strategia militare Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Thu, 14 Dec 2023 11:17:15 +0000 it-IT hourly 1 Come Alessandro I sconfisse Napoleone Bonaparte https://cultura.biografieonline.it/come-alessandro-i-sconfisse-napoleone/ https://cultura.biografieonline.it/come-alessandro-i-sconfisse-napoleone/#comments Thu, 14 Dec 2023 11:17:12 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=41800 Napoleone Bonaparte nella storiografia

La bibliografia su Napoleone e il suo impero è sterminata. Non potrebbe essere diversamente, considerando le implicazioni che l’epoca napoleonica ha avuto per tutta l’Europa. Tuttavia, molti libri che analizzano dettagliatamente la campagna di Russia, in cui Napoleone perse 370.000 uomini dal 1812 al 1814 a causa delle ferite, del freddo e degli stenti, raccontano la sconfitta della Grande Armata ma trascurano o riportano solo marginalmente la complessa struttura organizzativa dell’esercito russo.

Più in generale si suppone che Napoleone abbia perso la guerra a causa del freddo e della non scrupolosa analisi del territorio russo; si analizza la strategia dello zar Alessandro I e dei suoi generali come un’astuta e costante ritirata.

In realtà la storiografia russa, per molto tempo chiusa all’interno dei confini territoriali della ex Unione Sovietica, aveva prodotto mirabili testi che identificavano e analizzavano in dettaglio che tipo di macchina da guerra lo stato maggiore di Alessandro era stato capace di organizzare per contrastare i francesi.

Alessandro I e Napoleone
Lo zar Alessandro I e Napoleone

Alessandro I: analisi superficiali

Inoltre, la figura di Alessandro I spesso è stata considerata più fragile e meno interessante di quella di Napoleone. Il paragone fra i due imperatori stona, in effetti, ma non tanto perché l’imperatore dei francesi sia stato un uomo dal genio militare e politico indiscutibile; quanto perché Alessandro è stato oggetto di un’analisi molto più superficiale.

Negli ultimi anni questa tendenza è cambiata e alcuni saggi si sono concentrati sull’azione diplomatica e militare dei russi, di cui sono stati riconosciuti meriti e capacità. Naturalmente, la campagna di Russia è stata soprattutto raccontata nel suo sviluppo militare mentre non si è scritto abbastanza sull’organizzazione e preparazione della stessa.

Il reclutamento: differenze tra Francia e Russia

Ad esempio, da parte della storiografia inglese e francese si è quasi completamente omesso quale tipo di scelte nel campo del reclutamento delle leve avesse operato lo zar. Infatti, l’esercito francese poteva contare su 600.000 uomini grazie alla coscrizione obbligatoria che impegnava per 25 anni ogni singolo cittadino.

In Russia invece la coscrizione non era così ampia perché i feudatari non volevano privarsi degli schiavi della gleba o trovarsi di fronte, una volta finita la guerra, braccianti e operai militarizzati e che avrebbero potuto creare problemi riguardanti le sommosse o la richiesta di diritti sul lavoro una volta appreso l’uso delle armi e la disciplina militare.

Per questo motivo fu lo zar che, forzando la resistenza del suo stato maggiore e dei suoi consiglieri militari, ebbe la giusta intuizione di cambiare le regole di reclutamento avendo così a disposizione un numero alto di soldati e riserve quando Napoleone decise di invadere la Russia.

L’importanza dei cavalli

Inoltre, uno degli aspetti fondamentali della vittoria dello zar non fu solo la situazione climatica – di certo proibitiva per i francesi impreparati di fronte ad essa – ma fu anche l’utilizzo dei cavalli.

Esistevano all’epoca 25 allevamenti capaci di fornire un numero elevato di cavalli che venivano impiegati a seconda della razza in reggimenti diversi. Questo favorì moltissimo i russi nella guerriglia che sorprese e sconfisse i francesi durante la ritirata.

Vennero utilizzati soprattutto cavalli ucraini capaci di resistere a lunghissime distanze. Mentre nelle battaglie frontali fecero ricorso a razze di cavalli più grandi e robusti per fronteggiare la fanteria e la cavalleria francese.

