Uffizi Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 27 Oct 2021 17:12:56 +0000 it-IT hourly 1 Galleria degli Uffizi https://cultura.biografieonline.it/uffizi/ https://cultura.biografieonline.it/uffizi/#comments Wed, 27 Oct 2021 17:11:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16797 Attraversando i saloni espositivi della Galleria degli Uffizi, ci si imbatte in una varietà consistente di percorsi tematici, che consentono di ripercorrere le tappe salienti della storia dell’arte e dei suoi protagonisti. Il polo museale degli Uffizi vanta una storia antica e prestigiosa, circostanza che accresce il fascino di un luogo che deve essere necessariamente visitato se si raggiunge Firenze. Nato nella seconda metà del XVI secolo per volontà del duca Cosimo I, la Galleria degli Uffizi è uno dei musei più visitati e conosciuti al mondo, con una collezione di capolavori che spazia da Giotto fino ai grandi maestri della pittura del XVIII secolo.

Uffizi - Galleria degli Uffizi - Firenze - Museo
Firenze: una veduta esterna della Galleria degli Uffizi

La storia del Museo degli Uffizi

La storia del museo affonda le proprie radici nel pieno Rinascimento fiorentino e deve la sua nascita alla figura di Cosimo I de’ Medici (1519-1574) il quale, dopo la morte di Alessandro de’ Medici (1532-1537) per mano del cugino Lorenzino, assunse il potere a Firenze e il titolo ducale.
Cosimo, figlio del condottiero Giovanni delle Bande Nere (1498-1526) e di Maria Magdalena Romola Salviati (1499-1543), provò senza indugio di essere un monarca abile, accogliendo una politica di conquista territoriale e di accordi con l’Impero e il Papato.

Dopo il trasferimento nell’antico edificio comunale di Palazzo Vecchio, Cosimo I, nell’intenzione di affiancarlo a una nuova sede governativa, commissionò, nel 1560, la costruzione del monumentale complesso degli “Uffizi“, con lo scopo di accogliere gli uffici amministrativi e giudiziari di Firenze in un unico sito.

La costruzione e la decorazione del palazzo furono affidate in un primo momento, tra il 1540 e il 1555, all’architetto e scultore Giovanni Battista del Tasso (1500-1555) e solo in seguito a Giorgio Vasari (1511-1574), che ebbe il merito di celebrare con la sua arte le imprese del duca e quelle di molti altri uomini illustri.

L’edificio presentava tre livelli: al piano superiore erano relegate le attività artigianali, gli opifici, gli studi degli artisti e laboratori; nel primo e secondo piano le magistrature fiorentine (Nove Conservatori del Dominio e della Giurisdizione fiorentina, l’Arte dei Mercatanti, l’Arte del Cambio, l’Arte della Seta, l’Arte dei Medici e Speziali, l’Università dei Fabbricanti e il Tribunale della Mercanzia, Ufficiali dell’Onestà, le Decime e Vendite, gli Ufficiali della Grascia, il Magistrato dei Pupilli, i Conservatori di Leggi e i Commissari delle Bande), la cui presenza è tuttora accertata dall’esistenza di simboli e iscrizioni sugli architravi.

Le nicchie vasariane, destinate ad accogliere le sculture, furono abitate solo a partire del XVIII secolo: ventotto statue che da Giotto a Galileo Galilei, da Machiavelli a Michelangelo esaltavano la grandezza del genio toscano.

Uffizi - sculture personaggi famosi
Uffizi: alcune sculture di celebri personaggi

L’intonaco bianco, tipico della tradizione fiorentina, si alterna alla pietra serena che, proveniente dalla valle della Mensola era tanto pregiata da essere disponibile solo con una licenza di chi governava, fu impiegata per la costruzione dei portali e le nervature del complesso.
Il nobile scalone vasariano, con i suoi 126 gradini di pietra serena, conduceva solo al primo piano del complesso, fermandosi al vestibolo del teatro della corte medicea.

Dell’antico teatro di corte, eretto da Bernardo Buntalenti (1531-1608) nel 1585, resta sul pianerottolo l’antico portale di marmo che introduceva al teatro, oggi adibito a “Gabinetto di disegni e stampe”, e le tre porte, una delle quali, quella centrale, esibisce stemmi medicei, gigli fiorentini e gli emblemi del principe, quali l’alloro e il suo segno astrologico, l’ariete.

