teatro Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 22 Sep 2023 11:33:06 +0000 it-IT hourly 1 Aspettando Godot: riassunto, storia, analisi e commento https://cultura.biografieonline.it/aspettando-godot-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/aspettando-godot-riassunto/#comments Mon, 13 Feb 2023 09:00:38 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=32559 Aspettando Godot è una famosa opera teatrale scritta dall’autore e drammaturgo irlandese Samuel Beckett. Composta in lingua francese tra il 9 ottobre 1948 e il 29 gennaio 1949 dopo la fine della seconda guerra mondiale, questa opera fu pubblicata nel 1952. Il titolo francese “En attendant Godot”, era seguito dal sottotitolo in inglese “a tragicomedy in two acts” (una tragicommedia in due atti). L’opera andò in scena per la prima volta al Théâtre de Babylone di Parigi, il 5 gennaio 1953. L’anno seguente Beckett tradusse Aspettando Godot in lingua inglese: Waiting for Godot.

Il dramma si inserisce nel filone del cosiddetto “teatro dell’assurdo” ed è incentrato sulla comune condizione umana dell’attesa.

Aspettando Godot

5 personaggi

  • Estragon (in italiano indicato anche come Estragone), chiamato anche Gogo
  • Vladimir (in italiano indicato anche come Vladimiro), chiamato anche Didi
  • Lucky
  • Pozzo
  • Ragazzo

Aspettando Godot: trama e riassunto

La trama dell’opera beckettiana è semplice e lineare nella sua struttura. Si apre infatti con due uomini che aspettano in strada un tale chiamato Godot. La scena è spoglia. Oltre ai due personaggi – Vladimir ed Estragon – vi è solo un albero, che attraverso le foglie segna lo scorrere del tempo.

Godot, il protagonista tanto atteso, non appare mai nell’opera. Si limita ad inviare ai due uomini un ragazzo che gli dice:

“Godot non verrà oggi, verrà domani”.

La scena è quindi dominata da Vladimir ed Estragon, che hanno le sembianze di due barboni. I due, durante il tempo trascorso insieme nell’attesa di incontrare Godot, cominciano a lamentarsi delle condizioni climatiche, della fame, e della vita stessa.

La loro disperazione è tale che entrambi pensano anche al suicidio, ma senza metterlo in pratica. I discorsi futili, superficiali, a tratti sconnessi e privi di significato, lasciano riflettere lo spettatore sul non-sense dell’esistenza umana in alcuni frangenti.

Il dramma di Beckett prosegue con l’entrata in scena di altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Il primo è un uomo assai crudele, un proprietario terriero che tratta il secondo, Lucky, come uno schiavo, addirittura portandolo al guinzaglio come un cane. La corda è il simbolo che indica il loro insano, eppure inscindibile, legame esistenziale.

Secondo atto

Dopo aver incontrato il giovane “messaggero di Godot” e aver scambiato con loro alcune battute, Pozzo e Lucky escono di scena per ridare il posto a Vladimir ed Estragon. Nel secondo atto del dramma riappaiono dove erano la sera precedente. I dialoghi tra i due sono sempre caratterizzati da futilità, luoghi comuni e qualche battuta comica.

Intanto torna in scena Pozzo (che è diventato cieco), mentre il servo Lucky ha perso la parola. Dopo che il messaggero di Godot avvisa per l’ennesima volta che lui non verrà, in scena restano solo i due personaggi principali, a sublimare un’attesa che non ha mai fine.

Analisi e commento

Nell’opera il tempo resta fisso. C’è attesa di un qualcosa (o qualcuno), ma nessuna possibilità di cambiamento. Il dramma, strutturato in due atti, sembra immobile, eppure il tempo scorre e lo spettatore può rendersene conto attraverso alcuni particolari: ad esempio le foglie che cadono dagli alberi, ad indicare l’arrivo della stagione autunnale.

La commedia di Samuel Beckett, nella sua semplicità, è la metafora dell’esistenza umana, spesso trascorsa nell’attesa che avvenga qualcosa che possa distrarci dal tedio e dal pensiero ricorrente della morte. Proprio per tale metafora, che la maggior parte dei critici ha colto, Aspettando Godot è una delle opere di Beckett più discusse.

Non sono mancate negli anni sofisticate interpretazioni dell’opera dal punto di vista filosofico e addirittura psicanalitico. C’è chi ha voluto vedere nella coppia Valdimir/Estragon, un ritratto iconico dell’istituzione del matrimonio.

Samuel Beckett, invitato ad assistere alla prima della sua opera a Parigi, non andò. Inviò tuttavia una comunicazione:

“Non so chi sia Godot. Non so nemmeno se esista. E non so se loro credano in lui o no – i due che lo stanno aspettando. Gli altri due, che passano alla fine dei due atti, devono essere una rottura nella monotonia. Tutto quello che so l’ho mostrato. Non è molto, ma per me è abbastanza, di gran lunga. Direi, anzi, che sarei stato soddisfatto anche con meno. Quanto a volervi trovare un più ampio, più alto significato […] non ne vedo il punto. Ma è possibile… forse [i personaggi] vi devono delle spiegazioni.”

Samuel Beckett
Samuel Beckett

Tre curiosità su Aspettando Godot

  • Nell’accezione comune, l’espressione “Aspettando Godot” si caratterizza per il sottile sarcasmo e l’ironia. Sta ad indicare, infatti, un avvenimento, una situazione, un evento che pur sembrando imminente non si verificherà mai. Chi attende, però, sta lì immobile senza far nulla affinché l’avvenimento o la situazione possa accadere realmente.
  • All’opera di Beckett si sono ispirati altri autori: Miodrag Bulatovic nel 1966 scrisse “Godot è arrivato” (una sorta di sequel del dramma di Beckett). Mentre nel cinema, il regista italiano Nino Russo ha realizzato la pellicola “Il giorno dell’Assunta” nel 1977, ispirandosi chiaramente al drammaturgo irlandese.
  • Il titolo di uno spettacolo teatrale del 1991 del comico Claudio Bisio, Aspettando godo, schernisce il titolo originale di Beckett.
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Giulio Cesare di Shakespeare: riassunto e breve analisi https://cultura.biografieonline.it/riassunto-giulio-cesare-shakespeare/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-giulio-cesare-shakespeare/#respond Sun, 21 Nov 2021 15:54:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13419 Giulio Cesare” è una tragedia realizzata dal drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare, scritta con tutta probabilità nel 1599, usando come fonte principale le “Vite Parallele” di Plutarco.

Giulio Cesare (Shakespeare) - riassunto
Giulio Cesare di Shakespeare : una scena tratta da un film ispirato alla tragedia shakespeariana. Nella foto: Jason Robards interpreta Bruto (Brutus), nel film “23 pugnali per Cesare” (1970, di Stuart Burge)

Giulio Cesare di Shakespeare: la trama

La vicenda si apre con la descrizione della vita del console Giulio Cesare che trascorre le sue giornate in maniera del tutto tranquilla senza particolari intoppi ignorando quello che porterà le idi di marzo. Preoccupati dal potere crescente di Cesare, Bruto si lascia convincere ad entrare in una congiura, ordita da alcuni senatori romani tra cui Cassio (amico di Bruto), per impedire che il console trasformi la Repubblica Romana in una monarchia. A loro si uniscono altri cinque cospiratori tra cui anche:

  • Casca,
  • Trebonio,
  • Ligario,
  • Decio Bruto,
  • Metello Cimbro,
  • Cinna.

Giulio Cesare interpretato da Alain Delon (2008)
Giulio Cesare interpretato dall’attore francese Alain Delon (2008)

L’assassinio

Cesare, ritornato a Roma dopo la campagna d’Egitto, incontra perfino un indovino che lo avverte del pericolo imminente proprio durante le idi di marzo. Non servono a nulla nemmeno le premonizioni avute dalla moglie di Cesare, Calpurnia, che tenta di trattenere l’uomo dicendogli di rimanere a casa. Decio però lo convince a recarsi in Senato e Cesare decide di accettare l’invito in occasione della festa dei Lupercali; ma viene assassinato durante la riunione per mano dei congiurati che lo circondano e lo pugnalano.

Dopo la morte di Cesare arriva il console Marco Antonio (uno dei principali esponenti del partito cesariano) che si prodiga per organizzare i funerali del console ed esprimere l’elogio funebre in suo onore.