La Russia e il complesso scenario diplomatico

La preparazione della guerra da parte dell’esercito russo non fu improvvisata ma si giocò su due piani: uno militare e uno diplomatico.

Dal punto di vista diplomatico, Alessandro I dovette lavorare su due contesti differenti, dimostrando intelligenza e lungimiranza: dopo il trattato di Tilsit, in cui la Russia accettava il blocco continentale alle merci inglesi e in cambio otteneva la pace con i francesi e un equilibrio – sebbene precario – delle relazioni internazionali in Europa, l’imperatore di tutte le Russie dovette affrontare una lunga  e complicata strategia della tensione con la sua corte e con molti membri della famiglia imperiale che odiavano a morte Napoleone o che erano preoccupati, e con buoni motivi, che il blocco continentale imposto all’Inghilterra danneggiasse l’economia russa.

In realtà, Alessandro riteneva che la pace con Napoleone fosse essenziale per la riorganizzazione dell’esercito e per poter riformare molte parti del suo governo, appesantito da una burocrazia anacronistica e da posizioni di rendita acquisite dalle famiglie nobiliari che indebolivano la struttura di comando, non premiando il merito ma solo la discendenza di sangue.

L’indipendenza della Polonia

Per riuscire a mantenere un rapporto sul piano diplomatico con l’Inghilterra, al fine di non rompere tutte le relazioni, accettò di far attraccare nei suoi porti alcune navi inglesi con bandiera neutrale e contemporaneamente – per non irritare Napoleone e scongiurare un’invasione che avrebbe avuto conseguenze disastrose per la Russia – mostrò assoluta disponibilità nei confronti dei francesi imponendo che solo la Polonia diventasse uno stato indipendente.

Era infatti proprio questo il problema principale dello zar: che il Ducato di Varsavia e la Sassonia governati dal re sassone alleato di Napoleone potessero costituire uno Stato polacco che avrebbe rappresentato una spina nel fianco dell’impero russo e uno dei ventri molli dei confini imperiali.

Alessandro I e la riforma dell’esercito

Per questo motivo, e per il timore che Alessandro nutriva nei confronti del genio militare dell’imperatore francese e della sua organizzazione militare, lo zar decise una riforma dell’esercito rapida e costosa.

Per realizzare questo progetto nominò Ministro della Guerra Aleksej Arakceev, un uomo duro e disciplinato, con una forte propensione al comando e all’organizzazione.

Arakceev ottenne ampi poteri inimicandosi gran parte della corte, e riuscì a diventare l’unico consigliere militare dello zar.

Aleksej Arakceev

Negli anni in cui si dedicò alla riorganizzazione dell’esercito intervenne soprattutto su alcuni importanti aspetti:

  • attuò una sburocratizzazione delle commesse militari, favorendo società private che fossero rapide ed efficienti nella consegna di moschetti e divise;
  • riorganizzò l’artiglieria con un cambio di ufficiali dalle retrovie alle prime linee e viceversa;
  • istituì scuole di addestramento per i cadetti; aveva rilevato un alto tasso di mortalità e malattie nei reggimenti che arruolavano contadini e servi della gleba a causa dello shock che questi subivano passando dalla vita bucolica alla disciplina dell’esercito;
  • rivide completamente i canali del comando considerando con più attenzione i meriti e con meno benevolenza i legami di sangue.

La sua permanenza non durò molto, soprattutto a causa di un suo errore politico. Ma la sua riforma fu ripresa dai successivi ministri che la portarono ad un livello di evoluzione quasi conclusivo, quando la grande armata di Napoleone entrò in Russia.

Alessandro I e i rapporti con i paesi europei

Le scelte di Alessandro non si limitarono a queste decisioni, assai pericolose (il padre Paolo I fu ucciso da un complotto di corte per molto meno), ma riuscì ad ottenere il pieno appoggio da parte dei nobili alla delicata trattativa che tenne Napoleone lontano dalla Russia per 5 anni.

Nel frattempo, i rapporti con gli altri paesi europei diventavano sempre più difficili, in particolare con l’Austria che, timorosa di perdere il proprio esercito a causa di una forte crisi economica che stava colpendo vari stati europei, premeva per affrontare l’esercito francese.

