelle avversità che sono i problemi attuali dell’America – dichiarò Yasgur – nella speranza di un futuro più luminoso e pacifico“.

Un festival “free” in tutto e per tutto

Woodstock divenne Woodstock già nei giorni precedenti all’inizio vero e proprio del festival. I quattro organizzatori intesero che non avrebbero mai potuto nulla contro l’enorme quantità di gente in arrivo da ogni parte degli States. Già mercoledì 13 agosto, due giorni prima dell’inizio della rassegna musicale, circa 50.000 persone campeggiavano nell’area adiacente il palco. La zona infatti, non era recintata e non lo fu mai, in realtà. Le stime salirono ben presto a duecentomila persone, ma alla fine ve ne presero parte circa cinquecentomila (anche se stime mai confermate parlano di un milione di partecipanti).

woodstock 1969 - una scena
Woodstock

La dichiarazione ufficiale di una tre giorni di musica gratuita fu proprio ad opera degli organizzatori ed ebbe un effetto devastante sull’intera cittadina di Bethel (e suoi suoi immediati dintorni). Frotte di giovani si misero in marcia, le automobili vennero abbandonate per strada e ben presto si campeggiò un po’ ovunque, a totale danno dell’ordine pubblico. Per favorire gli spostamenti degli artisti dagli alberghi al palcoscenico, vennero noleggiati degli elicotteri, utilizzati come vere e proprie navette.

La musica ha inizio

Nonostante tutti i problemi degli organizzatori (non solo non si alzarono mai i cancelli a recinzione dell’area delimitata al concerto, ma non si riuscì neanche a provvedere per i servizi igienici), il Festival di Woodstock cominciò quasi in orario. Venerdì 15 agosto, intorno alle 17, Richie Havens salì sul palco e cominciò ufficialmente la rassegna più importante della storia della musica rock.

Il grande cantante e chitarrista afroamericano aprì con il brano “High flyin’ bird”, per poi suonare un paio di cover dei Beatles – ufficialmente già sciolti all’epoca e assenti a causa del rifiuto degli organizzatori di voler includere anche la Plastic Ono Band, secondo le pretese di John Lennon – e per intonare, infine, una delle canzoni improvvisate più note di sempre: “Freedom”.

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L’esecuzione durò diversi minuti e divenne una sorta di inno di Woodstock, il quale in quelle ore di venerdì cominciava a diventare anche per i cittadini della contea ciò che sarebbe stato per tutti: un raduno di giovani desiderosi di cambiare il modo di vivere, la cultura dominante, la società circostante, e di farlo a ritmo di musica, senza rinunciare ad esperienze al limite, come l’uso di droghe a scopo totalmente pacifico.

Venerdì folk

La prima giornata venne dedicata ufficialmente al folk: vero nume ispiratore del movimento giovanile di quegli anni. Assente giustificato Bob Dylan (alle prese con problemi di famiglia piuttosto gravi), dopo Havens suonarono Country Joe (che sarebbe ritornato sul palco domenica, con i suoi “The Fish”), gli Sweetwater, Bert Sommer, Tim Hardin, Ravi Shankar, Melanie, The Incredible String Band e i due grandi musicisti folk americani di quel periodo: il leggendario Arlo Guthrie e la madrina Joan Baez. Quest’ultima, al sesto mese di gravidanza durante la sua performance, successivamente avrebbe dichiarato che suo marito, David Harris, proprio mentre lei suonava a Woodstock, veniva arrestato dall’esercito statunitense in quanto obiettore di coscienza.

Il Sabato degli Who (e non solo)

Fu Quill, poco dopo mezzogiorno, ad aprire le danze della seconda giornata, la quale durò praticamente fino alle nove della domenica. Sul palco si alternarono artisti strepitosi come Carlos Santana (leggendaria l’esecuzione di una delle versioni più spettacolari di sempre del celebre brano “Soul Sacrifice”, senza dimenticare “Evil ways” ed altre canzoni altrettanto importanti) Janis Joplin, i Grateful Dead (che presero “la scossa” sul palco) e gli Who. Questi ultimi salirono sul palcoscenico intorno alle quattro del mattino, molto probabilmente perché non riuscirono subito ad accordarsi economicamente con gli organizzatori.

La loro performance fu importante, con la consueta distruzione della chitarra da parte di Pete Townshend e conseguente lancio dello strumento tra il pubblico presente. Suonarono brani storici come “My Generation”, “I’m free” e “I can’t explain”, oltre ad un’altra dozzina altrettanto importanti. Keef Hartley, i Creedence (altra band leggendaria), i Mountain, i Canned Heat e gli psichedelici Jefferson Airplane completarono la giornata di sabato, che di fatto si concluse intorno alle nove del mattino di domenica. Canzoni come “Somebody to love”, “Volunteers” e “White Rabbit”, a forte connotazione politica e anche acida, firmate proprio dai Jefferson, caratterizzarono definitivamente il festival di Woodstock.