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Bruto si giustifica dell’uccisione del padre affermando che voleva evitare un’eventuale tirannia, ma subito dopo parla Marco Antonio, che dopo un’attenta lettura del testamento di Cesare, scuote i romani contro i congiurati infiammando gli animi. Dopo la morte di Cesare, tra Bruto e Cassio i rapporti diventano piuttosto tesi: Bruto accusa Cassio di regicidio in cambio di denaro. In seguito però, i due si riconciliano e si preparano alla guerra contro Marco Antonio e Ottaviano (pronipote e figlio adottivo di Cesare).

La scena più significativa è quella in cui appare agli occhi di Bruto lo spettro di Giulio Cesare che gli annuncia la sua prossima sconfitta (“Ci rivedremo” a Filippi).

La scena si sposta a Filippi. Durante lo scontro, Bruto vince sugli uomini di Ottaviano ma Antonio ha la meglio su Cassio che, piuttosto che essere fatto prigioniero, si suicida.

Poco dopo, anche Bruto subirà la stessa sorte, suicidandosi con la propria spada piuttosto che cadere in mano al nemico.

Cesare è stato vendicato.

Dopo la vendetta

Poco dopo, è lo stesso Marco Antonio a rendere a Bruto e ai suoi cospiratori l’onore delle armi e a pronunciarne l’elogio funebre.

L’opera continua, facendo un breve accenno alla futura frattura dei rapporti tra Marco Antonio e Ottaviano, che verrà narrata dettagliatamente nella tragedia di Antonio e Cleopatra (Shakespeare, 1607).

Nell’ultima parte, invece, si narra dell’ascesa al potere di Ottaviano e viene rimarcata la sconfitta di Marco Antonio durante la battaglia di Azio del 2 settembre 31 a.C..

Breve analisi dell’opera

L’opera è ambientata dapprima a Roma, poi la scena si sposta in Grecia e precisamente a Filippi.

L’opera è divisa in cinque atti.

  • I primi due atti si soffermano in particolar modo sulla vita del console Cesare, su Antonio amico e compagno di Cesare e sul figlio adottivo di Cesare, Bruto.
  • Il terzo atto narra le vicende relative alla congiura contro Cesare.
  • Gli ultimi due atti narrano della giustizia che ha avuto Cesare tramite coloro che gli vogliono bene.

I temi principali dell’opera sono quelli del tradimento e della cospirazione. Essi ci danno un’immagine dell’umana fragilità e mutevolezza, ed infine della vendetta.

Nell’opera troviamo tre personaggi di spicco:

  • Giulio Cesare (il console);
  • Ottaviano;
  • Antonio.

Tra i personaggi secondari spiccano:

  • Bruto (figlio adottivo di Cesare);
  • Cassio (amico di Bruto);
  • Calpurnia (moglie di Cesare).

Significativo è il tradimento del figlio adottivo di Cesare.

William Shakespeare aggiunge alle famose parole di Cesare “Tu, quoque, Brute!“, “Allora cadi, o Cesare!“, volendo far intendere che Cesare si rifiuta di sopravvivere ad un tale tradimento da parte di una persona nella quale aveva riposto la sua fiducia.

William Shakespeare
William Shakespeare

Shakespeare, Dante e la regina Elisabetta I

Ma, a differenza del sommo poeta fiorentino Dante Alighieri che non perdona Bruto, collocandolo nel peggior posto dell’inferno (viene dilaniato dai denti di Lucifero), William Shakespeare lo considera come un cospiratore di animo nobile. Secondo il drammaturgo inglese Bruto ha la buona intenzione di evitare che Roma diventi una monarchia assoluta.

L’opera tragica di Shakespeare rispecchia in modo indiscusso il clima di ansietà dell’epoca, causato dal fatto che la regina Elisabetta I si era rifiutata di nominare un successore; ciò avrebbe potuto portare, dopo la sua morte, ad una conseguente guerra civile simile a quella scoppiata in precedenza a Roma. Elisabetta I con grande abilità portò l’Inghilterra ad essere una nazione potente soprattutto sul piano internazionale, modello di civiltà e di cultura per tutti gli stati europei.

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Amleto di Shakespeare: riassunto, storia e origini dell’opera https://cultura.biografieonline.it/amleto-riassunto-storia/ https://cultura.biografieonline.it/amleto-riassunto-storia/#comments Sun, 21 Nov 2021 15:22:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27685 Amleto: la tragedia del principe di Danimarca

William Shakespeare scrisse l’Amleto fra il 1600 e il 1602 consegnando al mondo la tragedia che più sarebbe stata letta, rappresentata, rimodulata e vista nella storia. “La tragedia di Amleto principe di Danimarca”, questo il titolo tradotto letteralmente per esteso (The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark), presente in quasi tutte le lingue del mondo. Si avvale di innumerevoli rappresentazioni e trasposizioni al teatro e al cinema praticamente ovunque sul globo terrestre.

Shakespeare tiene in mano un teschio: scena iconica e simbolica dell'Amleto
Shakespeare tiene in mano un teschio: scena iconica e simbolica dell’Amleto

Le origini di Amleto

Il dramma del principe Amleto, così come lo riprese Shakespeare, affonda le sue origini nella leggenda di Amleth, protagonista della vicenda al centro di “Vita Amlethi” in “Gesta Danorum” di Saxo Grammaticus, storico medievale danese.

In questa versione i fratelli Orvendil e Fengi governano lo Jutland per conto del re di Danimarca. Succede che Orvendil sposa la figlia del re, Geruth, e da questa unione nasce Amleto.

Fengi, però, risentito per il matrimonio, uccide il fratello e, dopo un periodo di lutto, sposa la cognata autoproclamandosi capo dello Jutland.

In questa versione, rispetto al dramma shakespeariano che vedrà la luce più avanti, Amleto uccide lo zio per vendicare il padre e diventa sovrano di Danimarca.

Nella versione francese “Histoires tragiques” dello scrittore cinquecentesco Francois de Belleforest, sempre dalla traduzione di Saxo, invece, Amleto, afflitto da una profonda malinconia (aspetto non presente in Saxo) muore dopo lo zio.

Tuttavia, esiste un ulteriore precedente ed è “Ur-Hamlet”. Questo testo risale alla fine del ‘500, ma la sua paternità è incerta: viene attribuito in qualche caso allo stesso Shakespeare, in altri a Thomas Kyd, drammaturgo britannico noto per “La tragedia spagnola”.

La datazione dell’opera

L’Amleto di Shakespeare si colloca fra gli ultimi anni del ‘500 e i primi del ‘600. Numerosi indizi riportano a questa datazione. C’è la nota dell’accademico Gabriel Harvey sulla copia del libro datata 1598, anno del suo acquisto del testo. C’è il riferimento al conte di Essex, decapitato nel 1601.

Cosa più concreta, la registrazione della tragedia allo Stationer’s register il 26 luglio 1602 (mentre non è citata nell’elenco denominato “Palladis Tamia” di Francis Meres del 1598).

Dell’Amleto di Shakespeare ne esistono più versioni: da quella detta “in-folio” che molti critici ritengono essere una trascrizione degli attori che rappresentarono il dramma, fino alle edizioni più moderne che riprendono il cosiddetto “secondo quarto” ovvero la versione più lunga che Shakespeare pubblicò nel 1604. Quest’opera è successiva a un’altra delle sue più celebri: Romeo e Giulietta.

Amleto: riassunto

L’inizio: un fantasma sulle mura della città

L’inizio della tragedia è affidato a due soldati, testimoni dell’apparizione di un fantasma sulle torri che cingono la città di Elsinora, capitale della Danimarca.

Ad assistere al ritorno del defunto re (almeno questi pare essere) arriva anche Orazio, amico del principe erede Amleto, che cerca in tutti i modi di far parlare il fantasma. Ma, quando questi è sul punto di farlo, il gallo canta e il fantasma sparisce.

Il consiglio reale per fermare l’invasione di Fortebraccio

Intanto, in consiglio, re Claudio, la regina Gertrude, il figlio Amleto, il ciambellano Polonio, il figlio Laerte, gli ambasciatori Cornelio e Voltimando stanno affrontando la questione del figlio di Fortebraccio. Pare che egli stia riunendo un’armata ai confini con la Norvegia per riconquistare i territori persi dal padre.

L’assise decide di mandare due ambasciatori dal re di Norvegia per convincerlo a dissuadere il nipote da una tale azione.

Il re e il principe: la consegna della missione

Orazio confessa ad Amleto che il fantasma che appare sulle torri, gli sembra essere il suo defunto padre. Amleto, quindi, si reca sul posto a mezzanotte e, infatti, riconosce e incontra lo spirito del defunto genitore.

Questi gli rivela che lo zio, per brama di potere e di possesso verso il regno e la regina, l’ha ucciso versandogli un veleno nell’orecchio mentre dormiva in giardino. Il re, così, chiede ad Amleto di vendicarlo: Amleto accetta senza indugio.

