tragedie Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 29 Sep 2023 11:47:21 +0000 it-IT hourly 1 Giulio Cesare di Shakespeare: riassunto e breve analisi https://cultura.biografieonline.it/riassunto-giulio-cesare-shakespeare/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-giulio-cesare-shakespeare/#respond Sun, 21 Nov 2021 15:54:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13419 Giulio Cesare” è una tragedia realizzata dal drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare, scritta con tutta probabilità nel 1599, usando come fonte principale le “Vite Parallele” di Plutarco.

Giulio Cesare (Shakespeare) - riassunto
Giulio Cesare di Shakespeare : una scena tratta da un film ispirato alla tragedia shakespeariana. Nella foto: Jason Robards interpreta Bruto (Brutus), nel film “23 pugnali per Cesare” (1970, di Stuart Burge)

Giulio Cesare di Shakespeare: la trama

La vicenda si apre con la descrizione della vita del console Giulio Cesare che trascorre le sue giornate in maniera del tutto tranquilla senza particolari intoppi ignorando quello che porterà le idi di marzo. Preoccupati dal potere crescente di Cesare, Bruto si lascia convincere ad entrare in una congiura, ordita da alcuni senatori romani tra cui Cassio (amico di Bruto), per impedire che il console trasformi la Repubblica Romana in una monarchia. A loro si uniscono altri cinque cospiratori tra cui anche:

  • Casca,
  • Trebonio,
  • Ligario,
  • Decio Bruto,
  • Metello Cimbro,
  • Cinna.
Giulio Cesare interpretato da Alain Delon (2008)
Giulio Cesare interpretato dall’attore francese Alain Delon (2008)

L’assassinio

Cesare, ritornato a Roma dopo la campagna d’Egitto, incontra perfino un indovino che lo avverte del pericolo imminente proprio durante le idi di marzo. Non servono a nulla nemmeno le premonizioni avute dalla moglie di Cesare, Calpurnia, che tenta di trattenere l’uomo dicendogli di rimanere a casa. Decio però lo convince a recarsi in Senato e Cesare decide di accettare l’invito in occasione della festa dei Lupercali; ma viene assassinato durante la riunione per mano dei congiurati che lo circondano e lo pugnalano.

Dopo la morte di Cesare arriva il console Marco Antonio (uno dei principali esponenti del partito cesariano) che si prodiga per organizzare i funerali del console ed esprimere l’elogio funebre in suo onore.

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Bruto si giustifica dell’uccisione del padre affermando che voleva evitare un’eventuale tirannia, ma subito dopo parla Marco Antonio, che dopo un’attenta lettura del testamento di Cesare, scuote i romani contro i congiurati infiammando gli animi. Dopo la morte di Cesare, tra Bruto e Cassio i rapporti diventano piuttosto tesi: Bruto accusa Cassio di regicidio in cambio di denaro. In seguito però, i due si riconciliano e si preparano alla guerra contro Marco Antonio e Ottaviano (pronipote e figlio adottivo di Cesare).

La scena più significativa è quella in cui appare agli occhi di Bruto lo spettro di Giulio Cesare che gli annuncia la sua prossima sconfitta (“Ci rivedremo” a Filippi).

La scena si sposta a Filippi. Durante lo scontro, Bruto vince sugli uomini di Ottaviano ma Antonio ha la meglio su Cassio che, piuttosto che essere fatto prigioniero, si suicida.

Poco dopo, anche Bruto subirà la stessa sorte, suicidandosi con la propria spada piuttosto che cadere in mano al nemico.

Cesare è stato vendicato.

Dopo la vendetta

Poco dopo, è lo stesso Marco Antonio a rendere a Bruto e ai suoi cospiratori l’onore delle armi e a pronunciarne l’elogio funebre.

L’opera continua, facendo un breve accenno alla futura frattura dei rapporti tra Marco Antonio e Ottaviano, che verrà narrata dettagliatamente nella tragedia di Antonio e Cleopatra (Shakespeare, 1607).

Nell’ultima parte, invece, si narra dell’ascesa al potere di Ottaviano e viene rimarcata la sconfitta di Marco Antonio durante la battaglia di Azio del 2 settembre 31 a.C..

Breve analisi dell’opera

L’opera è ambientata dapprima a Roma, poi la scena si sposta in Grecia e precisamente a Filippi.

L’opera è divisa in cinque atti.

  • I primi due atti si soffermano in particolar modo sulla vita del console Cesare, su Antonio amico e compagno di Cesare e sul figlio adottivo di Cesare, Bruto.
  • Il terzo atto narra le vicende relative alla congiura contro Cesare.
  • Gli ultimi due atti narrano della giustizia che ha avuto Cesare tramite coloro che gli vogliono bene.

I temi principali dell’opera sono quelli del tradimento e della cospirazione. Essi ci danno un’immagine dell’umana fragilità e mutevolezza, ed infine della vendetta.

Nell’opera troviamo tre personaggi di spicco:

  • Giulio Cesare (il console);
  • Ottaviano;
  • Antonio.

Tra i personaggi secondari spiccano:

  • Bruto (figlio adottivo di Cesare);
  • Cassio (amico di Bruto);
  • Calpurnia (moglie di Cesare).

Significativo è il tradimento del figlio adottivo di Cesare.

William Shakespeare aggiunge alle famose parole di Cesare “Tu, quoque, Brute!“, “Allora cadi, o Cesare!“, volendo far intendere che Cesare si rifiuta di sopravvivere ad un tale tradimento da parte di una persona nella quale aveva riposto la sua fiducia.

William Shakespeare
William Shakespeare

Shakespeare, Dante e la regina Elisabetta I

Ma, a differenza del sommo poeta fiorentino Dante Alighieri che non perdona Bruto, collocandolo nel peggior posto dell’inferno (viene dilaniato dai denti di Lucifero), William Shakespeare lo considera come un cospiratore di animo nobile. Secondo il drammaturgo inglese Bruto ha la buona intenzione di evitare che Roma diventi una monarchia assoluta.

L’opera tragica di Shakespeare rispecchia in modo indiscusso il clima di ansietà dell’epoca, causato dal fatto che la regina Elisabetta I si era rifiutata di nominare un successore; ciò avrebbe potuto portare, dopo la sua morte, ad una conseguente guerra civile simile a quella scoppiata in precedenza a Roma. Elisabetta I con grande abilità portò l’Inghilterra ad essere una nazione potente soprattutto sul piano internazionale, modello di civiltà e di cultura per tutti gli stati europei.

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Romeo e Giulietta, di Shakespeare https://cultura.biografieonline.it/romeo-e-giulietta/ https://cultura.biografieonline.it/romeo-e-giulietta/#comments Tue, 22 Mar 2016 16:07:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17395 Quando l’amore incontra il teatro, l’anima si fa specchio delle umane passioni, ricongiungendo, almeno nell’illusoria finzione, la storia della propria anima a quella del mondo. La tragedia shakespeariana conosciuta col titolo di “Romeo e Giulietta” (1594), deve gran parte della propria fortuna alla giusta combinazione dei sentimenti umani, nell’audace racconto di una storia d’amore funestata dall’ostilità di un mondo brutale, riportando l’eterna modernità del tema erotico ai tempi di una cultura splendente, ambigua e allo stesso tempo spietata.

Romeo e Giulietta, di Shakespeare (film di Zeffirelli, 1968)
Un bacio tra Romeo e Giulietta, interpretati da Leonard Whiting e Olivia Hussey nel film del 1968 di Franco Zeffirelli.

William Shakespeare (1564-1616) si fece interprete di un mondo complesso, quello elisabettiano, da cui seppe trarre il nucleo drammatico di una storia innovativa non nel motivo ma nell’interpretazione teatrale, rendendo eterne le tragiche sorti dei due giovani protagonisti, eroi indiscussi di ogni cuore infranto.

Romeo e Giulietta, la trama

Il dramma shakespeariano verte sull’angosciante susseguirsi di eventi che si oppongono all’unione dei due innamorati: Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, rampolli delle due famiglie più potenti della città di Verona, vivono la tragedia di un’eterna faida sortita ai danni di coloro che amano; la storia, l’orgoglio dei Montecchi e dei Capuleti conseguirà l’effetto mortale di una punizione, ingiusta ma prevedibile dell’amore negato che genera il sonno eterno.

La storia d’amore sboccerà sotto il segno della sciagura, conducendo con sé il tocco fatale della morte dove era atteso l’amore. L’odio atavico delle due famiglie non impedirà l’incontro tra Giulietta e Romeo e l’organizzazione di un matrimonio segreto, lontano dagli echi irti d’ira e d’odio.