In vista delle nozze del figlio Francesco con Giovanna d’Asburgo (1547-1578), nel 1565, Cosimo I incaricò infine il Vasari di realizzare un camminamento, privato ed esclusivo, che consentisse al principe, partendo dalla Reggia, di attraversare la città senza scorta armata lungo quasi un chilometro.

Il camminamento vasariano, costruito in pochi mesi, correva lungo gli Uffizi, s’inseriva nel vivo di case e palazzi, fino a sfociare nel giardino di Boboli. Papa Pio V, con la bolla papale del 13 dicembre 1569, assegnò a Cosimo il titolo e la corona granducale.

“L’incoronazione vera e propria, avvenuta a Roma il 5 marzo dell’anno successivo, fu uno degli ultimi atti ufficiali del nuovo granduca, che già nel 1564 aveva nominato reggente per affari interni dello stato il figlio primogenito Francesco” (TUENA).

Nel XVII secolo, il Cardinale Leopoldo de’ Medici (1617-1675) realizzò il “Gabinetto di disegni e stampe”, uno dei più importanti nuclei di grafica del mondo. Quando nel XVIII secolo giunsero al potere i Lorena, Pietro Leopoldo decise di creare un nuovo ingresso pubblico alla galleria, finalmente aperta secondo il moderno pensiero illuminista. In questo modo il palazzo degli Uffizi divenne – modernamente inteso – il primo museo della storia d’Occidente.

L’attuale sistemazione è ispirata all’originario allestimento del Granduca Francesco I.

La Tribuna

I lavori per la realizzazione della Tribuna furono avviati sotto la supervisione di Bernardo Buontalenti, nel 1584.
“Si è soliti considerare la Tribuna come uno sviluppo consequenziale dell’idea di Studiolo. Ma l’idea che ha generato la Tribuna, la sua funzione successiva, e la sistemazione degli oggetti esposti, ne fanno qualcosa di molto diverso. Piuttosto la Tribuna è la riduzione di un museo e, più specificatamente, la riduzione della Galleria degli Uffizi […] un luogo espositivo, destinato a mostrare piuttosto che conservare; più una sala di rappresentanza che un luogo privato” (TUENA).

La stanza a forma ottagonale richiamava la Torre dei Venti di Atene (“horologion”), poiché il numero otto è il numero cosmico dei venti.

La struttura della Tribuna rievoca un ordine trascendete, nella quale s’inserivano e legittimavano gli emblemi del principe. I colori rosso, blu e oro alludono ai quattro elementi della natura: il simbolo dell’aria è richiamato dalla rosa dei venti collocata nella lanterna da cui filtra la luce naturale, la cupola decorata a conchiglie rimanda all’acqua, il rosso delle pareti al fuoco, mentre la terra è celebrata dai marmi del pavimento.

“Attraverso la lanterna, una banderuola di ferro indicava anche all’interno della Tribuna la direzione del vento: e già questo diretto rapporto col mondo esterno dovrebbe far riflettere quanti fanno derivare direttamente la Tribuna dallo studiolo” (TUENA).

Alla decorazione del tempietto concorsero alcuni dei più importanti artisti di corte: Benvenuto Cellini, Bartolomeo Ammannati (1511-1592), il Giambologna (1509-1608), Vincenzo Danti (1530-1576), Lorenzo della Nera e Vincenzo de’ Rossi (1525-1587).

La collezione della Galleria degli Uffizi

Non è facile ricostruite l’evoluzione delle collezioni medicee dopo l’ingresso di Carlo VIII a Firenze, nel novembre del 1494. La dispersione della collezione non avvenne, come molti credono, con il saccheggio del palazzo, ma inseguito a una serie di divisioni ereditarie e complesse questioni economiche, disgregazione che ebbe luogo fino a quando non venne a istaurarsi a Firenze un governo duraturo.