Da qui nasce il dramma del principe che si chiude in un profondo silenzio e in una apparente grande malinconia: non ha abbastanza fiducia di nessuno a cui poter rivelare quanto gli ha chiesto il padre.

I sovrani chiamano a corte due vecchi amici di Amleto, Rosencrantz e Guildenstern, che tentano di rallegrarlo attraverso una rappresentazione teatrale. Amleto sfrutta l’occasione per verificare l’autenticità della richiesta del fantasma: si tratta davvero del padre o di una visione demoniaca che vuole solo spingerlo ad uccidere lo zio?

Non c’è niente che sia un bene o un male, ma è il pensare che lo rende tale.

Amleto a Rosencratz – Atto II, Scena 2

Ofelia

Il ciambellano Polonio propone di chiamare Ofelia, sua figlia, per provare a risollevare l’animo di Amleto. La donna viene invitata a fingere un incontro casuale con il principe che però vedrà in un momento assolutamente sbagliato.

Amleto, furente per le rivelazioni del padre defunto, infatti, rifiuta Ofelia e le consiglia di optare per la vita monastica.

Il malumore del nipote e il suo rifiuto di Ofelia fanno insospettire lo zio: Amleto – dubita preoccupato lo zio – potrebbe avere questo stato d’animo perché al corrente di come sono realmente andati i fatti fra lui e il fratello re. Ordisce così di esiliarlo in Inghilterra, fingendo di assegnargli un qualche incarico amministrativo.

Lo stato d’animo del protagonista si evince anche nel proverbiale dubbio amletico, di cui è simbolo il celebre monologo “To be or not to be”.

Essere, o non essere, questo è il problema:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare.

Amleto – Atto III, Scena 1
Hamlet Amleto scena teatrale
Il momento in cui Amleto tiene in mano il teschio è erroneamente associato al celeberrimo monologo “essere o non essere”. In realtà la scena avviene nella parte finale del dramma (atto V, scena 1)

Il dramma nel dramma: il teatro come trucco

Amleto chiede agli attori di inscenare “L’assassinio di Gonzago”, ricalcando quanto accaduto ai danni del padre per mano dello zio. Così facendo si prepara ad osservare le reazioni dell’assassino del padre, durante la recita, al fine di smascherarlo.

Il trucco riesce: il re viene preso da un attacco di collera proprio durante la scena dell’avvelenamento, ed esce dal teatro.

Il consulto con la regina e la morte accidentale di Polonio

La regina vuole sentire le ragioni per cui Amleto ha deciso di mettere in scena proprio “L’assassinio di Gonzago”. Perché poi Polonio riferisca al re, chiede a questo di nascondersi e assistere al dialogo con il figlio Amleto.

Ma nel corso del dialogo Amleto, in collera per quanto accaduto, scambia Polonio per il re e lo uccide. Il principe, senza rimorso alcuno, esce di scena con il corpo del ciambellano in braccio per poi seppellirlo da lì a pochissimo.

La partenza e la convinzione della necessaria vendetta

Il re, saputo di quanto accaduto, sollecita la partenza di Amleto per l’Inghilterra. In cammino verso il porto, il principe incontra le armate di Fortebraccio dirette in Polonia. Questo fa riflettere Amleto che decide di non lasciare invendicata la morte del padre.

Laerte e Ofelia: come vendicare l’ingiusta morte di un padre

Dopo la scena dell’arrivo a palazzo di Ofelia in stato di completa pazzia, anche Laerte reagisce all’ingiusta uccisione del padre. Si mette a capo di un manipolo di criminali e giunge in Danimarca, batte l’esercito danese e si presenta al cospetto del re per rivendicare la morte di Polonio e i mancati onori funebri.

Il re spiega tutto a Laerte senza però dire, furbamente, da cosa sia derivata la furia di Amleto.

Il ritorno di Amleto e la morte di Ofelia

Orazio riceve una lettera da Amleto in cui spiega che è stato catturato dai pirati e con questa una missiva per il re nella quale dice allo zio che sta per rientrare in patria. L’occasione è ghiotta per il re che propone a Laerte di sfidare a duello il principe Amleto.

Nel frattempo, sulla strada del ritorno, Amleto assiste alla sepoltura di una donna che si rivelerà Ofelia, morta suicida in acque lacustri.

La morte della sorella accende ancor più l’ira di Laerte contro il principe di Danimarca: lancia così la sfida a duello.

Il finale: Amleto contro Laerte

Prima di sfidarlo, Amleto si riconcilia con Laerte, gli chiede scusa e gli dimostra stima.

Inizialmente il duello vede la supremazia di Amleto. A quel punto il re zio gli offre una coppa di vino avvelenato. Amleto la rifiuta, ma disgraziatamente sarà la regina a berlo, morendo inevitabilmente.

Il re aveva dato a Laerte una spada con la punta intinta in un potente veleno, ma il fioretto viene scambiato fra i duellanti durante il combattimento. A morire, così, è proprio Laerte, non prima di aver rivelato l’ignobile piano del re a cui aveva acconsentito.

Amleto si scaglia così sul re, dandogli la morte con i suoi stessi malvagi strumenti: prima la spada e poi la coppa di vino, entrambe avvelenati.

Il principe di Danimarca sta per morire, ma apprende dall’amico Orazio che Fortebraccio è tornato vittorioso dalla Polonia. Prima di esalare l’ultimo respiro, allora, Amleto nomina Fortebraccio nuovo re di Danimarca.

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L’uomo dal fiore in bocca, opera di Pirandello https://cultura.biografieonline.it/uomo-dal-fiore-in-bocca-pirandello/ https://cultura.biografieonline.it/uomo-dal-fiore-in-bocca-pirandello/#respond Fri, 02 Aug 2019 06:01:54 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26774 In questo spazio vogliamo dedicarci al testo teatrale scritto nel 1923 da Luigi Pirandello: “L’uomo dal fiore in bocca”. Si tratta di un atto unico, breve ma intenso, carico di emotività e drammaticità. Si colloca successivamente ad altre celebri opere dell’autore siciliano, quali Sei personaggi in cerca d’autore, Così è (se vi pare) o La Giara.

Uomo dal fiore in bocca

L’uomo dal fiore in bocca: riassunto dell’opera

La scena della novella/commedia si svolge in un caffè di una piccola stazione di provincia. Un posto misero, spoglio, dove due uomini conversano a tarda notte.

Gli argomenti della conversazione dei due personaggi sono basati sulla quotidianità: dalle compere di cui sono incaricati dalle rispettive mogli, al treno perso per un minuto di ritardo. E ancora: l’arte con cui i commessi fanno i pacchetti per confezionare gli oggetti acquistati nei negozi.

Il dialogo iniziale

“Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è… Ha perduto il treno?

L’avventore: Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.

L’uomo dal fiore: Poteva corrergli dietro!

L’avventore: Già. E` da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegli impicci di pacchi, pacchetti, pacchettini… Più carico d’un somaro! Ma le donne – commissioni… commissioni… – non la finiscono più. Tre minuti, creda, appena sceso di vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita; due pacchetti per ogni dito.

L’uomo dal fiore: Doveva esser bello! Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati nella vettura.

L’avventore: E mia moglie? Ah sì! E le mie figliuole? E tutte le loro amiche?

L’uomo dal fiore: Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.

L’avventore: Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeggiatura!

L’uomo dal fiore: Ma sì che lo so. Appunto perché lo so.

Dicono tutte che non avranno bisogno di niente.”

I personaggi e la storia

In particolare, tra i due uomini, c’è quello più predisposto alla chiacchiera che parla in continuazione; mentre l’altro ascolta parlando raramente, quando riesce ad inserirsi nel discorso. Quindi viene rappresentato più un monologo che un dialogo vero e proprio.

Poi dal dialogo banale il discorso fa emergere il dramma quando il primo personaggio, l’uomo dal fiore in bocca, rivela all’altro che è affetto da un epitelioma: si tratta di un tumore della bocca, male che lo condannerà a morte nel giro di poco tempo.

Egli racconta di questo male descrivendolo con dovizia di particolari; questo male dal nome dolce che potrebbe benissimo adattarsi ad un fiore; ma che invece di un fiore è un tumore maligno che si trova sul suo labbro e che lo costringe a pochi mesi di vita.

L’uomo spiega al suo interlocutore che è un ottimo osservatore e se mentre i conoscenti gli riportano alla mente il suo stato di vita, gli estranei no; così li osserva e ha la sensazione di sentirsi libero di immaginare la sua vita senza quella condanna a morte e alla sua illusoria volontà di vivere.