Il matrimonio non avrà mai luogo a causa della rivalsa fatale di Romeo ai danni di Tebaldo, cugino di Giulietta, con cui il giovane Montecchi vendicò il sangue dell’amico Mercuzio. Dopo la fuga di Romeo a Mantova, Giulietta è costretta a sposare un altro uomo.

Per sfuggire alle sorti di una vita lontana dall’amore, Giulietta beve una pozione che le consente di sembrare morta per molte ore. Romeo, non avendo ricevuto la notizia dell’inganno, crede di aver perduto la sua amata per sempre e nel dolore si avvelena. Terminati gli effetti dell’incantesimo, Giulietta si sveglia dal sonno di una finta morte e vedendo il corpo esamine dello sposo segreto, si pugnala, finendo nella tragedia più commovente l’esito dell’umana follia generata dal rancore.

Romeo e Giulietta
Romeo e Giulietta (Leslie Howard e Norma Shearer nel film del 1936 di George Cukor)

Note tecniche e descrittive

“Non vi è nome più celebre nel teatro elisabettiano; non vi è piuttosto, nome più celebre nell’intero mondo elisabettiano. Pure, colui che, agli occhi di tutti, è il teatro elisabettiano, potrebbe per molti aspetti apparire l’autore meno elisabettiano che possa darsi” (ZAZO).

Un’interpretazione, quest’ultima, di una complessità contorta che ben chiaramente lascia intravedere la difficoltà di inquadrare la figura del drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare nel tortuoso girone del teatro elisabettiano, quale passo indispensabile per comprendere la produzione letteraria, nonché i dettagli tecnici di una tragedia in cinque atti che rispose ai requisiti di un’età contraddittoria e in continuo mutamento.

William Shakespeare
William Shakespeare

Shakespeare affrontò i pericoli della sua epoca, navigando, in un tempo in cui per amore o per ventura viaggiatori e pirati cercavan fortuna per mare e per terra, nelle rischiose acque degli affari teatrali, nell’umile quanto lungimirante desiderio di raccontare l’anima elisabettiana attraverso le storie avventurose e tragiche di personaggi storici o germogliati dalla punta di una penna d’oca.

In un clima di gaia e feroce passione per l’esistenza, nell’esuberante e tumultuoso sentimento degli “innamorati della vita, non di una teorica immaginazione [shadow] della vita”, Shakespeare rimase personalmente al riparo dall’ansia per l’avventura e dal gusto per la brutalità tipicamente elisabettiani, pacificando illusoriamente, tramite la nobile arte del teatro, la contraddittorietà di un’epoca ambigua, dove l’angoscia e il rimorso erano strettamente connessi al diletto dell’amore e dell’amicizia. Il senso dell’arte drammatica, come avviene nella somma tragedia “Romeo e Giulietta“, è

“offrire alla natura uno specchio; mostrare alla virtù il suo volto, al vizio la sua immagine, e all’età stessa e al corpo del secolo la sua forma e la sua impronta” (Amleto, III, due).

La simbologia dello specchio era molto comune nel corso del Rinascimento, nei molteplici significati designava l’irrealtà, l’immagine contrapposta alla realtà, che nella produzione drammatica si traduce in degli opposti significativi: vita/teatro, saggezza/pazzia, vita/sogno, sono gli elementi fondamentali e ricorrenti del teatro di Shakespeare.

L’opera “Romeo e Giulietta” di Shakespeare nacque tragedia dal tiepido grembo della poesia, raffigurandosi in un capolavoro quasi totalmente in versi rimati, soprattutto nella prima parte del testo, carica di ricercate metafore e di artifici retorici nella maniera eufuistica.

La tragedia si caratterizza per l’insolita ampiezza dei ruoli femminili e l’antiquata retorica che si riscontra nelle battute dei personaggi più anziani, peculiarità che fanno pensare, come sosteneva il saggista e critico letterario Giorgio Melchiori (1920-2009), che se non altro, in un primo tempo, Shakespeare non fosse sicuro della destinazione del dramma e che si proponesse di

“fornire un testo che potesse essere presentato non solo in un teatro pubblico, ma all’occorrenza, anche a una corte e nei più sofisticati teatri privati; un dramma che anche i “letterati” potessero apprezzare e che si presentasse eventualmente ad essere recitato da quelle compagnie di ragazzi (per esempio i coristi di San Paolo)”

Questi ultimi, capaci di recitare con maggiore verosimiglianza le parti femminili, avevano l’abilità di conferire delle cadenze caricaturali ai personaggi dall’età avanzata.

La prima parte del dramma è resa da una serie di eufemismi dal linguaggio cortese che, diffuso in Italia dal Petrarca, raggiunse l’Inghilterra attraverso i modelli francesi della tradizione sonettistica.

In una prospettiva drammaturgica, la tragedia rivela come Shakespeare sapesse sfruttare abilmente le soluzioni imposte dal teatro elisabettiano: il palcoscenico su cui era recitato il dramma risultava essere in parte scoperto, per le scene previste dal copione in ambientazioni esterne, e coperto, per gli interni e il giardino, con una galleria sul fondo costituente il balcone e un vano interno, utilizzato per rappresentare la tomba e la camera di Giulietta.

La divisione delle scene, che si raffronta nelle edizioni moderne, non compare nell’in-quarto del 1599: un tale accorgimento tecnico, di fatti, non aveva ragione di esistere nella prospettiva di una concezione drammaturgica che sfruttava abilmente il valore convenzionale dei punti del palcoscenico e che affidava il compito scenografico alla parola.

L’edizione del 1599 era priva di divisione in atti, poiché prevedeva una costruzione delle vicende drammatiche per lunghe sequenze, corrispondenti ai giorni in cui si adempie la trama, dunque le vicende di Romeo e Giulietta.

L’opportunità di privare il testo di una scansione in atti conferisce al dramma una meravigliosa potenza teatrale, in una durata scenica calante, tale da comunicare al pubblico la vivacità di un’azione incalzante, cadenzata dalla presentazione e dalla premesse dei personaggi.

Un’altra importante caratteristica del teatro elisabettiano, e di quello shakespeariano, è il “doubling“, in altre parole di affidare ad un attore più ruoli correlati nella stessa interpretazione teatrale, rispondendo alla necessità delle compagnie elisabettiane di ridurre le spese, questo ingegnoso metodo recitativo s’innestava perfettamente alla costruzione teatrale; l’autore doveva dunque essere in grado di operare una precisa e compiuta concatenazione delle entrate e delle uscite di scena dei protagonisti sul palcoscenico, dove

“ad uguale funzione uguale attore; se il pubblico riconosce lo stesso attore nei due personaggi ciò non sarà fonte di confusione od equivoco ma piuttosto arricchirà la sua presenza del significato della vicenda rappresentata” (MELCHIORI).

Il giudizio della critica si rivela interessante nell’ipotesi che, al contrario di quanto avviene nelle grandi tragedie dell’età adulta, la catastrofe finale non è determinata dalla drammaticità dei personaggi, ma dall’infausto susseguirsi di circostanze fatali, permettendo di esibire agli occhi del pubblico la dimensione dolorosa del testo, i cui personaggi, “nati sotto la contraria stella” in un “amore segnato dalla morte“, legano la genesi dell’infausta sorte alla faida terrena tra Montecchi e Capuleti.

Romeo e Giulietta, Leonardo DiCaprio
Un’altro bacio tra Giulietta e Romeo: Claire Danes e Leonardo DiCaprio (allora ventiduenne), nel film di Baz Luhrmann del 1996 “Romeo + Giulietta di William Shakespeare“.

Controversie cronologiche

La prima edizione di “Romeo e Giulietta” risale al 1597: un volumetto in-quarto privo d’indicazioni riguardanti l’autore e l’editore, realizzato mnemonicamente dopo la prima teatrale, indicava sul frontespizio della tragedia “rappresentata pubblicamente dai servitori dell’onorevolissimo Lord Hunsdon“.

La compagnia del Lord Ciambellano, Henry Carey Lord Hunsdon (1526-1596), era stata fondata nell’estate del 1594; con la morte di questi il titolo della compagnia passò a Sir William Brooke, decimo Barone di Cobham (1527-1597) e discendente di Sir John Oldcastle (1360 -1417), il “Sir John Falstaff ” dell'”Enrico IV” (1598) di Shakespeare.