La politica dello zar, ritenuta da molti contemporanei tiepida al limite della codardia, considerava invece lucidamente un punto essenziale: gli eserciti prussiano, austriaco, inglese e russo assieme non sarebbero riusciti a sconfiggere Napoleone nei territori europei; al contrario un’invasione della Russia avrebbe logorato e indebolito la Grande Armata fino a distruggerla con una guerra tattica che un esercito russo ben armato e rifornito sarebbe stato in grado di sostenere.

La tragedia di Napoleone in Russia, il libro

Appare curioso che solo un libro, uscito nel 2010 e intitolato “La tragedia di Napoleone in Russia”, di Dominic Lieven, abbia ricostruito minuziosamente e con ricchezza di documenti inediti il ruolo del governo di Alessandro I, di cui in questo articolo, peraltro, si presentano solo alcuni aspetti.

Infatti, la storiografia occidentale ha sempre lodato la strategia degli inglesi, la resistenza degli spagnoli e il genio militare di Napoleone considerando la Russia un fortunato partecipante senza strategia ma con un unico, grandioso e implacabile alleato: il clima.

In realtà, sia lo zar che il suo governo, soprattutto dal punto di vista militare, diplomatico e finanziario, hanno condotto un’abile e difficile preparazione alla guerra del 1812 individuando con precisione e umiltà i loro punti deboli e quelli di Napoleone. Hanno costruito una potente macchina da guerra a cui la Storia sta finalmente sta tributando il giusto riconoscimento.

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Campagna di Guadalcanal: riassunto, fatti storici e protagonisti https://cultura.biografieonline.it/campagna-di-guadalcanal/ https://cultura.biografieonline.it/campagna-di-guadalcanal/#comments Sun, 03 May 2020 10:01:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=28550 La Campagna di Guadalcanal ebbe inizio con lo sbarco dei marines nelle isole Salomone Meridionali, il 7 agosto 1942 e terminò il 9 febbraio del 1943, quando gli Americani constatarono che il nemico aveva evacuato l’intero settore. Secondo molti storici, rappresentò il turning point, il punto di svolta, della intera guerra nel Pacifico. Prima di questa campagna il Giappone aveva dettato tempi e modi della guerra, da Guadalcanal in poi l’offensiva fu sempre nelle mani degli Alleati.

Sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Guadalcanal
7 agosto 1942: lo sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Guadalcanal

Giappone e USA: la situazione alla vigilia

Dopo la disastrosa sconfitta a Midway, l’alto comando giapponese era come un pugile alle corde, incapace di reagire ai pugni subiti. Per diverse settimane, lo staff dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto – comandante in capo della Flotta Combinata – non fu in grado di elaborare piani.

Si trattava di un momento delicato: l’irreparabile perdita di 4 delle 6 portaerei della squadra di attacco esigeva un ridimensionamento degli obiettivi, se non proprio il passaggio a una fase difensiva.

Midway: portaerei in fiamme
Midway: una portaerei in fiamme

Di contro, gli americani non erano nella situazione ideale per sfruttare il successo: le loro forze erano ancora troppo deboli, in gran parte a causa della scelta politica sintetizzata nella locuzione Germany first, che privilegiava il teatro bellico europeo nell’assegnazione di risorse per la guerra.

Per ripetere una efficace metafora di dello storico H. P. Willmott, l’iniziativa era come una pistola abbandonata in strada: quale dei due contendenti l’avrebbe raccolta e avrebbe sparato per primo?

Guadalcanal: l’isola e la geografia

Nella parte meridionale delle Salomone giace l’isola che, fino allora sconosciuta, sarebbe diventata teatro di una delle campagne militari più famose e sofferte dell’intera seconda guerra mondiale.

Cartina geografica del teatro del Pacifico - 1942 - con la posizione di Guadalcanal
La cartina mostra l’area geografica del teatro del Pacifico. La grafica mostra i punti delle principali battaglie: Midway, Pearl Harbor, e Mar dei Coralli. Guadalcanal si trova vicino a quest’ultimo punto.