Il duca acquistò, tra il 1546 e il 1561, due ricche collezioni di medaglie. Non si lasciò scappare l’”Arringatore” e fece di tutto per ottenere la statua dello scita. Scriveva nel marzo 1563:

“… è risoluto di volere ad ogni modo il villano che arrota il coltello e poiché voi ci dite che il patrono d’esso e risoluto a darlo per ottocento scudi, se non potete darli meno, pigliatelo, ad ogni modo…”.

Nel 1565 commissionò l’intaglio con l’effige del Savonarola all’incisore Giovanni delle Corniole (1516-1566) e successivamente acquistò il cammeo in pietra stellata raffigurante serpente arrotolato.

Alla morte di Cosimo, nel 1574, la collezione vantava più di ottanta vasi, tra antichi e moderni, in pietra dura. Il duca si era impegnato a riacquistare le collezioni di Lorenzo de’ Medici, impedendo che entrasse nell’eredità di Margherita d’Austria (1522-1586), moglie del duca Alessandro, andata in sposa a Ottavio Farnese (1524-1586).

Poco amato dai suoi sudditi e poco avvezzo alla politica, Francesco ampliò la raccolta medicea: nel 1575 acquistò la collezione del vescovo di Viterbo Gualtiero, raccolta che comprendeva il cammeo detto dell’ “Ingresso trionfale”. Quando nel 1581 Francesco I istituì il primo nucleo della Galleria con la collezione d’arte di famiglia, intervenne trasformando in sale espositive gli ambienti dell’ultimo piano, alla quale si accedeva soltanto dagli ingressi privati del Palazzo Vecchio.

Attualmente le sale espositive del museo ospitano i più grandi capolavori scultori e pittorici italiani ed europei.

La Primavera Botticelli
La Primavera di Botticelli è una delle opere d’arte più visitate e note, conservate presso gli Uffizi.

Le sale dedicate all’arte medievale accolgono la “Maestà di Santa Trinità” (1290-1300) di Cimabue, la “Maestà di Ognissanti” di Giotto, la “Madonna Rucellai” (1285) di Duccio di Buoninsegna, l’ “Annunciazione tra i santi Ansano e Massima” (1333) di Simone Martini e Lippo Memmi, la “Presentazione al tempio” (1342) di Ambrogio Lorenzetti e la “Pala della beata umiltà” (1341) di Pietro Lorenzetti.

Il gotico internazionale è pronunciato attraverso: “L’incoronazione della Vergine” (1414) di Lorenzo Monaco, “L’adorazione dei Magi” (1423) di Gentile da Fabriano; mentre la sala dedicata al Rinascimento vanta capolavori come la “Sant’Anna Metterza” di Masolino (1424-1425), la “Battaglia di San Romano” (1438) di Paolo Uccello, la “Primavera” di Botticelli (1432), il “Battesimo di Cristo” (1475-1478) di Leonardo e Verrocchio, il “Doppio Ritratto dei duchi di Urbino” (1465-1472) di Piero della Francesca, il “Trittico Portinari” (1477-1478) di Hugo van der Goes, il “Compianto e sepoltura di Cristo” (1460-1463) di Rogier van der Weyden.

Galleria degli Uffizi: note Bibliografiche
F. M. Tuena, Il tesoro dei medici Collezionismo a Firenze dal Quattrocento al Seicento, Giunti

Sito ufficiale
www.uffizi.org

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Maestà di Santa Trinita, opera di Cimabue https://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/ https://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/#comments Tue, 05 Apr 2016 09:46:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17620 La “Maestà di Santa Trinita” (1280), realizzata da Cimabue per la chiesa di Santa Trinita di Firenze, patì gli esiti di vicende complesse, legate alle vicissitudini della chiesa ospitante e di una nicchia culturale di estimatori forse troppo tardiva. La complessità delle opere di Cimabue colpisce ogni tipo circostanza analitica, stagliandosi nell’orbita di un’emozionalità connaturata nello spirito religioso del motivo della reale e sacra figura madonnale accompagnata dal Bambino.

Maestà di Santa Trinita - Cimabue
Maestà di Santa Trinita – opera di Cimabue databile tra il 1290 e il 1300 • Tempera su tavola; dimensioni: 385 x 223 cm

Nella completa comprensione del Trecento fiorentino, quale proscenio di lunghe e fulgenti rinascite artistiche, è facile dedurre il ruolo anticipatore di un’ arte non più rigidamente bizantina, ma nata progressivamente dalle intuizioni dei grandi protagonisti della Firenze guelfa e ghibellina.

