stragi Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Thu, 25 Apr 2024 16:47:49 +0000 it-IT hourly 1 Strage dell’Heysel: 29 maggio 1985 https://cultura.biografieonline.it/strage-heysel/ https://cultura.biografieonline.it/strage-heysel/#respond Thu, 25 Apr 2024 16:13:12 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=41171 Poco prima del fischio d’inizio della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, presso lo Stadio Heysel di Bruxelles, in Belgio, si verifica un gravissimo episodio, passato alla storia come strage dell’Heysel. È il 29 maggio 1985. In quella partita maledetta perdono la vita 39 persone, tra cui 32 italiani. I feriti sono invece circa seicento. È uno degli episodi più tristi della storia del calcio.

La cronaca: ricostruiamo i fatti

C’è molta attesa per il match, soprattutto da parte dei tifosi juventini, che accompagnano la squadra del cuore sperando che possa aggiudicarsi la prima Coppa dei Campioni della carriera.

Il Liverpool invece, campione d’Europa in carica, è intenzionato a ripetere l’ottima esperienza dell’anno precedente, ed è molto carico dopo aver sconfitto facilmente in semifinale la squadra greca del Panathinaikos.

Lo stadio scelto per disputare la partita è l’Heysel di Bruxelles, il fischio di inizio è fissato per le ore 20.15.

L’impianto, ristrutturato una prima volta negli anni Settanta, se valutato oggi sicuramente non rispetterebbe gli standard di sicurezza previsti per una finale europea. Ma quella partita si giocò lo stesso, in condizioni generali alquanto precarie.

Lo stadio

L’Heysel non dispone di vie di fuga adeguate, ed anche il servizio d’ordine fa acqua da tutte le parti.

Le tribune ed il campo di gioco, poi, non sono certo adatti ad una competizione calcistica di alto livello. Per non parlare dei muri divisori dei settori, che si sgretolano in calcinacci che colpiscono gli spettatori. Sono del tutto inadeguati i servizi igienici.

Lo stadio, predisposto per ospitare al massimo 60 mila spettatori, viene riempito con circa 400 mila persone (la maggior parte dei tagliandi viene venduta agli italiani).

I biglietti e le zone

La vendita dei ticket allo stadio viene gestita male, in maniera alquanto approssimativa. Ai tifosi bianconeri sono assegnati i settori M, N, O (posizionati nella zona sud-est dell’impianto), mentre gli Inglesi occupano la curva opposta (zone X e Y).

Il “settore Z”, adiacente a quello degli Ultrà del Liverpool, è separato da semplici reti metalliche, e viene destinato ai tifosi neutrali, ovvero non appartenenti ad un gruppo organizzato.

Sono i tifosi bianconeri ad acquistare la maggior parte dei biglietti, ma l’organizzazione sottovaluta l’eventualità che tra le due tifoserie opposte possa scoppiare qualche tafferuglio o scontro.

Probabilmente entrambe le società ritengono che la situazione possa essere facilmente gestita seguendo le regole burocratiche e il senso di civiltà e rispetto che dovrebbero contraddistinguere qualsiasi evento sportivo.

Gli scontri tra i tifosi

Nelle ore che precedono la partita i tifosi del Liverpool arrivano in città, abusano di alcol e accade qualche scaramuccia, ma nulla di preoccupante. O meglio, niente che lasci presagire la tragedia che sarebbe accaduta dopo, tra gli spalti dello stadio Heysel.

All’apertura dei cancelli i controlli sono pochi e disattenti.

Il settore Z viene occupato per lo più da persone tranquille, famiglie, non solo italiane ma anche di altri paesi, che simpatizzano per la Juventus. Circa seimila tifosi inglesi riescono ad entrare senza biglietto e vanno ad occupare la Curva: insieme a loro ci sono anche alcuni Ultrà del Chelsea, del gruppo Headhunters di estrema destra, particolarmente violenti e facinorosi.

Purtroppo ci sono tutti i presupposti per trasformare un evento sportivo in una tragedia di cui parlare a lungo.

Manca un’ora all’inizio della partita, e gli animi cominciano a riscaldarsi. I tifosi inglesi, molti dei quali entrati ubriachi allo stadio, iniziano a lanciare cori e slogan contro gli juventini.