Nell’estate del 1942 Guadalcanal era un appezzamento di terra, per lo più disabitato, lungo circa 150 km e largo al massimo 53. Non era certo un luogo ospitale: le piogge erano frequenti e a carattere torrenziale, la zanzara della malaria molto diffusa e la giungla estremamente fitta. Eppure era stata scelta dal comando giapponese per allestire un aeroporto.

Gli Alleati temevano, con ragione, che questa posizione avrebbe consentito al nemico di minacciare la vitale rotta che collegava Stati Uniti e Australia; lungo tale via venivano indirizzati i mercantili che portavano uomini, armi e munizioni destinati alla difesa della Nuova Guinea e del continente australiano stesso.

Fu principalmente questo timore che indusse l’ammiraglio Chester W. Nimitz, comandante in capo della Flotta del Pacifico, a scegliere l’isola di Guadalcanal come teatro della prima offensiva americana nel Pacifico.

Lo sbarco e la reazione giapponese

L’operazione Watchtower ebbe inizio il 7 agosto, con gli sbarchi preliminari sugli isolotti di Gavutu-Tamambogo, seguiti dall’invasione di Tulagi, dove i giapponesi avevano approntato una base per idrovolanti nel maggio precedente, in occasione della battaglia del Mar dei Coralli.

L'incrociatore della Royal Australian Navy HMAS Canberra e 3 navi da carico al largo di Tulagi (Guadalcanal)
L’incrociatore della Royal Australian Navy HMAS Canberra (D33) al largo di Tulagi, durante gli sbarchi del 7 e 8 agosto 1942. Le navi visibili in lontananza sono tre mezzi da carico che sbarcano uomini e materiale. Sullo sfondo: Tulagi e le isole della Florida, parte delle Salomone.

Entrambe le operazioni incontrarono una resistenza maggiore del previsto, basata soprattutto su efficaci infiltrazioni notturne, tattiche nelle quali il fante nipponico eccelleva. Tutti gli obiettivi vennero comunque conquistati il 9 agosto, non senza la necessità di rinforzi.

Sull’isola di Guadalcanal erano acquartierati 2.230 giapponesi, circa 1.700 dei quali erano operai militarizzati. Alle 9.19 del 7 agosto cominciarono a sbarcare i marines del 1° e 5° reggimento, incorporati nella 1a divisione marines del generale Alexander A. Vandegrift, per un totale di 8.500 uomini.

La resistenza iniziale fu pressoché inesistente e gli americani, già nel primo pomeriggio, si impadronirono dell’aeroporto appena ultimato, che ribattezzarono Henderson Field, trovandovi anche una discreta quantità di materiale abbandonato dal nemico.

Attorno a questo obiettivo venne costituito un perimetro difensivo che sarà poi il teatro delle principali controffensive terrestri giapponesi. I soldati giapponesi, nonché opporsi allo sbarco dei marines, scelsero invece di rifugiarsi nella giungla all’interno dell’isola.

La battaglia di Savo

La reazione del Sol Levante fu affidata all’Ottava Flotta del viceammiraglio Gunichi Mikawa, composta da 5 incrociatori pesanti, 2 leggeri e un solo cacciatorpediniere.

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto, questa squadra ottenne una delle vittorie numericamente più clamorose dell’intera guerra. Nel corso della battaglia di Savo riuscì infatti ad affondare 4 incrociatori pesanti alleati, senza perdere alcuna unità.

Fallì invece nell’obiettivo di localizzare e attaccare i mercantili nemici, ancora alla fonda e impegnati nello sbarco di materiali, e, in ultima analisi, nel conseguire un completo successo strategico.

La distruzione, o anche solo l’allontanamento dei mercantili, avrebbe certamente messo in crisi i marines, riducendo la loro capacità di opporsi alle imminenti controffensive terrestri.

Sviluppo della campagna di Guadalcanal

La campagna si sviluppò da allora secondo un canone ben preciso. Il possesso di Henderson Field garantiva agli americani il predominio dei cieli e, conseguentemente, la possibilità di operare, facendo giungere rinforzi e rifornimenti, alla luce del giorno.