In questo modo sfugge anche alla moglie, per lo stesso motivo. L’uomo la respinge e lei lo segue nell’ombra per stargli vicino; ma il marito vuole scacciare il passato, i ricordi e la stessa vita.

Finale

I due uomini si congedano; prima però l’uomo dal fiore in bocca raccomanda all’avventore sconosciuto di raccogliere un

cespuglietto di erba su la proda, ne conti i fili per me…Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando. Buona notte caro signore.

Lo stile della novella: analisi e commento

Il lessico e la sintassi ne “L’uomo dal fiore in bocca” non danno volutamente carica espressiva alla prosa. L’espressività si coglie invece dal ritmo dei periodi, dando anche pause e accensioni improvvise.  

Con questa novella Pirandello affronta il dilemma di come l’uomo si pone davanti alla morte. L’autore evidenzia come cambia in maniera radicale il modo di vedere il mondo, la propria vita e quella degli altri. Anche piccoli avvenimenti scontati assumono un’importanza vitale.

Per quanto riguarda i due protagonisti, c’è l’uomo comune, che rappresenta la normalità con i suoi problemi di routine e le sue preoccupazioni banali, offuscato dalla banalità del vivere quotidiano, che è rappresentato dall’avventore. L’altro personaggio si contrappone all’avventore: l’uomo dal fiore in bocca vive con la consapevolezza che è destinato a morire.

È diventato capace di elevarsi e di avere la capacità di penetrare l’essenza dell’esistenza, comprendendo quanto sia futile la vita quotidiana e borghese.

Luigi Pirandello
Luigi Pirandello

Breve note biografiche su Luigi Pirandello

Drammaturgo, scrittore e poeta siciliano, nel 1934 venne conferito a Luigi Pirandello il Premio Nobel per la letteratura: nacque il 28 giugno 1867 a Girgenti (denominata poi Agrigento). Grazie all’incoraggiamento della madre, Caterina Ricci Gramitto, Luigi manifestò sin da ragazzino la sua passione per la letteratura. È nel 1889 che scrisse i suoi primi versi: “Mal Giocondo” e poi nel 1891 “Pasqua di Gea”, una raccolta dedicata all’amata Jenny Schulz-Lander, di cui, a Bonn, si innamorò.
Per approfondire: biografia di Luigi Pirandello.

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Manon Lescaut, di Giacomo Puccini: riassunto, storia e trama https://cultura.biografieonline.it/manon-lescaut/ https://cultura.biografieonline.it/manon-lescaut/#comments Fri, 25 Jan 2019 11:13:44 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25900 Dopo “Le villi” del 1884 e “Edgard” del 1889, il genio di Giacomo Puccini va in scena con la sua terza opera. Si tratta di Manon Lescaut che viene rappresentata per la prima volta al teatro Regio di Torino la sera del 1° febbraio del 1893. Il dramma “Manon Lescaut” giunge al pubblico in quattro atti. In particolare, è l’adattamento di Giacomo Puccini del volume “Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut” dell’abate Antoine Francois Prévost del 1731.

Manon Lescaut
Manon Lescaut

La composizione dell’opera e il travaglio del libretto

La composizione della “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini è datata fra il 1889 e 1892, anni nei quali, al libretto della stessa, si susseguono diversi noti in auge al tempo. Ruggero Leoncavallo, Marco Praga, Domenico Oliva sono i primi tre della lista. A questi si aggiungerà Luigi Illica che, insieme poi a Giuseppe Giacosa, firmerà con Puccini le sue tre opere più importanti e immortali (La bohéme del 1896, Tosca del 1900 e Madama Butterfly del 1904).

Tanto fu il travaglio, che oggi critica ed esperti sono d’accordo nell’attribuire la paternità del libretto allo stesso Puccini, che fece da ago della bilancia nell’avvicendarsi, con più o meno successo, degli altri librettisti. Nessuno di questi, infatti, firmò mai l’opera.

Riassunto e trama dell’opera Manon Lescaut

Una storia d’amore disperata e struggente

Della Manon Lescaut esistevano già diverse versioni. Quello che fece Giacomo Puccini fu sentirla – come lui stesso scrisse:

“all’italiana, con passione disperata”.

Atto 1°

Il primo atto si svolge a Amiens. Qui Renato Des Grieux, studente, e Manon Lescaut, ragazza destinata alla vita monastica, si incontrano: è amore a prima vista. Il fratello di lei, però, vuole costringerla a sposare Geronte, un ricco banchiere.

Renato, complice un amico che scopre cosa il fratello della ragazza stia tramando, anticipa Geronte: rapisce Manon e la porta via con sé verso un’esistenza di grandi sentimenti ma, certo, di stenti.

Atto 2°

All’apertura del secondo atto, a Parigi, infatti, Manon è tornata da Geronte, stanca delle difficoltà della vita con Des Grieux. Ma l’amato le manca. Il fratello lo manda a chiamare. I due amanti vengono colti nel loro abbraccio segreto proprio da Geronte.

Manon, prima di fuggire col suo cavaliere, tenta di rubare alcuni gioielli dalla casa di Geronte. Le guardie la sorprendono in questo intento: insieme a quella di adulterio, su Manon cade l’accusa di furto ai danni del banchiere a cui era stata promessa.

Atto 3°

Il terzo atto si svolge a Le Havre, prigione in cui Manon è rinchiusa con altre donne. Alcune della quali come lei aspettano di essere imbarcate per gli Stati Uniti. La ragazza tenta invano la fuga.

In ultima istanza, Des Grieux implorà il comandante della nave diretta oltre oceano di imbarcare anche lui. L’uomo acconsente. I due amanti salpano alla volta degli Stati Uniti.

Atto 4°

L’atto di chiusura, il quarto, è ambientato in “una landa sterminata ai confini di New Orleans”. I due amanti vagano senza meta e senza mezzi fino al più tragico dei finali.

Manon, vinta dagli stenti e dall’errare senza scopo, muore fra le braccia del suo amato.

Il tocco pucciniano all’opera indimenticata: breve critica

Dal punto di vista critico, ciò che distingue anche “Manon Lescaut” nella versione pucciniana è il cosiddetto “primato della melodia”. Numerosi sono infatti gli assoli che giungono vividi al pubblico e lasciano la memoria dell’opera intatta nel tempo. Quattro in particolare: “Donna non vidi mai” cantata da Des Grieux nel primo atto; “In quelle trine morbide” di Manon nel secondo atto; “Tu, tu, amore? Tu?” duetto del secondo atto; l’intermezzo del viaggio a Le Havre del terzo atto; “Sola, perduta, abbandonata” di Manon nel quarto atto.

Adattamenti, corsi e ricorsi all’avventura di Prévost

La “Manon Lescaut” non è nuova a rifacimenti. Basti pensare che la sola opera firmata da Giacomo Puccini conobbe ben 8 edizioni per Ricordi fra il 1892 e il 1924, a ridosso della morte del compositore lucchese.

Oltre trent’anni, questi, di tagli e reinseirmenti, modifiche alla partitura e al testo, alle arie e, più nel dettaglio ancora, alle strofe delle arie stesse.

L’origine della vicenda, come detto, risale a “Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut” dell’abate Antoine Francois Prévost del 1731. Il racconto è incluso, in particolare, nel settimo volume delle “Memorie e avventure di un uomo di qualità che si è ritirato dal mondo”.

La storia dell’amore disperato fra Manon e Des Grieux, poi, fu ripresa nel dramma del 1850 di Théodore Barriere e Marc Fournier. Divenne opera per mano di Jules-Émile-Frédéric Massenet nel 1884, che anticipò la versione italiana e pucciniana, appunto, di nove anni.

La vicenda di Manon, infine, è passata anche al grande schermo, in tre pellicole: “Manon Lescaut” di Carmine Gallone del 1939, “Manon” di Henri Georges Clouzout del 1949 e “Manon 70” di Jean Aurel. Questi ultimi due film, in particolare, giunsero al pubblico del cinema come adattamenti dell’opera in chiave moderna.

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Dal tuo al mio, opera di Giovanni Verga: riassunto e analisi storica https://cultura.biografieonline.it/dal-tuo-al-mio-verga/ https://cultura.biografieonline.it/dal-tuo-al-mio-verga/#respond Tue, 06 Nov 2018 08:40:41 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25370 La “roba” dal teatro alla narrativa: “Dal tuo al mio” è l’adattamento narrativo dell’omonimo dramma scritto da Giovanni Verga nel 1903. La storia in tre atti, divenuti tre capitoli, è apparsa a puntate sul periodico “Nuova antologia” nel 1905.