Anche questa volta la Galleria degli Uffizi di Firenze si raffigura come luogo sacro alla custodia di un ennesimo capolavoro artistico, nell’uso di direttive espositive volte a far emergere le sottili linee evolutive che raffrontano la tabula cimabuesca con la “Madonna Rucellai” (1285) di Duccio di Buoninsegna e la “Maestà di Ognissanti” (1310) di Giotto.

Genesi dell’opera

Nell’attenta analisi cronologica e tecnica dei “primitivi” senesi e fiorentini, emerge il netto contrasto, in termini valutativi, grandemente operante nel contesto dotto dell’opera di committenza delle grandi cerchie religiose nei confronti di un avanguardismo pittorico nascente, e di un apprezzamento tardivo rispetto alla tangibile pregevolezza dell’opera.

I grandi capolavori di Cimabue subirono, in via quasi del tutto esclusiva, una sorte favorevole, in una completa combinazione tra il riconoscimento dell’ingegno tecnico e la conseguente approvazione da parte del pubblico contemporaneo. Un’eccezione affiora proprio dallo studio dei percorsi che legano la pala lignea della Maestà di Santa Trinita alle varie collocazioni, a partire dal periodo successivo alla sua destinazione originaria:

Avendo poi preso a fare per i monaci di Vall’Ombrosa nella badia di Santa Trinita di Fiorenza […] la qual tavola finita fu posta da’ quei monaci in sull’altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola che v’è oggi di Alesso Baldovinetti, du messa in una cappella minore della navata sinistra di detta chiesa.  (Vasari)

Da questo breve estratto vasariano sembra che al momento della sua realizzazione, la “Maestà di Santa Trinita” di Cimabue, dopo la prima fase di consenso, avesse perso il fascino nativo del dorato culto ieratico della Madonna col Bambino al di là della “maniera” bizantineggiante, almeno fino al 1471, quando venne crudelmente rimpiazzata dalla “Trinità con San Benedetto e San Giovanni Gualberto” del fiorentino Alesso Baldovinetti, per raggiungere le infauste sorti di una collocazione di minore influenza in cappelle di ordine secondario o addirittura destituita ad opera di manchevole fattura all’interno dell’infermeria del monastero.

La tabula lignea della “Trinità con San Benedetto e San Giovanni Gualberto”, realizzata per la famiglia Gianfigliazzi, nelle persone di Messer Giovanni e Messer Gherardo, testimonia agli occhi dei critici moderni il venir meno delle capacità immaginative dell’artista fiorentino, raffigurandosi, di fatti, come opera comparativa di forte contrasto rispetto all’ingiusta sorte toccata alla pala cimabuesca, quale cardine primo nell’esatta funzione di superamento della “scabrosa, goffa e ordinaria […] maniera greca (bizantina)“.

Il ruolo dei “primitivi”, che, nel paradigma storiografico rinascimentale, avevano precorso Michelangelo Merisi, Raffaello Sanzio e gli altri grandi esponenti del Cinquecento italiano, subì un’incredibile riconsiderazione tra il Settecento e l’Ottocento, grazie all’opera dei grandi collezionisti europei e nostrani; tale atteggiamento rivalutativo destò la sopita attenzione verso l’ormai dimenticata pala di Cimabue che, nel 1810, raggiunse l’Accademia fiorentina, per variare nuovamente destinazione un secolo dopo, con la disposizione dell’attuale allestimento dei “primitivi“, nella Galleria degli Uffizi.

Maestà di Santa Trinita: note tecniche e descrittive

La “Maestà di Santa Trinita” risulta essere, più del “Crocefisso” rovinato di Santa Croce, l’opera più remota dell’artista “tirato dalla natura“, la cui

unica data sicura nel Duecento, al 1272 a Roma, senza essere collegata a nessuna opera, ci pone di fronte a una pittura che quasi nasce di colpo, armata come Minerva dalla testa di Giove.
(Brandi).