Viceversa, l’oscurità, costringendo a terra gli aerei, andava a vantaggio dei giapponesi, addestrati a combattere di notte e in grado di far giungere, a loro volta, convogli ribattezzati Tokyo Express dagli americani; essi erano composti prevalentemente da cacciatorpediniere che, quasi ogni notte, trasportavano soldati e armi leggere dalle basi nelle Salomone settentrionali a Guadalcanal.

Le principali battaglie

È difficile isolare le singole battaglie perché la storia di Guadalcanal si compone di piccole azioni aeree, navali e terrestri quasi quotidiane.

Entrambe le parti si risolsero a inviare via mare flussi di rifornimenti di dimensioni ridotte per eludere l’opposizione nemica. Inoltre, la morfologia dell’isola si prestava ad incursioni di piccoli reparti.

È forse possibile identificare 6 azioni principali.

  • La battaglia terrestre del Tenaru, 21 agosto, quando il distaccamento Ichiki provò a forzare il perimetro di Henderson Field e venne annientato.
  • La battaglia aeronavale delle Salomone Orientali, 24-25 agosto, originata dal tentativo di eseguire azioni di rifornimento in grande stile; si trattò di uno scontro inconcludente che vide l’affondamento della portaerei leggera nipponica Ryujo e il danneggiamento della USS Enterprise.
  • Il 12 settembre venne combattuta la battaglia terrestre di Edson’s Ridge, nota anche come cresta insanguinata. Fu uno scontro durissimo che sfociò spesso in terribili corpo a corpo. L’offensiva giapponese, che mirava a Henderson Field, venne respinta con gravissime perdite.
  • L’11 ottobre ebbe luogo la battaglia aeronavale di capo Speranza, con bombardamenti navali dell’aeroporto americano che si protrassero fino al 15 ottobre.
  • Al 24 ottobre risale la battaglia di Henderson Field, ultimo serio tentativo nipponico di occupare l’aeroporto nemico. Questa offensiva terrestre coincise con lo scontro aeronavale del 26 ottobre, nota come battaglia delle Isole Santa Cruz.
  • La battaglia navale di Guadalcanal, combattuta nella notte tra il 12 e il 13 novembre. Determinata da un’operazione nipponica di rifornimento e al contempo bombardamento, incontrò l’opposizione di una flotta americana inferiore che venne annientata ma seppe precludere all’ammiraglio giapponese l’esecuzione della sua missione. Ripetuta il 14 novembre, l’operazione fallì nuovamente e questa volta gli americani si aggiudicarono anche il successo tattico.

La fine della campagna

Dopo l’ultimo scontro, il quartier generale giapponese non fu più in grado di organizzare un’offensiva. Di fatto, le perdite subite convinsero soprattutto la Marina che era giunto il momento di accettare la sconfitta.

L’evacuazione di Guadalcanal venne ordinata nell’ultima settimana di dicembre e portata a termine il 7 febbraio del 1943 con perdite modestissime. Due giorni più tardi, il generale Alexander Patch, recentemente nominato comandante delle forze alleate sull’isola, dichiarò conclusa la campagna.

Con la vittoria, gli americani poterono fare di Guadalcanal il punto di partenza delle loro successive offensive, sviluppando l’aeroporto già esistente e costruendone altri. Ma, soprattutto, poterono far tesoro della crescente debolezza del nemico, che non era in grado di compensare le perdite subite.

Gli Americani avevano raccolto la pistola abbandonata per strada, l’iniziativa, e non l’avrebbero più mollata fino alla resa senza condizioni del Giappone.

Bilancio e motivi della sconfitta giapponese

Se le perdite di uomini furono molto superiori per il Giappone, il computo delle navi affondate fu sostanzialmente pari. Nonostante questo, il quartier generale imperiale uscì dalla campagna di Guadalcanal in condizioni di grande inferiorità.

Perché?

Il motivo è presto detto: gli americani erano in grado di far fronte alle perdite subite grazie alle loro capacità industriali, in rapido e imponente aumento, i giapponesi no. Ma non si può tacere che il 7 agosto 1942 era il Giappone a detenere una certa superiorità di uomini e mezzi nel settore.

Quale fu allora il motivo della disfatta?