La fedeltà degli attori alla compagnia emerse dalla scelta di rimanere alle dipendenze della famiglia precedente, in altre parole come servitori di Lord George Hunsdon, il figlio del defunto Henry Hunsdon.

In conformità a questi elementi, in passato si soleva congetturare la prima della tragedia con l’anno 1596, ovvero col breve periodo in cui la compagnia era tecnicamente di Lord Hunsdon; ma è più plausibile considerare che lo stampatore facesse riferimento al nome attuale della compagnia che, tra il 1594 e il 1596, aveva assiduamente messo in scena la tragedia di “Romeo e Giulietta“.

Poiché Shakespeare era entrato a far parte della compagnia del Lord Ciambellano dopo la fondazione, la data della prima potrebbe risalire alla fine del 1594; vagliando la considerazione che dal 1592 al 1594 i teatri di Londra furono chiusi per motivi politici e per l’imperversare della peste, è legittimo pensare che Shakespeare ideasse la tragedia amorosa proprio negli anni ardui della sospensione teatrale.

Tale ipotesi sarebbe ulteriormente comprovata dalla presenza di precisi riferimenti storici e dalle caratteristiche stilistiche coerenti con il periodo della produzione, anche se, nel margine indefinito e incerto dell’ipotesi, emergono altri elementi che portano a considerare teorie differenti: J. J. M. Tobin rintracciò nell’opera di Thomas Nashe (1567-1601) dal titolo “Have with You to Saffron Walden” (“Gabriell Harveys hunt is up”) alcune particolari espressioni riscontrabili solo in “Romeo e Giulietta“, dunque in nessun altro lavoro shakespeariano, e alcuni riferimenti che Shakespeare avrebbe usato per l‘ideazione dei personaggi di Mercuzio, di Benvolio, della Nutrice e dei servitori della casa dei Capuleti.

Poiché “Have with You to Saffron-Walden” risale al 1596 si potrebbe dedurre che la tragedia, o parte di essa, fu ideata in quello stesso anno.

Note Bibliografiche
W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

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L’Otello di Giuseppe Verdi https://cultura.biografieonline.it/otello-verdi/ https://cultura.biografieonline.it/otello-verdi/#comments Wed, 13 May 2015 12:30:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14257 Tratto dalla celeberrima tragedia di Shakespeare (The Tragedy of Othello, the Moor of Venice), basato su libretto scritto da Arrigo Boito, l’Otello di Giuseppe Verdi è un dramma lirico in quattro atti; la prima rappresentazione andò in scena a Milano al Teatro alla Scala, il 5 febbraio 1887. Fu la penultima opera del grande compositore italiano.

Otello - riassunto

Personaggi e interpreti

Gli interpreti della prima rappresentazione furono : Francesco Tamagno (Otello), Victor Maurel (Jago), Giovanni Paroli (Cassio), Vincenzo Fornari (Roderigo), Francesco Navarrini (Lodovico), Napoleone Limonta (Montano), Angelo Lagomarsino (Araldo), Romilda Pantaleoni (Desdemona), Ginevra Petrovich (Emilia); Carlo Ferrario realizzò le scene ed Alfredo Edel i costumi.

Grazie a valenti direttori come Mahler e Walter, Toscanini, Panizza, Serafin, Kleiber, Muti, Von Karajan, Giuseppe Sinopoli, l’Otello di Verdi è stato nella sua storia rappresentato nei teatri di tutto il mondo, dalla Scala al Covent Garden di Londra, dal Metropolitan di New York, in tutta l’Asia.

Pressoché tutti i soprani ebbero in repertorio la parte di Desdemona, ma furono pochi i tenori, a cimentarsi nella parte di Otello, data la poco agevole tessitura, ricordiamo il primo ed il più grande, Francesco Tamagno, nonché i wagneriani Slezak ed in tempi più recenti, Vickers, a specialisti come Zenatello e Martinelli, Vinay e Merli fino a Del Monaco, interprete di ben 648 esecuzioni, seguito da Pier Mirando Ferrero con 596, e da Bruno Bastian.

Interprete degno di nota è stato il bravo Placido Domingo; più recenti sono il lituano Aleksandrs Antonenco, Wladimir Galouzine; fra i baritoni si devono menzionare Amato, De Luca, Titta Ruffo, Stabile, Tibbett, Gobbi, Bastianini, Renato Bruson, Ruggeri, Capuccilli e Leo Nucci.

Riassunto e trama dell’Otello di Verdi

Il riassunto, la prolusione e l’analisi musicale che seguono sono state redatte dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Otello di Giuseppe Verdi - scena - Teatro di Modena
Foto di una scena tratta dall’Otello di Giuseppe Verdi (Teatro di Modena)

La storia è ambientata in una città di mare nell’isola di Cipro alla fine del XV secolo.

Atto primo

Popolo sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro.

La folla sul molo attende Otello, la sua nave con il mare in burrasca ha difficolta’ d’ attracco, il popolo attende pregando l’arrivo del nuovo comandante del presidio veneziano, continuando a pregar per la sua sorte: “Dio, fulgor della bufera“.

Dopo aver trionfato sui musulmani e superato indenne la tempesta di mare: l’ “Esultate!”, questa amata ed odiata entrata, e’ senza dubbio una delle più impressionanti performance per tenori.

Otello viene entusiasticamente accolto dagli abitanti dell’isola: “Fuoco di gioia“. Fanno eccezione Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che, mosso dall’odio verso il suo signore, inizia a tramare contro di lui, coinvolgendo il suo favorito Cassio in abbondanti libagioni: “Innaffia l’ugola“.

Ubriaco, questi perde il senno e ferisce in duello Montano, mentre Jago fomenta una rissa, sedata da Otello. Il moro degrada Cassio, poi si allontana teneramente insieme a Desdemona, per trascorrere la prima notte di nozze: “Già nella notte densa“.

Atto secondo

Nel salone delle guardie al pianterreno del castello.

Jago perfeziona il suo disegno, volto al progressivo annientamento delle certezze d’Otello, e spinge Cassio a rivolgersi a Desdemona affinché perori la sua causa col marito; poi riflette sul suo destino in un monologo: “Credo in un Dio crudel“.

Incontrando Otello l’alfiere insinua nell’animo di lui, che ha scorto Cassio a colloquio con Desdemona in un angolo del giardino, il sospetto dell’infedeltà della moglie. Ma vedendo la consorte accolta con trasporto dagli abitanti dell’isola: “Dove guardi splendono / Raggi, avvampan cuori“, Otello dimentica per qualche istante i dubbi.

Quando ella intercede perché Cassio riacquisti il suo grado di capitano, l’ira del moro si riaccende. Dalle mani di lei cade il fazzoletto donatole dal marito in pegno d’amore, che Jago si fa consegnare da Emilia, dama di compagnia di Desdemona, progettando di nasconderlo in casa di Cassio.

Desdemona chiede l’indulgenza dello sposo per averlo turbato: “Dammi la dolce e lieta / parola del perdono“. Ma Otello si va convincendo che il suo mondo di certezze è oramai tramontato: “Ora è per sempre addio, sante memorie“, e Jago gli promette che gli farà vedere la preziosa seta in mano al suo presunto rivale.

L’alfiere lo inganna ulteriormente narrandogli di aver udito il rivale in sogno pronunciare frasi amorose all’indirizzo di Desdemona: “Era la notte, Cassio dormiva“. Otello, ferito nel suo orgoglio di giovane sposo, giura solennemente di vendicarsi: “Sì pel ciel marmoreo giuro“.

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Atto terzo

Salone d’onore del castello.

L’araldo annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani, e Jago annuncia a Otello che presto trarrà Cassio in suo presenza. Giunge Desdemona, che tenta nuovamente di difendere la causa del capitano: “Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran“, ma quando non può esibire il fazzoletto, che Otello ha chiesto di vedere, ella subisce la furia del marito che monta sino all’acme , costringendola ad allontanarsi sconvolta.

Ferito nell’intimo, Otello sfoga in un monologo tutta la sua amarezza: “Dio, mi potevi scagliare“. Indi, Jago lo spinge a celarsi per ascoltare il dialogo successivo in cui l’alfiere, con l’inganno, induce Cassio a esibire il fazzoletto, ritrovato in casa sua e creduto l’omaggio di un’ignota corteggiatrice: “Questa è una ragna“.

Otello si persuade dell’adulterio, ma squillano le trombe che annunciano l’arrivo delle navi veneziane, Cassio s’allontana e il moro rende partecipe Jago della sua decisione di uccidere i colpevoli.