I settori dello stadio dell'Heysel
I settori dello stadio dell’Heysel

La tragedia

Alcuni Ultras del Liverpool, credendo che i tifosi presenti nel settore Z siano tutti italiani, allo scopo di intimidirli cominciano ad ondeggiare con forza. Dopo tre cariche da parte degli Hooligans, le recinzioni cedono paurosamente.

I poliziotti non riescono a fronteggiare gli Ultras inglesi, che invadono letteralmente lo spazio occupato dagli altri tifosi.

Cominciano i lanci di bottiglie, che colpiscono i tifosi, ferendone qualcuno alla testa.

I tifosi del settore Z, terrorizzati dalla furia degli hooligans, cercando disperatamente di lasciare lo stadio.

I cancelli di uscita in alto dell’impianto sono serrati, e non è possibile raggiungere il terreno di gioco perché i poliziotti lo impediscono a suon di manganellate.

Presi dal panico, i tifosi italiani finiscono con l’asserragliarsi nell’angolo più basso e lontano del settore, schiacciati contro il muro che divide le opposte tifoserie.

Alcuni tentano di lanciarsi nel vuoto, nello spazio che separa il settore Z dalla tribuna. Altri però non ce la fanno, perché vengono raggiunti dalla calca in fuga e restano schiacciati. Ad un certo punto, il muretto crolla. È la strage.

Una pattuglia della polizia belga raggiunge lo stadio Heysel, ma solo dopo mezz’ora. L’impianto ha le sembianze di un campo di battaglia, ci sono morti e feriti ovunque.

La partita

Nonostante l’entità della tragedia, la partita si gioca comunque: si verifica solo un rinvio di un’ora e 25 minuti. Le autorità prendono tale decisione per motivi di ordine pubblico: si teme che i tifosi bianconeri possano rivendicare ciò che è successo.

Pare che i giocatori siano stati obbligati a giocare. Sia la Juventus che il Liverpool non hanno intenzione di scendere in campo, ma l’effetto rinuncia fa paura.

La Juventus vince per 1-0.

Molti ricorderanno per sempre la telecronaca di quella partita maledetta, i surreali festeggiamenti finali, e tutte le polemiche – legittime – che ne seguirono.

Alcune emittenti televisive, come quella tedesca ed austriaca, si rifiutarono di trasmettere la partita.

In Italia Bruno Pizzul, poco prima dell’inizio della telecronaca, rilascia queste dichiarazioni:

Gentili telespettatori, la partita verrà commentata in tono il più neutro, impersonale e asettico possibile.

Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, rimane uno degli episodi più tristi del calcio e dello sport in genere.

Strage dell’Heysel
La targa commemorativa

Lo stadio è stato completamente ristrutturato nel periodo 1994-1995; il suo nome è cambiato ed è stato intitolato a Re Baldovino. Oggi è presente una targa commemorativa con i nomi delle vittime della strage dell’Heysel, a loro imperitura memoria.

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La strage di Bologna del 2 agosto 1980 https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-bologna/ https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-bologna/#comments Wed, 02 Aug 2023 05:43:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=713 La strage di Bologna

Alle 10,25 del 2 agosto 1980 avviene un atto terroristico che non ha precedenti per la giovane democrazia italiana. Una bomba dalla devastante capacità offensiva esplode nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna. La bomba era stata collocata sopra ad un tavolo vicino al muro ovest del locale, un muro portante che esplodendo causò maggiori danni a causa dell’onda d’urto. Il bilancio delle vittime è impressionante: 85 morti e 200 feriti.

Strage di Bologna - Giornale
La Strage di Bologna: prima pagina del Resto del Carlino (quotidiano di Bologna) del giorno successivo, 3 agosto 1980

Dopo l’iniziale shock che non permette subito di capire le cause dell’esplosione (subito si parlò infatti di un incidente tecnico che aveva fatto esplodere una delle caldaie della stazione), i servizi  ospedalieri e di sicurezza della città si attivarono per effettuare i primi soccorsi.

Molti cittadini parteciparono al recupero dei corpi e alla prima assistenza dei feriti. Le ambulanze e le auto di polizia e carabinieri non erano sufficienti per il trasporto dei feriti, per cui furono impiegati anche autobus delle linee cittadine oltre a taxi, auto dei vigili e dei carabinieri e anche auto private.