In primo luogo, è necessario far riferimento a una cattiva pianificazione dello Stato Maggiore nipponico. Per diverse settimane, a Tokyo ritennero che gli americani si fossero insediati a Guadalcanal con forze esigue, sufficienti tutt’al più a una ricognizione su vasta scala.

Da questa erronea convinzione derivarono sconfitte e perdite di uomini e materiali, con offensive lanciate in condizioni di netta inferiorità numerica, confidando anche nella (presunta) superiorità combattiva del soldato nipponico.

Contribuirono alla disfatta anche l’inferiorità qualitativa e quantitativa dei rifornimenti e la mancanza di adeguate strutture sanitarie all’interno dell’esercito che invece sarebbero state necessarie in un ambiente malsano come la giungla di Guadalcanal.

Basti dire che i soldati giapponesi evacuati nel febbraio 1942 erano così emaciati da scioccare i marinai dei vascelli su cui si imbarcarono.

I motivi della vittoria americana

Per parte loro, gli americani incominciarono la campagna con alcuni seri handicap, in primis l’inferiorità nel combattimento navale notturno al quale non erano addestrati, mentre la Marina Imperiale ne aveva fatto uno dei suoi punti di forza.

Seppero però recuperare, grazie a un rapido e intenso ciclo addestrativo e all’imponente produzione che consentì a esercito, marina e corpo dei marines di disporre di abbondanti riserve di materiale; questo nonostante periodi di crisi per la difficoltà di trasferire tanta abbondanza alla prima linea.

Considerazioni finali

Se c’è un aspetto sul quale i due nemici si trovano assolutamente d’accordo, è la durezza della campagna. Guadalcanal fu una tragedia per chi vi combatté perché le condizioni psicologiche e fisiche dei protagonisti furono messe a durissima prova.

Il termine che ricorre più spesso nei resoconti è “inferno”, valga per tutti l’epigrafe che accompagna la tomba di un marine e che recita:

«Quando questo marine si presenterà a Pietro gli dirà: Signore, io ho già servito all’inferno, sono stato a Guadalcanal».

And When He Gets To Heaven, To Saint Peter He Will Tell; One More Marine Reporting Sir, I’ve Served My Time In Hell – (Marine Grave inscription on Guadalcanal, 1942)

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Cecchino: perché i tiratori scelti si chiamano anche così? https://cultura.biografieonline.it/cecchino-etimologia/ https://cultura.biografieonline.it/cecchino-etimologia/#comments Sun, 23 Feb 2020 09:35:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27928 Il cecchino è un tiratore scelto, anche detto “scout” nel gergo tecnico. È un militare addestrato specificamente per colpire con precisione bersagli anche a grande e grandissima distanza.

cecchino
Cecchino: una foto di un fucile di precisione

Etimologia: tiratori scelti dalla metà dell’800

Ci sono due versioni che definiscono l’etimologia della parola “cecchino”. Una è quella che vuole legare il termine al suono che il grilletto fa al momento dello sparare.

Tuttavia, quella più accreditata è una seconda.

Durante il primo conflitto mondiale i tiratori scelti che combattevano in forza all’impero austroungarico furono informalmente definiti “cecchi”.

Questi ragazzi agivano nel nome dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe anche detto “Cecco Beppe”. Da qui, così, il nome di “cecchini” cioè i tiratori di “Cecco”.

Cecchino: celebri film di Hollywood

In lingua inglese e anche per gli americani il termine cecchino si traduce in “sniper”. Le persone che conoscono tale termine sono aumentate di molto nel 2014 quando nelle sale è uscito il film “American Sniper”. Il lungometraggio ha guadagnato un Premio Oscar, ben cinque candidature e sollevato moltissime critiche.

American Sniper, poster del film
Il poster del film American Sniper recita: The most lethal sniper in U.S history (Il più letale cecchino nella storia degli Stati Uniti)

“American Sniper” è uno dei tanti film di Clint Eastwood che racconta una storia basata su fatti reali: la storia è quella vera e spietata di Chris Kyle (nel film interpretato da Bradley Cooper). Kyle è un cecchino scelto dei Marines, impegnato a più fasi nella missione americana in Iraq contro Al-Qaida, a seguito dell’attacco alle Torri gemelle del 2001.