La domenica di Hendrix

Durate questa ultima giornata, la gran parte della gente abbandonò l’accampamento. Woodstock era agli sgoccioli e quando l’ultimo artista in scaletta suonò la sua strabiliante musica, esattamente alle ore nove del lunedì successivo, ad ascoltarlo erano “solo” in duecentomila. Peccato, perché l’artista in questione è considerato il chitarrista rock più grande di sempre e la sua performance (durata oltre due ore) fu la più importante dell’intera rassegna e, forse, della sua stessa carriera.

Jimi Hendrix passò alla storia per il brano The Star-Spangled Banner: una reinterpretazione “molto personale” dell’inno degli Stati Uniti, da interpretare come un vero e proprio inno di protesta nei confronti dell’esercito americano, in quel tempo impegnato nella contestatissima guerra nel Vietnam (una delle motivazioni principali dello stesso festival di Woodstock). Hendrix e la sua Fender Stratocaster destrorsa rovesciata passarono letteralmente alla storia: il chitarrista di Seattle simulò le bombe con le sei corde della sua chitarra, facendole vibrare con il suo grosso anello dorato inserito nell’indice della mano sinistra, evocando anche le urla e il suono dei missili aerei, e intersecando tutto all’interno del contestato inno nazionale statunitense.

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Fu un delirio, naturalmente. E ancora oggi, il video della sua esibizione (e le infinite registrazioni “pirata”) rappresentano uno punto di riferimento per i musicisti di tutto il mondo. Fantastiche anche le esecuzioni di canzoni ormai “classiche” della storia del rock: da “Hey Joe” a Purple Haze”, passando per “Foxy Lady”, “Fire” e “Voodoo Chile”.

La domenica “degli altri”

L’ultima giornata non fu solo Hendrix. Sul palco si alternarono artisti importanti come il bluesman bianco Johnny Winter, i Blood Sweet & Tears, The Band, Sha-Na-Na, The Grease Band e Paul Butterfly. Una menzione a parte la merita anche l’allora giovanissimo Joe Cocker, il quale aprì ufficialmente il festival alle due del pomeriggio, oltre alla chitarra impazzita di Alvin Lee, front-man dei leggendari Ten Years After (straordinario il suo “I’m going home” eseguito alla velocità della luce).

Tuttavia, a riscuotere un grande successo fu soprattutto il quartetto vocale e strumentale di David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young. Questi ultimi iniziarono intorno alle tre del mattino e diedero vita a due esibizioni distinte: una vocale ed una (successiva) strumentale. Magnifiche le esecuzioni di brani come “Helplessy hoping”, “Blackbird”, “Marrakesh Express”, “Bluebird” e “Wooden Ships”.

Da segnalare, infine, un’altra nota di colore: alla fine dell’esibizione di Joe Cocker, su Bethel si abbatté un fortissimo temporale che arrestò il concerto per diverse ore, prima della ripresa di Country Joe and The Fish, intorno alle 18. Durante quelle ore di pioggia, le centinaia di migliaia di persone assiepate diedero vita ad una vera e propria danza della pioggia, intonando un coro improvvisato che diceva solamente le seguenti parole “No rain, no rain, no rain”.

Dopo Woodstock? Un paio di film e tanti, tanti debiti

Gli organizzatori di Woodstock si ritrovarono letteralmente travolti dalla rassegna e dal successo incredibile della tre giorni di musica. Più che altro, non ebbero il tempo di rendersi conto di ciò che erano stati in grado di organizzare. Questo perché immediatamente dovettero fare i conti con il loro debito accumulato, il quale ammontava a circa un milione di dollari. Successivamente, dovettero provvedere alle settanta cause giudiziarie presentate contro di loro: altra grana non da poco.

A dare conforto al gruppo però, furono i diritti ricavati dal film originale del Festival di Woodstock, il quale risultò un grande successo e diede la possibilità ai quattro organizzatori di coprire una larga fetta del debito accumulato. Il titolo del film cui si fa riferimento è “Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica”, per la regia di Michael Wadleigh, datato 1970. Successivamente, nel 2009, anche il regista Ang Lee provò a raccontare la grande esperienza del 1969, con il suo “Motel Woodstock”, il quale però non riscosse un grande successo né di pubblico e né di critica.

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