Dal tuo al mio - Giovanni Verga

Trama: ricchi e arricchiti in eterno conflitto

La storia narrata in “Dal tuo al mio” racconta il dramma negativo della famiglia Navarra e della loro zolfatara. Il nucleo famigliare è costituito dal Barone, vedovo, e dalle due figlie: Lisa e Nina. Il racconto si apre nel giorno del matrimonio, poi mancato, di Nina con il figlio di don Nunzio Rametto, lavoratore arricchito della miniera di Navarra.

La storia prosegue, battuta dopo battuta, a suon di conflitti sociali e di famiglia. Lisa, infatti, si innamora di un operaio, Luciano, al servizio di don Nunzio Rametto, assoldato per controllare il lavoro della zolfatara, in cui ha investito. La ragazza viene cacciata di casa e se ne perdono le tracce fino all’epilogo. Trascorso tragicamente un nuovo episodio in cui le parti – il Barone e Rametto – vogliono accordarsi rispetto al possesso della zolfatara, in un misto di debiti e accordi di dubbia giustezza, si alza il vento della rivolta.

I lavoratori, stanchi dei soprusi e soprattutto della paga indecorosa, infatti, entrano in sciopero.

Dal tuo al mio: il finale

Quando giungono alla porta del Barone, in casa c’è anche Lisa, accorsa ad avvertire il padre e la sorella dell’avvento dei riottosi. Solo sul finale, il Barone sembra arrendersi alla perdita della sua amata miniera e all’accordo con Rametto. Intanto è giunto in casa anche Luciano, ambasciatore degli minatori in rivolta, nonché genero rinnegato del padrone. Mentre i minatori avanzano, il bene economico viene messo almeno alla pari del futuro dei famigliari.

La pace venne poi naturalmente come il pericolo incalzava lì fuori, e li buttava fra le braccia l’uno dell’altro, stringendoli a difendere roba e vita. Luciano, primo allo sbaraglio sulla porta, disse risolutamente, mentre si udiva crescere e avvicinarsi il rumore della folla minacciosa:
– Via! Via di qua, vossignoria.
– Tu piuttosto! Pensa a tua moglie! Mettiti almeno al riparo, qui dietro al pilastro.-
In quella vera stretta d’ansia e di confusione, quando Sidoro, come un angelo dal cielo annunziò di lassù: “La forza! Ecco i soldati!”, padre e figli si strinsero nelle braccia gli uni degli altri, don Mondo, tornando da morte a vita, balbettando:
– Figli! Figli miei!

Brevi cenni storici: i Fasci siciliani

La figura di Luciano, al cui amore cede la figlia del padrone, Lisa, è ascrivibile al movimento dei Fasci siciliani.
Il movimento nacque il 1° maggio del 1891, a Catania, per volere di Giuseppe De Felice Giuffrida. Libertari, democratici e socialisti di ispirazione aderirono ai fasci, alla fine dell’Ottocento, sia il proletariato urbano che, poi, gli operai agricoli e i minatori (compresi gli zolfatari).

I Fasci siciliani dei lavoratori, delusi dall’innovazione che avrebbe dovuto far seguito all’Unità di Italia, lottarono per richiedere maggiore equità e finalmente il superamento del sistema di stampo feudale ancora vivo in Sicilia. In particolare, nelle richieste del movimento c’erano la riforma fiscale, la revisione dei patti agrari, per l’abolizione delle gabelle (imposte indirette su merci e scambi) e, infine, la redistribuzione delle terre.

Il movimento fu contrastato militarmente, con decine di morti, dal governo Giolitti e poi da quello di Francesco Crispi, sotto l’egida di Re Umberto I. La vicenda si concluse nel 1894 con lo scioglimento del movimento e l’arresto (più avanti mutato in amnistia) dei capi e dei responsabili del movimento.

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La giara, di Luigi Pirandello: riassunto e commento alla novella brillante sul tema del possesso https://cultura.biografieonline.it/la-giara-pirandello/ https://cultura.biografieonline.it/la-giara-pirandello/#comments Mon, 22 Oct 2018 08:45:12 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25377 La giara è una delle numerose novelle scritte da Luigi Pirandello. In particolare, questa fu scritta nel 1906 per divenire poi una commedia nel 1916 ed essere inclusa, infine, nelle “Novelle per un anno” del 1917. In modo brillante, “La giara” di Pirandello racconta la disavventura di Don Lolò Zirafa. Zirafa è un proprietario terriero, ancorato saldamente ai propri possedimenti e pronto sempre ad andare allo scontro con chiunque per difenderli.

La Giara - Pirandello - riassunto

La giara, trama e riassunto

La storiella si svolge nel periodo della raccolta delle olive e quindi della produzione dell’olio. Proprio per la conservazione dell’olio, Zirafa si procura, al prezzo di quattr’onze, una grande e panciuta giara. In attesa di essere utilizzata, una volta arrivata nella proprietà, la giara viene riposta nel palmento. Fra stupore e timore, tre lavoranti di Don Lolò scoprono la mattina seguente che il contenitore si è spaccato.

Superato il primo momento di smarrimento per l’acquisto andato in malora, sotto il consiglio dei suoi collaboratori, Don Lolò chiama in aiuto l’artigiano Zi’ Dima. Questi, infatti, non solo si occupa di riparazione di otri e contenitori di terracotta ma, in più, sostiene di aver creato e brevettato un mastice miracoloso. Un prodotto che, da solo avrebbe senz’altro risolto il problema della nuova giara. Se non che Don Lolò, incredulo e malfidato, inizia ad insistere con l’artigiano a ché comunque dia alla giara dei punti con il fil di ferro.

Dopo una breve discussione, Zirafa ha la meglio e Zi’ Dima si mette a lavoro. Prima il silicone, poi i punti. Per farlo entra nella giara e inizia a cucire con l’aiuto di un contadino. A lavoro finito, la tragicomica rivelazione: Zi’ Dima non riesce più a venire fuori dalla giara.

Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata, e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva esser rotta daccapo e per sempre.

Come Don Lolò perse la sua giara

Viene quindi chiamato Don Lolò che, pur su tutte le furie, come sua abitudine in caso di contrasto con altrui ragioni, prende la mula e si reca dall’avvocato. Questi non trattiene le risate, per il racconto della triste vicenda quanto per la richiesta, alquanto bislacca, di Don Lolò.

E lui, don Lollò, che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi … tenerlo là dentro per non perderci la giara?

Don Lolò torna a casa sconsolato e va dritto da Zi’Dima per stipulare un accordo: lui gli pagherà il lavoro, ma in cambio sarà risarcito di un terzo del valore della giara giacché a causa dell’incuria dell’artigiano dovrà distruggerla per liberarlo. Zi’ Dima è irremovile.

<<Io, pagare?>>, sghignò Zi’ Dima. <<Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi>>.

Don Lolò aveva già gettato la paga dentro la giara, come anche si era assicurato che l’artigiano avesse da bere e da mangiare, altro non fosse per non mettersi nel torto. Ma Zi’Dima investe la paga in osteria e se la spassa con tutti i contadini, fumando e bevendo, alla faccia del padrone.
La notte trascorre così, in festa per i contadini e Zi’Dima.
Al risveglio la conclusione tanto attesa. Zirafa pone fine alla ridicola situazione.

[…] si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un ulivo.
E vinse Zi’ Dima.

Da Verga a Pirandello: il ritorno della “roba”

Affonda nel Verismo verghiano, ma appartiene al racconto della Sicilia di fine Ottocento. La “roba” è il possedimento esterno che genera il valore interiore. Avere terra per la cultura del tempo era il biglietto verso il rispetto e la dignità. Questo spiega l’attaccamento morboso dei personaggi di Giovanni Verga, vinti e non.

Pirandello, a distanza di cinquant’anni o poco più, rispolvera il tema per farne commedia e oggetto di scherno. Don Lolò, infatti, è spogliato dai valori del sacrificio e dell’onore di memoria verghiana, ma è rappresentato con un taccagno, burbero, capace di ricorrere all’avvocato per pochissimi denari. A lui, infatti, in questa svolta pirandelliana del tema si oppone Zi’ Dima, certo vecchio, ma dotato di ingegno e legittimato nella sua azione – che pur vedrà risvolti comici – dall’essere lavoratore.
E se Verga volge tutto in pessimismo, Pirandello, in teatro e fuori, manda tutto in commedia; e per la felicità dei non possidenti manda la giara in frantumi.