Tra gli altri celebri film di Hollywood che riguardano cecchini ricordiamo “Shooter” del 2007, con Mark Wahlberg e “Full Metal Jacket” del Maestro Stanley Kubrick; in quest’ultimo è presente una celebre scena in cui un cecchino Viet Cong colpisce uno dopo l’altro la squadra di militari americani: i protagonisti riescono con fatica a neutralizzarlo per poi scoprire che si trattava di una ragazzina.

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La battaglia di Waterloo https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-waterloo/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-waterloo/#comments Fri, 06 Feb 2015 14:28:34 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13227 La battaglia di Waterloo (inizialmente nominata dai prussiani come battaglia di Belle-Alliance e dai francesi come battaglia di Mont Saint-Jean) fu una battaglia che si svolse nel corso della guerra della Settima coalizione, il 18 giugno del 1815, tra l’esercito francese guidato da Napoleone Bonaparte e le truppe prussiane del federmaresciallo Gebhard Leberecht von Bluecher, alleate con le truppe britanniche del Duca di Wellington.

Battaglia di Waterloo
La Battaglia di Waterloo ebbe luogo il 18 giugno 1815: fu una delle più cruente battaglie del secolo XIX. Lo scontro ebbe luogo nel territorio di Mont Saint-Jean (Belgio) distante pochi chilometri dalla cittadina di Waterloo.

Il fatto che il termine “Waterloo” sia entrato nell’uso del linguaggio comune come sinonimo di clamorosa sconfitta (subire una Waterloo significa proprio subire una disfatta) fornisce la misura storica dell’evento: si trattò di fatti dell’ultima battaglia di Napoleone, che sancì la sua sconfitta definitiva, cui sarebbe seguito l’esilio a Sant’Elena.

Napoleone_Bonaparte
Napoleone Bonaparte

Il luogo e l’evento storico

Teatro di battaglia, in realtà, non fu la cittadina di Waterloo – dove invece aveva sede il quartier generale del Duca di Wellington – ma il villaggio di Mont Saint-Jean; esso ai tempi faceva parte del Regno Unito dei Paesi Bassi. Lo scontro iniziò all’una di pomeriggio, quando il I Corpo d’Armata dell’esercito francese era in procinto di sferrare un attacco contro La Haie Sainte e Mont Saint-Jean: in quel momento, però, si palesarono 30mila uomini prussiani appartenenti al IV Corpo d’Armata, guidati dal maresciallo von Bluecher.

Arthur Wellesley, I duca di Wellington
Arthur Wellesley, I duca di Wellington

I motivi della sconfitta

I reparti francesi erano preceduti dalla fanteria leggera, che procedeva in ordine sparso fuori dai ranghi, allo scopo di disturbare con tiri di precisione il nemico.

Ogni divisione di Napoleone muoveva con otto battaglioni, posizionati uno dietro l’altro: una formazione non molto efficace, perché permetteva di sparare unicamente a duecento uomini, quelli della prima fila del primo battaglione.

Tra le fila inglesi, invece, i battaglioni erano collocati uno di fianco all’altro, con due linee di fucilieri: in questo modo i fanti britannici riuscivano a sparare senza problemi, così che sui francesi il fuoco provenisse da più parti.

Sui battaglioni francesi, in effetti, si abbatté una bufera di proiettili (una coppia di soldati, di cui uno situato dietro all’altro, riusciva a far fuoco una volta ogni dieci secondi). Benché la potente artiglieria francese avrebbe avuto la possibilità di causare disagi alle file dei fucilieri di Wellington, lunghe ma sottili, tale evento non si verificò perché i britannici si erano schierati dietro il crinale della collina, così da non poter essere visti dalle batterie avversarie: uscirono allo scoperto unicamente nel momento in cui i francesi si trovarono a un paio di centinaia di metri, a tiro di fucile.

La Battaglia di Waterloo in un dipinto di William Sadler II
La Battaglia di Waterloo in un quadro del pittore irlandese William Sadler II

Le colonne di Napoleone, già falcidiate da perdite alquanto sanguinose, non riuscirono a mantenersi compatte (forse, così facendo sarebbero riuscite comunque a scompaginare le linee inglesi), anche perché composte soprattutto da giovani coscritti privi di esperienza, o da uomini troppi in là con gli anni, e quindi non dotati della necessaria prestanza fisica che sarebbe servita per portare avanti la battaglia in maniera proficua.