Entrano Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari: leggendo il messaggio del Doge che lo richiama a Venezia Otello perde la ragione, e insulta la moglie. Desdemona piange, consolata da tutti i presenti: “A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio“, mentre Jago suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il moro, in preda a una crisi, sviene.

Tutti si allontanano in preda all’orrore e Jago contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore del moro.

Desdemona e Otello
Desdemona e Otello

Atto quarto

Nella camera del talamo di Desdemona.

La protagonista congeda con mestizia Emilia moglie di Jago, narrandole la storia dell’ancella Barbara: “Piangea cantando la canzone del salice” e, dopo aver pregato: “Ave Maria“, si prepara per la notte in attesa di Otello.

Nonostante ella si proclami innocente, Otello, entrato nella stanza, la soffoca prima che Emilia, tornata sui suoi passi, dia l’allarme. Accorre Cassio dopo aver ucciso Roderigo nell’agguato in cui lui stesso avrebbe dovuto soccombere, seguito da Lodovico, Montano e Jago, che fugge dopo che le sue malefatte sono state svelate.

Allora Otello, dopo aver dato l’addio alla vita in: “Niun mi tema“, estrae un pugnale e si trafigge; morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle innocenti di Desdemona e spira.

Analisi musicale

Nell’Otello di Giuseppe Verdi giunge a compimento la complessa evoluzione del compositore verso il superamento degli schemi formali dell’opera tradizionale a pezzi chiusi, in nome di un’articolazione drammatica continua.

L’opera in quattro atti è uno degli esiti più alti della tarda maturità verdiana per l’incisiva forza drammatica e l’acuta penetrazione musicale del testo shakesperiano, se c’e’ stato un fondamentale cambiamento rispetto all’opera di Shakespeare nella figura di Jago, che nell’opera impersonifica colui che a causa dell’invidia, gelosia, perfidia, trascina alla morte Desdemona ed Otello, nell’opera lirica egli diventa la personificazione stessa del male, una figura satanica che prova gioia nel distruggere il bene.

Il Cigno di Busseto, dopo la lettura dal libretto di Arrigo Boito, ideò per il debutto del suo Otello una sofisticata struttura musicale, dal potente impatto con un’accordo a piena orchestra su cui si alza il sipario, segue un ventaglio di effetti consolidati: scale cromatiche dei legni, sibili dell’ottavino e meno usati, come il cannone e il pedale grave dell’organo su un piccolo cluster, destinato per oltre duecento battute a incarnare il sordo brontolar dell’uragano.

Verdi mette subito in risalto il popolo che dimostra all’unisono gioia e felicità per il nuovo Duce, contrapponendo l’odio ed il rancore di Jago e di Roderigo. Le immani proporzioni di questa bufera mettono piuttosto in risalto il valore del protagonista, ed è l’unica occasione di percepire la reale portata del suo passato.

Nell'”Esultate!” di Otello si concentra dunque non solo l’eco della lotta appena sostenuta, ma anche quella delle mille battaglie, di una vita eroica che gli ha meritato il grado. La maligna sottigliezza di Jago emerge poi nel brindisi: “Innaffia l’ugola“, grazie allo stridente contrasto fra le strofe in si minore e l’insinuante linea cromatica del suo canto nel ritornello: “Beva, beva, con me“.

La saldatura fra questo numero in continuo crescendo, il precedente coro “Fuoco di gioia“, ed il successivo duello è talmente riuscita da generare l’impressione che il “piano” del baritono prenda forma all’impronta.

Chiude il primo atto il duetto con Desdemona, introdotto da un quartetto di violoncelli, intima sonorità venata da un brivido erotico grazie all’accordo aumentato di sol bemolle maggiore su cui sosta la voce del moro. In queste pagine nulla ricorda la forma tradizionale, a cominciare dalla struttura metrica del testo: dapprima una successione di versi sciolti : “Già nella notte densa“, resi più musicali dall’impiego dell’allitterazione; poi una serie di quartine di endecasillabi: “Mio superbo guerrier, quanti tormenti“, in cui Boito predispone anche la possibilità di mettere in rilievo frasi significative, come il quinario: “Te ne rammenti”, di Desdemona; infine il ritorno all’inizio.

Su questa base Giuseppe Verdi costruisce una forma sfaccettata, oscillante tra il recitativo-arioso e ampie frasi cantabili sempre diverse, che non si cristallizzano mai in una forma chiusa.

Cangiante come lo stato d’animo dei personaggi è anche l’inquieto peregrinare delle tonalità, che sembra trovare tregua quando Otello reclama : “un bacio…”, unendo la sua voce a un motivo dell’orchestra che tornerà, come un ricordo della felicità perduta, prima e dopo la morte di Desdemona. Ma la conclusione vira a re bemolle maggiore, tonalità inaspettata, che schiarisce improvvisamente l’atmosfera gravida di presagi.

Vien Venere splende” è un invito esplicito al connubio che culmina nel la bemolle emesso dal tenore in pianissimo e viene seguito dal breve riepilogo dei violoncelli. Questo duetto rimarrà l’unico scorcio sottratto alle necessità del dramma, una finestra sulla fugace felicità amorosa del protagonista sinora mai spalancata da Verdi in termini di così aperta sensualità.

L’inizio del secondo atto propone una terzina di violoncelli e fagotti che invade progressivamente il tessuto orchestrale a partire dal recitativo di Jago, per imprimersi nell’accompagnamento al successivo: ”Credo”, pagina di diabolica bellezza.

La sua voce conosce mille inflessioni, ora recita, ora sussurra, ora declama, ora canta con dolcezza, ora erompe in un riso fragoroso. Nel monologo ideato da Boito, il baritono esprime convinzioni estranee al personaggio di Shakespeare, pure le fattezze scapigliate del brano identificano Jago, con la negazione di qualsiasi valore e verità, per cui: “La Morte è il Nulla”.

L’indifferenza per ogni valore morale permette all’alfiere d’imporsi su Otello nel successivo colloquio, perché sa fargli intendere quel che vuol sentire e vedere ciò che vuol vedere, deformando i contorni originali delle situazioni. La reazione del moro è segnata dal continuo cambiamento dello stile recitativo nel canto, soprattutto da quando la frase: ”ciò m’accora”, viene pronunciata da Jago per connotare negativamente l’incontro fra Cassio e Desdemona.

L’incubo viene messo a fuoco quando compare la protagonista: la visione dell’innocenza della moglie ridona temporaneamente al moro fiducia, immediatamente smarrita nel recitativo seguente. Tutto il quartetto, poi, ruota intorno all’angelica melodia di Desdemona sinché la linea vocale del tenore emerge nella conclusione contorta cromaticamente, contaminata dal ‘veleno’ del suo alfiere.

Dopo il solenne congedo dalla propria gloria oramai tramontata, dove il canto del tenore si eleva diatonico per l’ultima volta, il perfido ‘sogno di Jago’ fa lievitare la tensione sino al culmine del delirante giuramento su cui cala il sipario: qui Verdi recupera la forma dell’antica cabaletta per concedere a Otello un ultimo istante di fierezza.

Nel duetto all’inizio del terzo atto, Verdi oppone due mondi impenetrabili: Desdemona, la cui ingenua innocenza è condizione altrettanto assoluta della cieca gelosia del marito, seguita a perorare la causa di Cassio, Otello vuole la conferma dei suoi sospetti.

Nella sezione lirica: “Io prego il ciel“, la melodia della donna passa, amplificata con grande effetto emotivo, ai violini, e anche in quella circostanza Otello la contrasta col declamato: si apre qui lo spazio recondito dell’animo del protagonista che deforma l’invocazione della moglie in un richiamo erotico rivolto all’amante. Il tenore, rimasto solo, intona: “Dio mi potevi scagliar“, monologo in due tempi, in cui vengono inglobati l’intervento di Jago che annunzia l’arrivo di Cassio, l’urlo di gioia sul si bemolle acuto e la drammatica ricaduta nel registro grave.

Il protagonista dà motivazioni inequivocabili della propria sofferenza declamando fino allo straziante cantabile, che ci spalanca il mondo delle sue sofferenze.

Il breve duetto tra Jago e Cassio serve a provare un tradimento che non esiste, ma è anche l’occasione di udire un vero miracolo di leggerezza orchestrale: l’intrico si dipana nel disegno danzante degli archi mentre le voci dei due interlocutori sussurrano sullo sfondo, chiosate da Otello, in primo piano, con frasi disperate che assumono un rilievo potentissimo.