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La locandiera, commedia di Carlo Goldoni (riassunto) https://cultura.biografieonline.it/la-locandiera-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/la-locandiera-riassunto/#respond Tue, 14 Feb 2017 07:48:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21276 La locandiera è la commedia più famosa di Carlo Goldoni, che fa parte delle opere scritte nella stagione teatrale del 1752-53. È diventata così conosciuta perché è una delle prime commedie di carattere. Non sono più utilizzate le maschere fisse ed è presente un approfondimento psicologico. La protagonista è Mirandolina, la proprietaria di una locanda in Toscana che adora circondarsi di spasimanti ma che non si concede mai a nessuno. L’autore sceglie di rappresentare questa tematica discussa, proprio per mettere in guardia gli uomini dal disprezzo di alcune donne.

La locandiera - commedia di Carlo Goldoni - riassunto
Una scena tratta da una moderna rappresentazione teatrale de La locandiera, di Carlo Goldoni.

La Commedia dell’Arte di Goldoni

Carlo Goldoni è stato uno dei più grandi autori teatrali italiani, attivo nel Settecento. È riuscito a riformare completamente la Commedia dell’Arte per dar vita ad un nuovo modo di scrivere i testi teatrali. Fino a quel momento la Commedia dell’Arte, infatti, aveva sempre fatto a meno di testi scritti e sceneggiatura, per utilizzare un tipo di rappresentazione dal vivo, basata sull’improvvisazione e sull’utilizzo di maschere fisse.

Goldoni, per la prima volta, cambiò il modo di fare teatro comico, proponendo commedie scritte per intero. Creando dei personaggi a tutto tondo e senza l’utilizzo delle maschere. Indagando la loro psicologia. Facendo un’analisi sociale della situazione del tempo. Criticando aspramente i vizi della borghesia.

La locandiera appartiene al periodo in cui l’autore lavorava presso il teatro Sant’Angelo di Venezia e iniziava a mettere a punto la sua riforma teatrale. L’opera non lascia spazio all’improvvisazione.

La locandiera

Commedia in tre atti di Carlo Goldoni. Riassunto.

Incipit

Il marchese: Fra voi e me, vi è qualche differenza.
Il conte: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro quanto vale il mio.
Il marchese: Ma se a me la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
Il conte: Per quale ragione?
Il marchese: Io sono il Marchese di Forlipopoli.
Il conte: Ed io sono il Conte d’Albafiorita.
Il marchese: Sì Conte. Contea comprata.
Il conte: Io ho comprato la Contea, quando voi avete venduto il Marchesato.
Il marchese: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.

Atto I

La scena è ambientata nella locanda della protagonista, Mirandolina. E’ una bellissima ragazza che adora sedurre gli uomini ma che non si concede mai. Qui si incontrano il Marchese di Forlipopoli, un nobile decaduto, e il ricco Conte di Albafiorita, che ha acquistato il titolo nobiliare con il suo denaro.

I due si contendono i favori della locandiera e la corteggiano ciascuno a suo modo. Il Marchese ostenta il suo titolo sociale. Il Conte fa lo stesso con il suo denaro.

Alla locanda arriva un altro ospite: il Cavaliere di Ripafratta. E’ un aristocratico che odia le donne e le disprezza. Mirandolina, allora, concepisce un piano di seduzione per farlo crollare e farlo innamorare di lei, con lo scopo di punirlo per il suo disprezzo verso il genere femminile (misoginia).

È presente anche un altro personaggio maschile: Fabrizio. Egli lavora come cameriere alla locanda ed anche lui è follemente innamorato di Mirandolina.

Atto II

Il secondo atto de La locandiera è tutto dedicato alle manovre di seduzione che la protagonista mette in atto per far innamorare il Cavaliere di Ripafratta. Ella decide di ingaggiare due attrici per sedurlo, ma il Cavaliere scopre l’inganno e diventa furioso. Mirandolina finge di piangere e di svenire, facendolo cadere nel suo tranello. Così lo fa innamorare di lei.

Atto III

Il cavaliere si trasforma così in tutto ciò che ha sempre detestato: un uomo asservito ad una donna e offuscato dall’amore. Dichiara il suo amore alla protagonista, che però lo ignora, e si scontra violentemente col Conte, sfidandolo in un duello.

Mirandolina allora ferma i due duellanti e dichiara che sposerà Fabrizio, il fedele cameriere, un uomo buono che anche il padre, prima di morire, le aveva consigliato come marito. Ella promette al futuro sposo che non tenterà più di sedurre gli uomini. Tutti i suoi pretendenti lasciano così la locanda.

Carlo Goldoni
Carlo Goldoni

Commento all’opera

La commedia La locandiera di Carlo Goldoni, è scritta completamente in italiano perché l’autore volle fare in modo che potesse essere compresa senza sforzo dalla gente comune dell’Italia settentrionale e centrale.

L’autore, delineando la figura di Mirandolina, riesce a riscattare l’immagine di servetta che veniva utilizzata nella Commedia dell’Arte. La donna, infatti, è davvero un personaggio complesso, mutevole e decisamente realistico. Ella rappresenta il capolavoro della commedia. È difficile dare un’interpretazione univoca del carattere della protagonista: mentre a prima vista sembrerebbe soltanto una donna crudele, in realtà molti aspetti del suo carattere sono positivi, come il fatto di voler far vincere il suo punto di vista a tutti i costi.

È una borghese semplice che ha il coraggio di rifiutare la proposta di un nobile e sceglie di sposare una persona umile ma onesta. Alla fine, ella stessa rispetta la regola della divisione in classi sociali, evitando pericolose ascese e cambiamenti radicali. La commedia quindi rappresenta un formidabile ritratto di una donna borghese moderna, dalla condotta non proprio irreprensibile. Questa è in sintesi la grande novità del teatro goldoniano, che esce fuori dai canonici schemi di attacco alla nobiltà.

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Intervista a Alberto Cordaro su August Strindberg https://cultura.biografieonline.it/alberto-cordaro-august-strindberg/ https://cultura.biografieonline.it/alberto-cordaro-august-strindberg/#respond Fri, 01 Jul 2016 09:39:15 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18771 Amava rifugiarsi al buio ascoltando il suono dei pianoforti in cerca di sollievo. August Strindberg, uno dei padri – insieme a Ibsen e Cechov – del dramma moderno, un artista completo, nato a Stoccolma nel 1849, dall’anima complessa, attratto dall’essere umano e dall’occulto. È stato il rappresentante della scena artistica tra Ottocento e Novecento, non solo uomo di teatro. Si è dedicato anche alle opere pittoriche, fotografie e testi importanti.

August Strindberg
August Strindberg

Forte fu il suo desiderio di viaggiare per l’Europa. Tale desiderio nacque a seguito della rottura del suo matrimonio con Siri von Essen. August Strindberg aderì, dopo una scambio di missive con Nietzsche, al “superomismo“, rompendo i legami con il positivismo.

Nel frattempo, si sposò con Friede Uhl, dalla quale divorziò; iniziò per lui un periodo di profonda crisi, che lo condusse ad una lucida e visionaria follia. Quindi, si dedicò all’alchimia e all’occultismo. Ristabilito l’equilibrio, si sposò per la terza volta, nel 1901, con Harriet Bosse. Anche questa unione fallì.

Nel 1907 fondò, con Falk, il Teatro Intimo. Pochi anni dopo, nel 1912, Strindberg morì a Stoccolma.

La produzione

Vicende tumultuose e complesse della sua vita, lo portarono a una produzione strettamente connessa ad esse.

Prima il lavoro di telegrafista. Grazie a ciò raccolse i soldi che gli consentirono la prima stesura del Maestro Olof, dramma romantico del 1872.

Quindi, l’adesione al naturalismo. Ciò lo portò alla stesura del romanzo “La camera rossa” (1879). Nell’opera descrisse i circoli intellettuali della Stoccolma di quegli anni.

Le opere teatrali di August Strindberg

Nasce la produzione di racconti “Sogni” e “Sogni II“, in cui protagonista è la donna, prima idealizzata e poi vampiro, che annienta spiritualmente l’uomo. Poi scrive, nel 1886, la sua autobiografia che si intitola “Il figlio della serva“. Idee misogeniste si notano anche nelle opere teatrali di Strindberg: “Il padre”, “Camerati”, “La signorina Giulia” e “Creditori”. Dall’adesione al “superomismo” nascono i drammi come: “Paria” e “Samun” e il romanzo “Sul mare aperto”. Poi la crisi e tra ossessioni e occultismi, nascono “Inferno” e “Leggende”. Recupera un certo equilibrio interiore con lo studio della filosofia di Swedenborg. Così, ritorna alla sua attività drammaturgica: “Verso Damasco”, “Danza di morte”, “Il sogno” e i drammi “Avvento”, “Delitto e delitto” e “Pasqua”. In queste opere trova rifugio nel cristianesimo.