Nonostante alcune vittorie di scarso rilievo vicino a una cava di ghiaia, le truppe napoleoniche si fecero prendere dal panico, e subirono la carica della Union Brigade di Ponsonby, cui seguì poco dopo quella della cavalleria di Somerset. Sugli sprovveduti transalpini si avventarono anche gli Scots Greys (denominati così a causa del colore dei loro cavalli), che tuttavia si spinsero più in là di quanto fosse necessario: un eccesso che costò caro e che provocò la morte di almeno metà di loro.

La seconda fase della battaglia di Waterloo

Tra le quattro e le cinque del pomeriggio si verificò il secondo avvenimento che mutò in maniera definitiva le sorti della battaglia: guidati dal maresciallo Ney, 5mila tra corazzieri, cacciatori e lancieri francesi partirono alla carica. Un errore grossolano da parte di Ney, che aveva scambiato un arretramento inglese per un segnale di ritirata: invece, quelli che stavano abbandonando il campo di battaglia erano solo i soldati feriti che venivano raccolti dai carri delle munizioni.

L’assalto scatenato da Ney ebbe, quindi, conseguenze disastrose: e se l’impeto dei primi cavalieri fu accompagnato da una enorme ovazione, quando il resto delle cavallerie francesi si scagliò contro gli inglesi pensando di sferrare l’attacco decisivo, si materializzò la fine.

La Battaglia di Waterloo in un dipinto di Henri Felix Emmanuel Philippoteaux
La Battaglia di Waterloo in un dipinto di Henri Felix Emmanuel Philippoteaux: i corazzieri francesi caricano contro i “quadrati” della fanteria britannica.

Dopo la prima ondata di 5mila cavalieri, fu la volta di altri 10mila, ma gli uomini di Wellington si schierarono in quadrati per respingere gli assalti, in modo tale che la fila più esterna di ciascun quadrato fosse formata da uomini in ginocchio con il calcio del fucile radicato in terra, così da sventrare i cavalli; dalle file più interne si sparava invece contro gli uomini.

Fu proprio grazie a questo posizionamento strategico che la fanteria britannica riuscì a difendersi dalla cavalleria avversaria, anche perché i cavalli istintivamente si rifiutavano di calpestare gli uomini: ciò implicava che i cavalieri non potessero puntare direttamente contro i nemici travolgendoli, e così i francesi erano costretti a galoppare intorno agli inglesi sparando con le pistole.

La Battaglia di Waterloo in un dipinto di Denis Dighton - 1816
La Battaglia di Waterloo in un dipinto di Denis Dighton (1816)

Quando, i cavalli francesi furono ormai allo stremo delle forze, subentrò la cavalleria britannica di Uxbridge; essa riconquistò la maggior parte dell’artiglieria che era finita in mani francesi e che i nemici non avevano ancora fatto in tempo a mettere fuori uso. Le possibilità di vittoria di Ney, a questo punto, erano ridotte al lumicino. Nonostante ciò Napoleone non era ancora fuori gioco: poteva contare, infatti, su una decina di battaglioni di granatieri della Guardia che facevano parte della riserva strategica dell’Armata, e che erano composti da veterani scelti di qualità.

La fine della battaglia

Mentre i tamburi della Guardia venivano fatti rullare, Napoleone e i suoi uomini giunsero a 660 metri dalle linee avversarie, con i fucilieri e gli artiglieri inglesi che li aspettavano, nascosti nei campi di grano.

Lo scontro si concluse con un grido che riecheggiò nell’esercito francese: “La garde recule”, cioè “La guardia arretra”. Mentre l’Armata francese esitò per qualche istante, Wellington lanciò il proprio cappello in aria. Fu un segnale immediatamente percepito da 40mila inglesi; essi lasciarono Mont Saint-Jean in direzione della piana dove si trovavano i nemici. Lì la loro formazione venne definitivamente disintegrata.

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