La città

La zona della stazione fu completamente bloccata e le auto parcheggiate rimosse con velocità, in un clima organizzativo preciso e guidato dalla volontà a fare di tutto per aiutare chi ne aveva bisogno. Nei giorni successivi ci furono molte manifestazioni a sostegno della città e contro gli attentatori, ancora anonimi, e contro gli uomini politici e rappresentanti dello Stato che venivano in città.

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All’epoca il presidente della Repubblica era Sandro Pertini che lo stesso giorno dell’attentato arrivò a Bologna in elicottero: l’unico ad essere accolto dai cittadini con rispetto. Il presidente del consiglio era Francesco Cossiga che negli anni ha dato diverse versioni sulle cause dell’attentato.

Inizialmente, infatti, il governo dichiarò che la causa dell’esplosione doveva essere attribuita a un incidente fortuito, in seguito, però, dopo le prime indagini dei carabinieri e della polizia, fu chiaro che si era trattato di un evento doloso causato da un esplosivo in uso soprattutto ad organizzazioni paramilitari. Le ipotesi si diressero verso strutture terroristiche di stampo fascista.

Tuttavia negli anni Cossiga smentì questa ipotesi dicendo di essere stato mal informato e diede diverse versioni, la più famosa delle quali fu che si trattava di una bomba trasportata da un terrorista palestinese e che esplose per errore in stazione mentre l’uomo stava aspettando un altro treno.

Le ipotesi e le contro ipotesi sull’attentato costellarono tutti gli anni delle indagini e anche dopo la sentenza che dichiarò colpevoli del massacro gli esponenti dei NAR e neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, capi delle strutture combattenti fasciste e compagni di vita.

Entrambi si sono sempre dichiarati innocenti, benché abbiano confessato diversi omicidi e stiano scontando l’ergastolo si sono sempre rifiutati di accettare la versione della magistratura.

Non furono i soli coinvolti nel processo e condannati, ci furono, infatti, anche altri esponenti di destra e uomini dei servizi segreti militari, come Francesco Pazienza del SISMI ed anche il capo della Loggia P2 Licio Gelli, che vennero accusati di aver depistato le indagini. Ma la tesi principale ha sempre visto coinvolti soprattutto loro due.

La stazione di Bologna dopo la strage del 2 agosto 1980
La stazione di Bologna dopo la strage del 2 agosto 1980

Il clima politico dell’epoca

Il clima politico dell’epoca era molto complesso e il rapporto fra i servizi segreti, le forze di polizia, la politica e la magistratura ha costruito un groviglio di indagini complesse e non sempre definitive.

L’Italia in quegli anni si trovava a dover sostenere la politica estera americana in difesa di Israele ma contemporaneamente aveva preso accordi con i Palestinesi affinché, per evitare ritorsioni terroristiche, sul suolo della Penisola potessero transitare armi da e verso l’Europa.

Il fatto quindi che potesse esserci un terrorista palestinese in transito non era del tutto incoerente. Tuttavia per avallare questa tesi non ci furono mai prove certe ma solo alcune evidenze come ad esempio la presenza in città, il giorno della strage, del terrorista Thomas Kram, legato al gruppo diretto dal famigerato Carlos.

La tesi dell’incidente

L’incidente, però, non è una tesi del tutto abbandonata. Recentemente, infatti, la procura di Bologna ha aperto un’indagine contro Kram e Christa Margot Frohlich anche lei del gruppo di Carlos seguendo così la pista palestinese.

Carlos stesso in una recente intervista ha accusato CIA e Mossad dell’attentato al fine di punire l’Italia per il cosiddetto “Lodo Moro”: un accordo segreto stipulato con Arafat per permettere il transito di terroristi palestinesi su suolo italiano in cambio di immunità da attentati contro le nostre città.

Per molti le cause della strage sono ancora ignote e, malgrado spesso si sia parlato più volte anche del coinvolgimento diretto dei nostri Servizi Segreti, le ombre e gli omissis sono purtroppo ancora troppi.

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Ai quindici di Piazzale Loreto, poesia di Quasimodo: testo e commento https://cultura.biografieonline.it/quindici-piazzale-loreto-poesia-quasimodo/ https://cultura.biografieonline.it/quindici-piazzale-loreto-poesia-quasimodo/#comments Wed, 21 Sep 2022 12:45:43 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40285 La poesia Ai quindici di Piazzale Loreto non è una delle più famose dell’autore siciliano Salvatore Quasimodo, tuttavia rappresenta al meglio l’impegno civile del poeta dopo aver vissuto l’esperienza della Seconda guerra mondiale. La lirica fa parte della raccolta Il falso e vero verde, pubblicata nel 1956.