Improvvisamente squilli di tromba, corni, tromboni, annunciano lo sbarco dei dignitari veneziani: il moro si reca a incontrarli, ma non è più in grado di contenere le proprie reazioni e si accascia: di fronte a lui Desdemona intona il più grande e al tempo stesso problematico di tutti i concertati del teatro verdiano. Peraltro il quadro d’insieme s’impone come tempo interiore della prostrazione del protagonista per istanti intensissimi, fino a che il moro si riscuote e maledice la sposa.

Tutti escono e Otello delira, menzionando in modo sconnesso la frase che è origine del suo dramma: “ciò m’accora!”, e “il fazzoletto“, entrambi su una linea cromatica, a estremo coronamento di quella coerente strategia tesa a caratterizzare il personaggio mediante la relazione fra lo stile vocale, la sua psicologia e il meccanismo in atto.

Apre il quarto atto la grande scena di Desdemona, intrisa di tocchi di poetica evocazione nell’intensa “Canzone del salice”, che si chiude col disperato addio a Emilia. E ancora l’”Ave Maria“, ripetuta una seconda volta tra sé e sé, di cui si odono principio e fine mentre la melodia sta in orchestra, procedimento che accorcia il tempo del dramma verso le ultime parole: “nell’ora della morte”.

La sequenza dell’uxoricidio è aperta da una sinistra melodia dei contrabbassi, dopodichè la reminiscenza del motto del bacio s’incarica di segnare la continuità del sentimento che porta Otello al delitto.

Nel finale, pagando con la propria vita, il protagonista riconquisterà una dimensione umana, a partire dal “Niun mi tema“, desolato monologo dalle fattezze Frescobaldiane, declamato sugli accordi in ”ppp”, dell’orchestra.

Poco per volta il canto riacquista l’espressione lirica che l’azione di Jago aveva corrotto, e il sentimento amoroso liberato da ogni scoria, cresce sino alle ultime visionarie battute, quando Otello rivive il momento in cui era entrato nella camera della sposa.

Dopo il lamento delle ancelle, la musica si cristallizza nel motto del bacio. Pochi minuti prima quel gesto, avea destato la sposa, ora segna l’attimo in cui realtà e delirio diventano tutt’uno: l’esegèsi del dramma shakespeariano rinnovato sino alla morte.

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Le tragedie del Manzoni https://cultura.biografieonline.it/manzoni-tragedie/ https://cultura.biografieonline.it/manzoni-tragedie/#comments Fri, 25 Oct 2013 10:38:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8139 Sono due le tragedie scritte da Alessandro Manzoni: “Il conte di Carmagnola, composta nel 1816 e pubblicata nel 1820, e “Adelchi“, composta tra il 1820 e il 1822, quando fu pubblicata con la dedica alla moglie Enrichetta Blondel. Manzoni concepì anche una terza tragedia, “Spartaco”, ma, pur avendo raccolto un copioso materiale storico intorno all’argomento, non la portò a termine. Le tragedie del Manzoni costituiscono il primo esempio, in Italia, di teatro romantico.

Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni scrisse due tragedie: Il conte di Carmagnola e Adelchi

Nelle tragedie non viene rispettata l’unità di tempo: nel Carmagnola tra la prima e l’ultima scena intercorrono sette anni (1425-1432); la trama dell’Adelchi si svolge in tre anni (762-764). Inoltre non viene rispettata l’unità di luogo, perché sia nel Carmagnola che nell’Adelchi l’azione si svolge in luoghi diversi, con frequenti mutamenti di scena. Delle tre unità aristoteliche Manzoni rispettò l’unità di azione, ma la intese non nel senso di “unicità”, ossia di rappresentazione di un fatto unico e isolato, ma nel senso di rappresentazione di un complesso organico di avvenimenti, di un pezzo di storia, come dice il Sansone, in sé concluso: nel Carmagnola la tragedia della lotta fratricida tra Italiani; nell’Adelchi il trapasso in Italia dalla dominazione longobarda a quella dei Franchi.

Altra differenza dal teatro classicistico ed alfieriano è il maggior numero dei personaggi, la presenza di più protagonisti e la funzione nuova dei cori. Nelle tragedie greche i cori erano parte integrante dell’opera, erano interpreti dei sentimenti e dei principi morali dell’opinione pubblica, dialogavano con gli eroi e le eroine, dando loro consigli di prudenza e commovendosi alle loro audacie e alle loro sventure. Erano perciò ineliminabili dal contesto dell’azione.

Conte di Carmagnola Odi civili: Marzo 1821 (di Alessandro Manzoni)

I cori del Manzoni, uno nel Carmagnola e due nell’Adelchi, non sono parte
integrante dell’azione e si possono perciò eliminare senza che l’azione ne soffra, perché essi costituiscono il commento lirico del poeta ai momenti culminanti delle vicende, il “cantuccio”, come egli dice, dal quale fare sentire la propria voce, che egli si è sforzato di tener lontana dalla rappresentazione delle vicende, per rispetto della verità storica ed oggettiva.

Infatti anche nelle tragedie il Manzoni si attenne al principio del vero della sua poetica: volle così rappresentare eventi realmente accaduti. Perciò entrambe le tragedie sono precedute da notizie storiche, alle quali egli si attiene scrupolosamente, tranne per qualche particolare.

Tuttavia, nonostante questo impegno oggettivo, le due tragedie hanno un carattere essenzialmente lirico, in quanto esse rappresentano la visione pessimistica della storia che ebbe il Manzoni, il suo cristianesimo elegiaco o della Grazia. La lentezza dell’azione teatrale e la lunghezza dei monologhi le rendono poco adatte alla rappresentazione.

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Adelchi: riassunto e breve analisi https://cultura.biografieonline.it/adelchi-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/adelchi-riassunto/#comments Fri, 25 Oct 2013 04:46:23 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8155 Adelchi, tragedia del Manzoni

Composta da Alessandro Manzoni tra il 1820 e il 1822, delle due tragedie da lui scritte, Adelchi è un’opera più complessa e più ricca di poesia rispetto all’altra, Il Conte di Carmagnola. In quest’opera che andiamo a riassumere e ad analizzare è rappresentato l’epilogo della guerra tra Desiderio, re dei Longobardi, e Carlo, re dei Franchi, disceso in Italia in aiuto del Papa Adriano I.

Adelchi, principe longobardo
Il principe longobardo Adelchi, in una rappresentazione dell’ XI secolo

Ermengarda

Questa tragedia si apre con la scena di Ermengarda, che, ripudiata da Carlo, ottiene dal padre di ritirarsi nel monastero di San Salvatore a Brescia (ove è badessa la sorella Ansberga), per dimenticare, nella preghiera, le sue sofferenze.

Adelchi
Adelchi

Il ripudio di Ermengarda acuisce il dissidio politico di re Desiderio con Carlo, il quale protegge il pontefice e ingiunge ai Longobardi di abbandonare le terre della Chiesa. Desiderio rifiuta e dichiara la guerra ai Franchi, nonostante i consigli di moderazione del figlio Adelchi, che lo esorta ad un accordo con il pontefice. Nemmeno alcuni duchi longobardi sono d’accordo sulla guerra ai Franchi. Essi si riuniscono nella casa di Svarto, per macchinare il tradimento, inviando a Carlo lo stesso Svarto, per renderlo consapevole delle loro intenzioni.

Intanto Carlo è bloccato col suo esercito alle Chiuse, difese valorosamente da Adelchi, e, sta per rinunciare all’impresa, quando giunge il diacono Martino ad indicargli un sentiero ignoto, attraverso il quale l’esercito franco piomba alle spalle dei Longobardi, costringendoli alla fuga.

Mentre avviene ciò, Ermengarda muore nel monastero di Brescia.

Finale

Cade intanto Pavia, per il tradimento di Guntigi, e mentre Desiderio, fatto prigioniero, intercede presso Carlo per la salvezza del figlio, assediato in Verona, Adelchi, che con un’audace sortita è fuggito dalla città, sopraggiunge ferito e muore sotto gli occhi del padre e di Carlo: una catastrofe arbitraria, perché storicamente Adelchi non morì in combattimento, ma fuggì a Costantinopoli.

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Adelchi: analisi e commento

L’Adelchi di Alessandro Manzoni è superiore al Carmagnola anzitutto per la più ampia prospettiva storica, costituita dall’urto tra due popoli, i Franchi e i Longobardi, nel quale si inserisce il dramma del popolo italiano oppresso, che si illude di ottenere la libertà dallo straniero.