La prima fase della sua produzione si caratterizza dunque per una forte tensione soggettivista, un naturalismo tragico e soggettivo. Nella seconda, si evidenzia una produzione espressionistica. Mentre con “Inferno” si assiste alla sua allucinazione, all’incubo, al sogno.

Intervista ad Alberto Cordaro

Ancora oggi è attualissimo. Nel suo teatro esiste un protagonista con una vicenda interiore.

Ne abbiamo discusso in una intervista con Alberto Cordaro, regista e fondatore del laboratorio espressivo teatrale Labe.

Alberto Cordaro
Alberto Cordaro

D: Qual è l’opera del maestro che più l’ha colpita e perché?

R: Potrei rispondere Danzen danza di morte, perché in essa emergono i tormenti dell’autore e trovo attualissima la visione del disfacimento di certi valori nel genere umano, ma credo che tutta la vita di Strindberg sia un’opera d’arte, fatta di forti contrasti, un chiaroscuro esistenziale che ci ha donato i motivi universali della crisi dell’uomo moderno.

In ogni sua opera, assistiamo a dei passaggi graduali che riflettono la maturazione dell’autore. Da questo Strindberg, trae la concezione del suo “Stationendrama”, ovvero un dramma a tappe.

D: “…forse potrebbe nascere una nuova arte drammatica e il teatro potrebbe tornare almeno ad essere un’istituzione per la ricreazione delle persone colte. Aspettando un siffatto teatro potremo ben scrivere per il cassetto e preparare il repertorio futuro. Io ho fatto un tentativo! Se non è riuscito, ci sarà abbastanza tempo per farne altri!”. Questo è il pensiero di Strindberg tratto dalla prefazione de “La signorina Julie”. Lei cosa ne pensa?

R: Il teatro ha sempre fame di nuovi testi e nuovi repertori da aggiungere ai classici. Credo in un teatro che si rinnova ma, a mio parere, sono fedele alle parole di Giorgio Albertazzi quando dice che non esiste un teatro passato o futuro, il teatro è, non si possono dunque fare delle comparazioni tra forme teatrali e tra scelte degli autori.

Non esiste dubbio che ognuno, in questo meraviglioso ed intricato mondo artistico, debba cercare di contribuire con la propria creatività, senza perdere di vista gli esempi illustri dei grandi maestri.

D: Esiste qualche punto di convergenza tra la sua visione del fare teatro e quella di Strindberg?

R: Anche io nei miei testi cerco di focalizzare l’attenzione sull’aspetto del singolo in relazione alle proprie vicende. Ed in molti casi, creo ambientazioni intime, ovattate alle cose del mondo esterno. Tuttavia, ogni mio personaggio, seppur mosso da tali premesse, trova il suo compimento nella forza dialettica, nell’incontro scontro con gli altri protagonisti.

Strindberg invece, in molti casi, metteva in discussione il dialogo stesso tra i personaggi, trasformandolo in una sorta di narrazione a più voci, riducendo l’interazione, in favore di una forma di dramma a tappe.

D: “Già da un pezzo mi sembra che il Teatro, come l’Arte in generale, sia una «Bibbia Pauperum», una Bibbia con figure per chi non sa leggere né la scrittura né la stampa. Quindi, credo che il drammaturgo sia un predicatore laico che divulga in termini popolari le idee contemporanee, in termini così popolari che il ceto medio, quello cioè che riempie i teatri, può comprendere senza sforzarsi troppo di che si tratta. Il teatro allora è sempre stato una scuola popolare per i giovani…” E’ così come pensava Strindberg secondo lei?

R: Ho sempre pensato al teatro in questi termini, ovvero come missione laica che giunge a lenire le nostre macanze o i nostri non detti.

Del resto, il teatro rapsodico polacco al quale mi ispiro e si ispirava il mio maestro Accursio Di Leo, si fonda su una ricerca della materia umana e sul riappropriarsi da parte degli individui, di una teatralità intrinseca presente in ogni essere umano.

D: Ci parla del Teatro Intimo?

R: Il teatro intimo di Stoccolma è stato per Strindberg un luogo dal duplice valore. Da una parte un luogo fisico nel quale rappresentare le sue opere. Dall’altro un luogo ricco di suggestioni nel quale affondare le tematiche legate al teatro da camera che si focalizza sulla dimensione umana del singolo, in una sorta di analisi psicologica dei personaggi che sulla scena confrontano le loro interiorità.

Ci sono le vicende umane ma ci sono i silenzi e i non detti che fanno sentire il loro peso sulla scena. A mio parere, tutto il teatro parte da uno spazio intimo prima di consacrarsi alla quarta parete.

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Romeo e Giulietta, di Shakespeare https://cultura.biografieonline.it/romeo-e-giulietta/ https://cultura.biografieonline.it/romeo-e-giulietta/#comments Tue, 22 Mar 2016 16:07:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17395 Quando l’amore incontra il teatro, l’anima si fa specchio delle umane passioni, ricongiungendo, almeno nell’illusoria finzione, la storia della propria anima a quella del mondo. La tragedia shakespeariana conosciuta col titolo di “Romeo e Giulietta” (1594), deve gran parte della propria fortuna alla giusta combinazione dei sentimenti umani, nell’audace racconto di una storia d’amore funestata dall’ostilità di un mondo brutale, riportando l’eterna modernità del tema erotico ai tempi di una cultura splendente, ambigua e allo stesso tempo spietata.

Romeo e Giulietta, di Shakespeare (film di Zeffirelli, 1968)
Un bacio tra Romeo e Giulietta, interpretati da Leonard Whiting e Olivia Hussey nel film del 1968 di Franco Zeffirelli.

William Shakespeare (1564-1616) si fece interprete di un mondo complesso, quello elisabettiano, da cui seppe trarre il nucleo drammatico di una storia innovativa non nel motivo ma nell’interpretazione teatrale, rendendo eterne le tragiche sorti dei due giovani protagonisti, eroi indiscussi di ogni cuore infranto.

Romeo e Giulietta, la trama

Il dramma shakespeariano verte sull’angosciante susseguirsi di eventi che si oppongono all’unione dei due innamorati: Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, rampolli delle due famiglie più potenti della città di Verona, vivono la tragedia di un’eterna faida sortita ai danni di coloro che amano; la storia, l’orgoglio dei Montecchi e dei Capuleti conseguirà l’effetto mortale di una punizione, ingiusta ma prevedibile dell’amore negato che genera il sonno eterno.

La storia d’amore sboccerà sotto il segno della sciagura, conducendo con sé il tocco fatale della morte dove era atteso l’amore. L’odio atavico delle due famiglie non impedirà l’incontro tra Giulietta e Romeo e l’organizzazione di un matrimonio segreto, lontano dagli echi irti d’ira e d’odio.

Il matrimonio non avrà mai luogo a causa della rivalsa fatale di Romeo ai danni di Tebaldo, cugino di Giulietta, con cui il giovane Montecchi vendicò il sangue dell’amico Mercuzio. Dopo la fuga di Romeo a Mantova, Giulietta è costretta a sposare un altro uomo.

Per sfuggire alle sorti di una vita lontana dall’amore, Giulietta beve una pozione che le consente di sembrare morta per molte ore. Romeo, non avendo ricevuto la notizia dell’inganno, crede di aver perduto la sua amata per sempre e nel dolore si avvelena. Terminati gli effetti dell’incantesimo, Giulietta si sveglia dal sonno di una finta morte e vedendo il corpo esamine dello sposo segreto, si pugnala, finendo nella tragedia più commovente l’esito dell’umana follia generata dal rancore.

Romeo e Giulietta
Romeo e Giulietta (Leslie Howard e Norma Shearer nel film del 1936 di George Cukor)

Note tecniche e descrittive

“Non vi è nome più celebre nel teatro elisabettiano; non vi è piuttosto, nome più celebre nell’intero mondo elisabettiano. Pure, colui che, agli occhi di tutti, è il teatro elisabettiano, potrebbe per molti aspetti apparire l’autore meno elisabettiano che possa darsi” (ZAZO).

Un’interpretazione, quest’ultima, di una complessità contorta che ben chiaramente lascia intravedere la difficoltà di inquadrare la figura del drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare nel tortuoso girone del teatro elisabettiano, quale passo indispensabile per comprendere la produzione letteraria, nonché i dettagli tecnici di una tragedia in cinque atti che rispose ai requisiti di un’età contraddittoria e in continuo mutamento.