Anche nell’ingegnosa considerazione che tale pala dovesse seguire gli affreschi superiori della Chiesa di Assisi – terminati nel 1283 – si dovrebbe porre la genesi di tale capolavoro in un periodo antecedente il 1285, ovvero alla fase di realizzazione della “Madonna Rucellai” da parte di Duccio di Buoninsegna, che in maniera evidente segue l’esempio ligneo e non precede la sublime Maestà di Cimabue.

L’opera attesta una fase compiutamente matura del pittore fiorentino che, in un’armoniosità lontana dallo stile di Coppo di Marcovaldo e della pittura paleologa, portò in sé, per la prima volta, un’evoluzione stilistica e una pienezza riscontrabili solo nella Maestà della Chiesa inferiore di San Francesco di Assisi, nella “Maestà di Santa Maria dei Servi“, nella Maestà pisana del Louvre (1280) e nel San Giovanni a mosaico dell’abside del duomo di Pisa, dove si assiste all’attenuazione delle aspre regioni facciali tipiche di Cimabue; tale alterazione lascia pensare ad un adeguamento all’arte di Duccio di Buoninsegna nell’uso del colore, sia al codice giottesco relativo all’uso dei trapassi luminosi e levigati.

Nella tabula di Santa Trinita, la solennità del trono architettonicamente emergente dal fondo oro s’impone immediatamente alla vista dell’osservatore, “al punto che, più che una pittura, sembra quasi la facciata di una cattedrale” (BRANDI).

L’immagine ieratica si presenta solidamente frontale, rigidità rigorosa che si interrompe solo nel momento sacro in cui la Madonna ripiega delicatamente il viso indicato l’infante Redentore.
Il trono, contrariamente a ciò che si assiste nella “Maestà di Parigi” e nella “Madonna Rucellai”, risulta essere grandiosamente frontale, incurvandosi nella parte centrale, piuttosto che avanzante sul suppedaneo.

Questa serie di dettagli tecnici designano l’immensa abilità dell’artista di effettuare una rigenerazione dei vecchi schemi, come si configura appunto quello frontale; talento riscontrabile nella stessa capacità di traslare il chiaroscuro paleologo da “semplice oggettivazione dell’immagine a robusta espressione plastica del volume” (BRANDI), in una complessa e insigne monumentalità ravvicinante alla figura di Giotto, anche se dal punto di vista del codice formale la pittura di Cimabue sia lontanissima da quella di Giotto.

Un’altra caratteristica degna di nota è lo straordinario uso delle bizantine gradazioni cromatiche sulle ali degli angeli che, in questo frangente, assumono una funziona differente che in Pietro Cavallini, conferendo quella funzionalità plastica modulante i volti e le pieghe prismatiche dei vestiti.

La sacra raffigurazione è espressa secondo un preciso e fondamentale registro volumetrico, dato da una spazialità caratteristica, quale etere da cui da cui si sviluppa l’immagine e non quale luogo contenente l’immagine.

E’ interessante notare come nel piedistallo del trono delle striature auree tendano a convergere verso un unico punto, allo stesso modo il piedistallo genera al centro un’ esedra concava che indirizza sul piano posteriore la composizione.

Nelle altre Maestà il suppedaneo svolgeva una funziona differente, verticalizzando la composizione sull’orlo del quadro piuttosto che protrarla avanti.

Cimabue
Cimabue

Appare evidente quanto la sottigliezza gotica del trono della Madonna Rucellai abbia influenzato la spazialità di Cimabue, esibendo un’idea di spazialità retrostante all’immagine, in cui l’immagine emerge nei suoi volumi corposi.

L’enfasi della cromaticità plastica delle ali è confermata dall’universale uso di una tonalità bassa nel dipinto, in cui, a parte il profeta David, tutti gli altri colori sono sottotono.

Non è dunque un’opera bizantina nell’uso dei colori, ma si configura come l’esaltazione di un tema plastico già trattato da Nicola Pisano, e che si rivelerà fondamentale come retroscena di Giotto.

Note Bibliografiche
A. Tomei, Cimabue, Giunti Editore, Firenze, 1997
C. Brandi, Scritti d’arte, Bompiani, Milano, 2013
G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832 – 1838

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