In più l’Adelchi è superiore per la maggiore complessità psicologica dei personaggi, che non lottano contro una forza esterna, come il conte di Carmagnola contro i politici veneziani, ma lottano contro alcuni sentimenti umani profondamente radicati nel loro animo, in contrasto con altri sentimenti, ugualmente radicati, ma più elevati. Questo dramma interiore è evidente soprattutto in Ermengarda e Adelchi.

Ermengarda, sebbene ripudiata da Carlo, lo ama ancora in modo profondao, nonostante gli sforzi che ella fa per staccarsi dai «terrestri ardori» e rivolgersi a Dio. Solo nella morte si placherà il suo dissidio interiore, il suo martirio.

Lo stesso destino tocca ad Adelchi, combattuto tra il suo dovere di lottare accanto al padre e la consapevolezza di una guerra ingiusta e senza speranza. Nelle parole che pronuncia prima di spirare vi è tutto il senso del suo Cristianesimo elegiaco, che vede nella morte la liberazione dalla feroce violenza che infuria nel mondo:

…Loco a gentile.
ad innocente opra non v’è: non resta
che far torto o patirlo.

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Il conte di Carmagnola https://cultura.biografieonline.it/riassunto-conte-carmagnola/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-conte-carmagnola/#comments Thu, 24 Oct 2013 13:56:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8147 Il conte di Carmagnola” di Alessandro Manzoni è una tragedia composta nel 1816 e pubblicata nel 1820. Narra le vicende drammatiche di Francesco Bussone, conte di Carmagnola, un capitano di ventura, che prima era stato al servizio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti, di cui aveva sposato la figlia. Poi, vistosi trascurato dal duca, passò al servizio della Repubblica di Venezia.

Conte di Carmagnola
Il Conte di Carmagnola rappresentato in uno studio pittorico di Francesco Hayez

Quest’ultima, ostile ai Visconti, gli offre il comando della guerra contro Milano, dopo che il senatore Marco riesce a dissipare i dubbi che sulla lealtà del conte ha espresso Marino, uno dei capi del Consiglio dei dieci.

La battaglia tra i due eserciti avviene a Maclodio nel 1427, ed è vinta dal Carmagnola, il quale però non solo non sfrutta la vittoria inseguendo il nemico, ma ordina anche di liberare alcuni prigionieri.

Il senato veneziano, informato da uno dei commissari del consiglio, si convince del tradimento del conte, decide di eliminarlo e ordina a Marco, sospettato per l’amicizia col Carmagnola, di partire per Tessalonica, dopo aver giurato di non rivelare a nessuno la decisione di richiamare a Venezia il conte.

Il Carmagnola, ricevuta la lettera, ignaro del tranello che gli si tende, parte fiducioso, ma. giunto a Venezia, viene arrestato, processato e condannato a morte come traditore. La tragedia termina con l’addio del conte alla moglie e alla figlia.

Le ricerche effettuate da Alessandro Manzoni lo avevano convinto dell’innocenza del conte, che muore vittima di un’ingiustizia, mentre le più accurate ricerche condotte dagli storici moderni provano la fondatezza dell’accusa di tradimento.

Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni

In ogni caso, il Manzoni ha voluto rappresentare nella tragedia il contrasto tra la spietata politica dei Veneziani e uno spirito nobile e generoso travolto dalla forza malvagia che governa il mondo.

Tale contrasto, tuttavia, non ha un adeguato sviluppo drammatico e l’azione procede piuttosto slegata, fiacca e artificiosa. Il momento poeticamente più alto è nell’ultimo atto della tragedia, quando il conte nella prigione medita sulla sua vita, e tutte le passioni umane gli appaiono vane e il suo animo si acquieta nel pensiero di Dio e della morte: un capovolgimento psicologico troppo repentino, non preparato adeguatamente negli atti precedenti.

L’unico personaggio veramente drammatico della tragedia è Marco, combattuto dal contrasto tra il sentimento di amicizia che lo lega al conte, e la ragione di stato, che lo costringe ad abbandonarlo alla sua sorte.

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Rigoletto, trama e riassunto https://cultura.biografieonline.it/riassunto-rigoletto/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-rigoletto/#comments Fri, 31 May 2013 12:31:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7402 Rigoletto è il titolo di una delle opere più note e belle del compositore italiano Giuseppe Verdi. Il libretto è di Francesco Maria Piave: la vicenda è tratta dal dramma di Victor Hugo Le Roi s’amuse (“Il re si diverte”). La prima rappresentazione del Rigoletto verdiano, una tragedia divisa in tre atti, andò in scena presso il Teatro La Fenice di Venezia il giorno 11 marzo 1851.

La prolusione seguente è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini.

Rigoletto, opera di Giuseppe Verdi
Rigoletto: una scena

Cortigiani, vil razza dannata” (Dall’Atto II)

Giuseppe Verdi, era impegnato a Trieste per la partitura di Stifellio, commisionatogli dal Teatro Grande. Era il 1850, ed altre partiture in quel straordinario anno di produttività, attendevano di essere terminate dal Maestro, aveva dei doveri contrattuali con la Fenice di Venezia.

Francesco Maria Piave, ricevette una lettera dal Maestro che era sua intenzione musicare un soggetto particolare, con personaggi che avevano già destato scalpore se non propriamente scandalo nella Parigi del 1832: “Le Roi S’Amuse”, di Victor Hugo. Nonostante le insistenze di F. M. Piave presso il direttore della Fenice, Carlo Marzari nulla potè contro la Censura, che vietava a Venezia di rappresentare un Re come un libertino cinico: il librettista ed il compositore accettarono di apporre alcuni cambiamenti all’originale romanzo francese. Il Protagonista, Francesco I, divenne il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, e furono cambiati numerosi altri nomi dei personaggi. Verdi però non volle il Re come protagonista della sua opera bensì il Gobbo, ossia Rigoletto buffone di corte. Da qui la scelta definitiva del titolo Rigoletto – dal francese: “Tribolet”, cambiato, sempre a causa della censura, in “La maledizione”.

La sera dell’11 marzo 1851, avvenne la prima al Teatro La Fenice di Venezia, immenso fu il successo di pubblico e di stampa, con la Brambilla in – Gilda – soprano, Felice Varesi Rigoletto-baritono, e Raffaele Mirate nel ruolo del Duca di Mantova.

Rigoletto è in ordine cronologico la prima opera che vienne definita come “Trilogia Popolare “, di Peppino Verdi – Traviata – Rigoletto – Trovatore.

La trama

Primo atto

La scena si svolge all’interno del Palazzo Ducale di Mantova, il Duca parlando con il cortigiano Borsa, le confida il suo particolare interessamento per una fanciulla incontrata in chiesa, mentre nel contempo corteggia la contessa di Ceprano, esprimendo dei giudizi arditi e libertini. Il Duca dice tutto ciò cantando una ballata, e, mentre canta, il buffone di corte Rigoletto si beffa del di lei marito. Presente alla scena c’è il Cavalier Marullo, ospite alla festa di Palazzo Ducale, egli rivela ad altri cortigiani che Rigoletto tutte le notti si reca a casa di una presunta amante. Questa notizia innesca nei partecipanti la voglia di schernire e deridere il buffone rapendogli la figlia la stessa sera. Il Conte di Morone arriva alla festa accusando il Duca di aver corteggiato la figlia ed oltraggiato il suo onore. Il Conte lancia quindi al Duca ed al buffone una terribile “Maledizione”; immediatamente il Conte viene circondato ed imprigionato dagli armigeri.

Seguendo la successiva scena, ci spostiamo in un vicolo dove c’è la casa di Rigoletto ed il palazzo di Ceprano; è notte: vediamo arrivare a casa Rigoletto seguito da Sparafucile che si presenta come un sicario di cui potersi fidare; Rigoletto sente le esternazioni del sicario e lo allontana prendendo il suo nome. In casa la figlia Gilda attende il padre che l’abbraccia teneramente. Giovanna, la governante di Gilda, fa furtivamente entrare il Duca. Rigoletto ritorna al Palazzo Ducale mentre il giovane Duca si presenta a Gilda come un povero studente di nome Gualtiero Malde’: “il giovane che l’ha vista ed incontrata in chiesa”.

Tra i due giovani intercorrono momenti di gioia e frasi d’amore appassionato. Un rumore… un rumore molto forte proviene dall’esterno… il Duca scappa! … Chi sono? …Ma sono i cortigiani venuti a rapire la “presunta amante”, di Rigoletto, ovvero sua figlia. Questi di ritorno alla propria dimora si imbatte in codesti sgherri che gli propongono di collaborare in quell’impresa, facendogli credere, “dopo averlo bendato”, che si tratti del rapimento della Contessa di Ceprano. Solo dopo aver tolta la benda si accorge dell’inganno, cioè del rapimento di Gilda. Qui intona “Ah, la maledizione”.