William Shakespeare
William Shakespeare

Shakespeare affrontò i pericoli della sua epoca, navigando, in un tempo in cui per amore o per ventura viaggiatori e pirati cercavan fortuna per mare e per terra, nelle rischiose acque degli affari teatrali, nell’umile quanto lungimirante desiderio di raccontare l’anima elisabettiana attraverso le storie avventurose e tragiche di personaggi storici o germogliati dalla punta di una penna d’oca.

In un clima di gaia e feroce passione per l’esistenza, nell’esuberante e tumultuoso sentimento degli “innamorati della vita, non di una teorica immaginazione [shadow] della vita”, Shakespeare rimase personalmente al riparo dall’ansia per l’avventura e dal gusto per la brutalità tipicamente elisabettiani, pacificando illusoriamente, tramite la nobile arte del teatro, la contraddittorietà di un’epoca ambigua, dove l’angoscia e il rimorso erano strettamente connessi al diletto dell’amore e dell’amicizia. Il senso dell’arte drammatica, come avviene nella somma tragedia “Romeo e Giulietta“, è

“offrire alla natura uno specchio; mostrare alla virtù il suo volto, al vizio la sua immagine, e all’età stessa e al corpo del secolo la sua forma e la sua impronta” (Amleto, III, due).

La simbologia dello specchio era molto comune nel corso del Rinascimento, nei molteplici significati designava l’irrealtà, l’immagine contrapposta alla realtà, che nella produzione drammatica si traduce in degli opposti significativi: vita/teatro, saggezza/pazzia, vita/sogno, sono gli elementi fondamentali e ricorrenti del teatro di Shakespeare.

L’opera “Romeo e Giulietta” di Shakespeare nacque tragedia dal tiepido grembo della poesia, raffigurandosi in un capolavoro quasi totalmente in versi rimati, soprattutto nella prima parte del testo, carica di ricercate metafore e di artifici retorici nella maniera eufuistica.

La tragedia si caratterizza per l’insolita ampiezza dei ruoli femminili e l’antiquata retorica che si riscontra nelle battute dei personaggi più anziani, peculiarità che fanno pensare, come sosteneva il saggista e critico letterario Giorgio Melchiori (1920-2009), che se non altro, in un primo tempo, Shakespeare non fosse sicuro della destinazione del dramma e che si proponesse di

“fornire un testo che potesse essere presentato non solo in un teatro pubblico, ma all’occorrenza, anche a una corte e nei più sofisticati teatri privati; un dramma che anche i “letterati” potessero apprezzare e che si presentasse eventualmente ad essere recitato da quelle compagnie di ragazzi (per esempio i coristi di San Paolo)”

Questi ultimi, capaci di recitare con maggiore verosimiglianza le parti femminili, avevano l’abilità di conferire delle cadenze caricaturali ai personaggi dall’età avanzata.

La prima parte del dramma è resa da una serie di eufemismi dal linguaggio cortese che, diffuso in Italia dal Petrarca, raggiunse l’Inghilterra attraverso i modelli francesi della tradizione sonettistica.

In una prospettiva drammaturgica, la tragedia rivela come Shakespeare sapesse sfruttare abilmente le soluzioni imposte dal teatro elisabettiano: il palcoscenico su cui era recitato il dramma risultava essere in parte scoperto, per le scene previste dal copione in ambientazioni esterne, e coperto, per gli interni e il giardino, con una galleria sul fondo costituente il balcone e un vano interno, utilizzato per rappresentare la tomba e la camera di Giulietta.

La divisione delle scene, che si raffronta nelle edizioni moderne, non compare nell’in-quarto del 1599: un tale accorgimento tecnico, di fatti, non aveva ragione di esistere nella prospettiva di una concezione drammaturgica che sfruttava abilmente il valore convenzionale dei punti del palcoscenico e che affidava il compito scenografico alla parola.

L’edizione del 1599 era priva di divisione in atti, poiché prevedeva una costruzione delle vicende drammatiche per lunghe sequenze, corrispondenti ai giorni in cui si adempie la trama, dunque le vicende di Romeo e Giulietta.

L’opportunità di privare il testo di una scansione in atti conferisce al dramma una meravigliosa potenza teatrale, in una durata scenica calante, tale da comunicare al pubblico la vivacità di un’azione incalzante, cadenzata dalla presentazione e dalla premesse dei personaggi.

Un’altra importante caratteristica del teatro elisabettiano, e di quello shakespeariano, è il “doubling“, in altre parole di affidare ad un attore più ruoli correlati nella stessa interpretazione teatrale, rispondendo alla necessità delle compagnie elisabettiane di ridurre le spese, questo ingegnoso metodo recitativo s’innestava perfettamente alla costruzione teatrale; l’autore doveva dunque essere in grado di operare una precisa e compiuta concatenazione delle entrate e delle uscite di scena dei protagonisti sul palcoscenico, dove

“ad uguale funzione uguale attore; se il pubblico riconosce lo stesso attore nei due personaggi ciò non sarà fonte di confusione od equivoco ma piuttosto arricchirà la sua presenza del significato della vicenda rappresentata” (MELCHIORI).

Il giudizio della critica si rivela interessante nell’ipotesi che, al contrario di quanto avviene nelle grandi tragedie dell’età adulta, la catastrofe finale non è determinata dalla drammaticità dei personaggi, ma dall’infausto susseguirsi di circostanze fatali, permettendo di esibire agli occhi del pubblico la dimensione dolorosa del testo, i cui personaggi, “nati sotto la contraria stella” in un “amore segnato dalla morte“, legano la genesi dell’infausta sorte alla faida terrena tra Montecchi e Capuleti.

Romeo e Giulietta, Leonardo DiCaprio
Un’altro bacio tra Giulietta e Romeo: Claire Danes e Leonardo DiCaprio (allora ventiduenne), nel film di Baz Luhrmann del 1996 “Romeo + Giulietta di William Shakespeare“.

Controversie cronologiche

La prima edizione di “Romeo e Giulietta” risale al 1597: un volumetto in-quarto privo d’indicazioni riguardanti l’autore e l’editore, realizzato mnemonicamente dopo la prima teatrale, indicava sul frontespizio della tragedia “rappresentata pubblicamente dai servitori dell’onorevolissimo Lord Hunsdon“.

La compagnia del Lord Ciambellano, Henry Carey Lord Hunsdon (1526-1596), era stata fondata nell’estate del 1594; con la morte di questi il titolo della compagnia passò a Sir William Brooke, decimo Barone di Cobham (1527-1597) e discendente di Sir John Oldcastle (1360 -1417), il “Sir John Falstaff ” dell'”Enrico IV” (1598) di Shakespeare.

La fedeltà degli attori alla compagnia emerse dalla scelta di rimanere alle dipendenze della famiglia precedente, in altre parole come servitori di Lord George Hunsdon, il figlio del defunto Henry Hunsdon.

In conformità a questi elementi, in passato si soleva congetturare la prima della tragedia con l’anno 1596, ovvero col breve periodo in cui la compagnia era tecnicamente di Lord Hunsdon; ma è più plausibile considerare che lo stampatore facesse riferimento al nome attuale della compagnia che, tra il 1594 e il 1596, aveva assiduamente messo in scena la tragedia di “Romeo e Giulietta“.

Poiché Shakespeare era entrato a far parte della compagnia del Lord Ciambellano dopo la fondazione, la data della prima potrebbe risalire alla fine del 1594; vagliando la considerazione che dal 1592 al 1594 i teatri di Londra furono chiusi per motivi politici e per l’imperversare della peste, è legittimo pensare che Shakespeare ideasse la tragedia amorosa proprio negli anni ardui della sospensione teatrale.

Tale ipotesi sarebbe ulteriormente comprovata dalla presenza di precisi riferimenti storici e dalle caratteristiche stilistiche coerenti con il periodo della produzione, anche se, nel margine indefinito e incerto dell’ipotesi, emergono altri elementi che portano a considerare teorie differenti: J. J. M. Tobin rintracciò nell’opera di Thomas Nashe (1567-1601) dal titolo “Have with You to Saffron Walden” (“Gabriell Harveys hunt is up”) alcune particolari espressioni riscontrabili solo in “Romeo e Giulietta“, dunque in nessun altro lavoro shakespeariano, e alcuni riferimenti che Shakespeare avrebbe usato per l‘ideazione dei personaggi di Mercuzio, di Benvolio, della Nutrice e dei servitori della casa dei Capuleti.

Poiché “Have with You to Saffron-Walden” risale al 1596 si potrebbe dedurre che la tragedia, o parte di essa, fu ideata in quello stesso anno.

Note Bibliografiche
W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

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