Secondo atto

Il Duca, nel suo castello, lamenta la scomparsa della fanciulla e, quando i cortigiani mettono al corrente Sua Grazia che Gilda e stata rapita e condotta da loro nei suoi appartamenti, si precipita a farle visita. Arriva Rigoletto che, disperato, cerca la figlia e viene sbeffeggiato dai cortigiani. Saputo che Gilda è appartata con il Duca, li supplica di aiutarlo a ridargli la figlia, essa però giunge e le confessa dell’onor perduto. Rigoletto giura vendetta “tremenda vendetta”, mentre Monterone vien portato al patibolo.

Terzo atto

La scena si sposta sulla sponda del Mincio, Rigoletto ha condotto Gilda nei pressi dell’osteria di Sparafucile, dove il Duca con un ennesimo travestimento è intento a corteggiare la sorella di Sparafucile. La nuova canzone del Duca fa capire quanto bassa sia la sua considerazione per le donne. Anche Gilda lo ode – nascosta tra il fogliame ed il muro, segue la scena da uno spiraglio – benché si renda conto della disonestà dell’amato, ne rimane innamorata. Le manifestazioni del Duca verso la leggera Maddalena, causa la costernazione di Gilda, e la paterna rabbia di Rigoletto fà sì, che quest’ultimo incarichi proprio Sparafucile a compiere la vendetta in suo nome.

In breve il piano è questo: Rigoletto mandata la figlia a Verona, avverte Sparafucile che a mezzanotte passerà a ritirare il corpo del Duca messo nel sacco per poi gettarlo nel fiume. Gilda purtroppo ritornando sente il dialogo tra Maddalena e Sparafucile, con cui la sorella convince Sparafucile ad uccidere al posto del Duca la prima persona che giungerà nella locanda. Gilda in un atto di estremo amore, mentre fuori infuria la tempesta, entra nella taverna non riconosciuta a causa dell’oscurità si fa ammazzare da Sparafucile… sublimazione dell’amore romantico!.

E’ mezzanotte: Rigoletto esultando passa alla taverna e ritira il sacco, e mentre si appresta a gettarlo nel fiume sente riecheggiare la canzone del Duca. Non credendo alle proprie orecchie, taglia il sacco e trova morente sua figlia Gilda. Sì, proprio sua figlia Gilda. Straziante sequenza finale: Gilda spiega al padre i motivi che l’hanno spinta a salvare il Duca, e, spirando, chiede scusa al padre del suo gesto. Al povero Rigoletto non resta che urlare: “Ah, la Maledizione“.

Analisi musicale

Pari siamo!… io la lingua, egli ha il pugnale

Quindi “La Maledizione” di Monterone – dicotomia di Rigoletto – tutto il soggetto è in quella “Maledizione”, che diventa anche morale. Un’infelice padre che piange l’onore tolto a sua figlia, e che vien deriso anche dal buffone di corte, ma il Conte Monterone, l’infelice padre “Maledice”, e questa sua maledizione il “Gobbo” la trasforma in paura, diventando il suo psicodramma, egli collega i fatti della sua tragica storia con questa “Maledizione”.

Grazie al reticolo musicale creato dal motto della “maledizione”, nelle sue implicazioni metriche ed armoniche, Verdi, scavalcando ogni censura veneta, pone enfaticamente il concetto che è alla base del suo dramma, ed ho la presunzione di capire che forse la censura veneta, lo stimola ancor di più dando fiato al suo sentire. Nasce quindi una delle sue più grandi tragedie, che ci porta coerentemente verso la catastrofe, intrisa di un esasperato rigore morale. Abbiamo già visto in Luisa Miller, nel romanticissimo contesto tra destino ed amore, quale effetto ebbe il tema del potere: opprimere le giuste aspettative dei due amanti.

Foto di Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Verdi con il suo Rigoletto si espone molto di più, scopre una classe dominante amorale, fatta da cortigiani amorali e perfidi, perditempo e uomini lascivi e prevaricatori, creatori solo di crudeli giochi di basso profilo. Tra di loro Verdi fa emergere il personaggio del Duca, tutto negativo, direi unico tenore verdiano, frivolo, egoista, egli è preda di tutte le passioni più effimere, che è pronto a soddisfare con prontezza, usando il suo potere in maniera dispotica. Verdi gli regala delle meravigliose melodie liriche soprattutto per connotare la sua fatuità e fargli esprimere a scopi ingannevoli quel sentimento che in realtà egli non prova mai per nessuna della sue conquiste, anche se con Gilda sembra andar molto vicino alla passione, come nella scena ed aria del secondo atto, dove si strugge per il rapimento di Gilda: “Colei si pura, al cui modesto sguardo / quasi spinto a virtù talor mi credo”, questo egli declama con abbandono e sofferenza, “Quasi”, … infatti non appena apprende che la ragazza è stata nascosta dai cortigiani nei suoi appartamenti, si riprende dal suo dolor ed intona la cabaletta, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare, con tutte sue conseguenze.

Nel successivo duetto con Gilda i versi stravolgono l’immagine del giovane povero ed innamorato, portando l’esaltazione dell’amore fine a se stesso, e così sentiremo parole celestiali uscire dalle sue labbra come: “Adunque amiamoci, – donna celeste, d’invidia agli uomini – sarò per te”.

La figura di Rigoletto è posta, sin dall’inizio dell’opera, in una posizione di antipatia che fa tutto il possibile per renderlo indigesto e quindi guadagnare l’odio dei suoi “amici”, ma a differenza dei suoi amici/nemici, molto superficiali e leccapiedi, egli invece ci fa capire con le sue paure e con le sue confessioni, l’abisso della propria anima, ed il suo interiore tormento. La paternità, sentimento umano protettivo, lo riscatta solo parzialmente ai nostri occhi e non riesce nemmeno a farci dimenticare la cattiveria con cui ha schernito Ceprano e Monterone. Non è dissimile la sua condizione da quella di Sparafucile, il sicario che nell’indimenticabile seconda scena del primo atto, viene a offrirgli i suoi servigi in un buio vicolo di Mantova, ed egli ne è consapevole quando intona il monologo: ”Pari siamo!…io ho la lingua, egli ha il pugnale”. Perfette parole sceniche, che scolpiscono la situazione in una fulminea sintesi.

Rigoletto passa dal sospetto – la lamentosa cantilena iniziale – all’ira: “Cortigiani, vil razza dannata” … alla commozione: “Ebben io piango” … sino ad umiliarsi di fronte a tutta la Corte: “Miei signori, perdono, pietate“. E’ questa concentrazione di atteggiamenti, che vanno dal più agitato ed imperioso, all’implorazione, sino a lirismo, un po’ sentito un po’ di facciata, comunque musicalmente autentico, che ingigantiscono l’impeto del Buffone che nel finale del secondo atto quando decide di vendicarsi intonando: “Si… vendetta, tremenda vendetta”.

Rigoletto però non ha tenuto nel dovuto conto la diversità dell’animo femminile, e l’amore altruistico di cui una donna è capace, anche se indossa i panni coloriti della prostituta Maddalena – e – dunque il Duca si salva grazie alla passione che ha acceso nel cuore della sorella di Sparafucile – ed in quello che ha già infiammato: l’innocente cuore di Gilda.

Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886
Un celebre ritratto di Giuseppe Verdi, eseguito da Giovanni Boldini nel 1886.

Giuseppe Verdi ha pennellato Gilda con tratti di enfatica ingenuità nel “Caro nome”, aria cesellata come un merletto, ma di assoluta drammaticità. Quella bella bimba ingenua sino al limite del credibile, dopo aver conosciuto l’amore in modo diverso da come l’immaginava, conscia di essere stata rapita e di essere diventata “donna” nell’incontro col Duca nella sua stanza da letto, dopo la confessione dell’oltraggio subito e traumatizzata da tutto questo intona: “Tutte le sere al tempio”, lo ritroviamo poi, nel quartetto ed infine nella scena del terzetto e della tempesta. Una donna matura e consapevole appare, assoluta dominatrice della scena, una metamorfosi, un cambiamento che mette il Duca da lei amato, in una luce da ragazzo sempre uguale, uno smanioso e solo capace di affermare ,come nella ballata iniziale, che: “Questa o quella per me pari sono”, e ribadirlo fino alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza: “La donna è mobile“.

Pensate che, il Maestro Verdi vietò al tenore Mirate l’esecuzione della romanza fino al debutto. Egli aveva progettato un “coupe de tèatre” sino nei minimi termini. Ritornando al finale dell’opera troviamo Rigoletto passare alla locanda di Sparafucile per ritirare il cadavere e si accinge a gettarlo nel fiume, quando dal fondo della scena gli giunge la voce del Duca, che canta lo stesso motivo di prima – ora s’accorge del tremento errore, ed aprendo il sacco trova Gilda moribonda che intona: “V’ho ingannata, colpevole… fui“, una delle frasi verdiane più disperate, toccando a tutti il cuore per quella sublimazione d’amore, accompagnata dagli arpeggi del flauto; la povera Gilda offre al padre l’unica consolazione per i poveri reietti cantando, “Lassù in cielo vicino alla madre”. Quel cielo di delizie incorporee non può esistere per il povero Gobbo che, impotente, è messo di fronte al suo totale fallimento. La “Maledizione” aveva così, drammaticamente, terminato il suo cammino.

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Il naufragio e il ritrovamento del Titanic https://cultura.biografieonline.it/il-naufragio-e-il-ritrovamento-del-titanic/ https://cultura.biografieonline.it/il-naufragio-e-il-ritrovamento-del-titanic/#comments Tue, 13 Mar 2012 18:39:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1019 Ritenuto inaffondabile, il Titanic, è una nave passeggeri britannica della Olympic Class, proprietà della compagnia navale White Star Line, il cui nome è stato scelto dall’amministratore delegato Joseph Bruce Ismay. La costruzione inizia presso i cantieri Harland and Wolff di Belfast il 31 marzo 1909 ed è finanziata dall’armatore americano John Pierpont Morgan. Lungo 269 metri e largo 28, con una stazza di 46.328 tonnellate, al Titanic è assegnato il prefisso RMS che indica Royal Mail Steamer poiché effettua anche servizio postale.

Una foto del Titanic
RMS Titanic (Royal Mail Steamer)

Con una capacità di 3.547 persone tra passeggeri ed equipaggio, è in grado di raggiunge la velocità massima di 23 nodi (43 Km/h) con propulsione a vapore.

Come è fatto il Titanic

Salone e scalinata del Titanic
Salone e scalinata del Titanic

A bordo è presente una piscina coperta, una palestra, un bagno turco, un campo di squash e quattro ascensori. I ristoranti e le grandi sale sono decorate con gran sfarzo, come anche gli alloggi privati di prima classe, rifiniti con ornamenti ed accessori di gran lusso, dotati di soggiorno, sala lettura e sala da fumo.

Equipaggiato con la più avanzata e potente stazione radio, la cui portata raggiunge la distanza di 2000 miglia, e comandato dal capitano Edward John Smith, è il più imponente e lussuoso transatlantico del mondo, gioiello della tecnologia navale dell’epoca.

L’inaugurazione del Titanic

Parte per il suo viaggio inaugurale da Southampton (Regno Unito) il 10 aprile 1912, direzione New York, via Cherbourg (Francia) e Queenstown (oggi Cobh, Irlanda). Arrivato a Cherbourg e poi a Queenstown, riparte l’11 aprile verso New York. Dopo 4 giorni di navigazione, il 14 aprile, il Titanic riceve varie segnalazioni di presenza di iceberg dai piroscafi Rappahannock, Maseba e Amerika, dal vapore Baltik, dal mercantile Californian, alle quali però non viene dato il giusto peso. Alcune segnalazioni inspiegabilmente non giungono nemmeno al ponte di comando. A bordo la priorità è data alla decisione di quale velocità far tenere al transatlantico, decidendo di portarla al massimo possibile per avere poter arrivare a New York con un giorno di anticipo. Le responsabilità di queste decisioni non sono però mai chiarite.

Lo scontro con l’iceberg

E’ il 14 aprile 1912, domenica. Alle 23.35 le vedette avvistano ad occhio nudo un iceberg di fronte alla nave, suonano tre volte la campana di allarme e avvertono il ponte di comando. William Murdoch, primo ufficiale, vira immediatamente a sinistra dando il comando di “indietro tutta”, ma la velocità della nave e l’inerzia dovuta alla sua massa, non permettono di evitare l’impatto. Alle 23 e 40 minuti il Titanic entra in collisione con l’iceberg, che provoca sei squarci sotto la linea di galleggiamento. Nonostante la chiusura delle porte stagne, l’acqua invade i compartimenti ed il triste destino del Titanic è segnato: sarebbe affondato entro un’ora e mezza o due al massimo.

L’abbandono della nave

L'affondamento del Titanic
Un disegno che raffigura l’affondamento del Titanic

L’ordine di abbandonare la nave non tarda ad arrivare. I passeggeri vengono chiamati, le scialuppe vengono preparate e si seguono gli ordini del capitano. La prima scialuppa è calata con sole 28 persone a bordo, nonostante la sua capacità fosse di 65 passeggeri. Inoltre, delle 32 scialuppe previste, ne sono montate solo 16 più 4 pieghevoli, insufficienti per le 2.228 persone stimate presenti. Poco dopo mezzanotte, lo sparo di otto razzi di segnalazione non dà risultato, come anche le richieste di aiuto inviate tramite segnalazioni radio. La nave più vicina è il Carpathia che però riesce a giungere sul posto verso le 8 della mattina. Alla 1.30 la prua della nave è completamente sommersa, con la poppa fuori dall’acqua.

L’affondamento del Titanic

Alle 2.15 le luci della nave si spengono e lo scafo si spezza in due tronconi. Alle 2.20 del 15 aprile 1912 il Titanic si inabissa definitivamente nell’oceano. Gran parte dei naufraghi caduti in mare muore non per annegamento ma per congelamento, essendo la temperatura dell’acqua intorno agli 0 gradi. Sopravvivono 705 anime. La profondità oceanica nella zona del naufragio è di 3.800 metri, troppa per le tecnologie dell’epoca.

Il primo tentativo di ritrovamento

Il primo tentativo per ritrovare il relitto del Titanic avviene il 1° settembre 1985, compiuto da una spedizione composta da francesi e americani e condotta da Jean-Louis Michel e Robert Ballard del Woods Hole Oceanographic Institution, che localizzano e fotografano il relitto. Ad una distanza di circa 486 miglia dall’isola di Terranova e ad una profondità di 3.787 metri, il relitto giace su un fondale fangoso dell’Oceano Atlantico.

Nel 1987 si recuperano alcuni oggetti successivamente esposti in alcune mostre. Si recuperano circa 5.000 manufatti. Nel 1996 viene riportata a galla una porzione del ponte di prima classe con due cabine. Secondo gli studiosi, il relitto subisce un costante e veloce degrado a causa di batteri e microrganismi marini che lo consumano fin dal momento dell’affondamento e con il passare dei secoli si trasformerà in polvere e minerale ferroso.

Le conseguenze dopo la tragedia

Il relitto del Titanic
Il relitto del Titanic

A seguito del disastro, il 12 novembre 1913 a Londra viene convocata la Prima conferenza internazionale sulla sicurezza della vita in mare che stabilisce il finanziamento internazionale dell’International Ice Patrol, un’agenzia della guardia costiera americana che ancora oggi controlla e segnala la presenza di iceberg pericolosi nel nord Atlantico. Si stabilisce inoltre che le scialuppe di salvataggio devono essere in numero uguale a quello delle persone a bordo, si rendono obbligatorie: le esercitazioni di addestramento per le emergenze, le comunicazioni radio operative 24 ore su 24 e la dotazione di un generatore di emergenza con autonomia di un giorno. L’ultima superstite ancora in vita, Lillian Gertrud Asplund, è morta negli Stati Uniti il 6 maggio 2006, a 99 anni.

Il film “Titanic” del 1997

“1500 persone finirono in mare quando il Titanic sparì sotto i nostri piedi. C’erano 20 scialuppe nelle vicinanze, solo una di loro tornò indietro… una! Sei persone furono salvate dall’acqua… una di queste ero io. Sei su millecinquecento. In seguito, le 700 persone sulle scialuppe non poterono far altro che aspettare. Aspettare di morire… Aspettare di vivere. Aspettare un perdono… che non sarebbe mai arrivato”. Queste sono le parole pronunciate da Rose, interpretata da Kate Winslet, una delle protagoniste insieme a Leonardo DiCaprio del film “Titanic”, campione di incassi del 1997, diretto da James Cameron.

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