Quasimodo dedica la sua poesia ai quindici partigiani fucilati dai fascisti il 10 agosto 1944 in Piazzale Loreto a Milano; dopo la loro fucilazione, i cadaveri furono esposti sotto il sole per tutta la giornata e lasciati agli insulti dei passanti.

Strage Piazzale Loreto Milano - 1944

Solo dopo la guerra sul luogo della strage venne eretto un piccolo ceppo commemorativo, sostituito nel 1960 da un vero e proprio monumento che raffigura un martire e riporta l’elenco delle quindici persone fucilate.

Piazzale Loreto - Monumento ai martiri
Piazzale Loreto, Milano: Monumento ai martiri • scultura di Giannino Castiglioni a ricordo della strage del 10 agosto 1944

L’autore, Salvatore Quasimodo

Quasimodo è stato uno degli autori più importanti del Novecento italiano; nacque a Modica nel 1901. Egli lavorò presso il Ministero dei Lavori pubblici e grazie a quest’impiego si trasferì prima a Firenze, dove entrò in contatto con Elio Vittorini e con l’ambiente ermetico della rivista «Solaria»; in seguito si trasferì  a Milano, dove lavorò come giornalista e scrittore.

Venne poi nominato professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica di Milano.

Nel 1959 vinse il Premio Nobel per la Letteratura.

Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo

Per le prime fasi della sua produzione, egli si accostò all’Ermetismo: le sue prime raccolte poetiche, come Acqua e terre, Oboe  sommerso, Ed è subito sera appartengono proprio a questa corrente, molto vicina al simbolismo francese, che si caratterizza per la concentrazione formale e l’utilizzo di simboli.

Durante la Seconda guerra mondiale, il poeta iniziò ad interessarsi all’uomo e ai suoi problemi, quindi decide di dedicarsi all’impegno civile per ridare agli uomini la speranza di un futuro migliore. A questa fase appartengono le raccolte:

  • Giorno dopo giorno;
  • La vita non è sogno;
  • Il falso e vero verde;
  • La terra impareggiabile;
  • Dare e avere.

Ai quindici di Piazzale Loreto (testo)

Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano :
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.

Parafrasi del testo

Esposito, Fiorani, Fogagnolo, Casiraghi, chi siete voi? Siete nomi, ombre?

Soncini, Principato, Temolo, Vertemati, Gasparini?

Siete stati uccisi come foglie di un albero insanguinato, Galimberti, Ragni, voi, Bravin, Mastrodomenico, Poletti?

O sangue che nutre la terra e alimenta la speranza di una rigenerazione dopo il fascismo.

Le vostre ferite provocate dai fucili ci umiliano: è passato troppo tempo.

La morte pende dalle bocche, le bandiere esposte dagli occupanti nazifascisti sulle vostre case chiedono la morte.

(I nazifascisti) Si credono vivi ma anche loro temono la morte.

Noi poeti non scriviamo cose tristi, non vegliamo le vostre tombe con le lacrime, la morte non è più un’ombra quando è vita (la poesia deve celebrare la rinascita e non deve essere solo occasione di pianto).

Spiegazione e commento

La guerra ha cambiato per sempre il modo di fare poesia di Quasimodo: dall’astrattezza dell’Ermetismo, egli passa ad una poesia impegnata, utilizzando un linguaggio più concreto e discorsivo, per impegnarsi nella società e denunciare le ingiustizie.

La lirica Ai quindici di Piazzale Loreto infatti è dedicata ai partigiani uccisi dai fascisti: essi erano detenuti semplicemente perché partigiani; il giorno del 10 agosto vennero condotti in piazzale Loreto e fucilati come rappresaglia ad un attentato compiuto ad un camion tedesco.

I loro corpi vennero lasciati tutto il giorno esposti al sole e restituiti alle loro famiglie solo al calar della sera.

L’autore elenca tutti i nomi delle persone assassinate affinché essi non siano dimenticati, e li inserisce in frasi interrogative ricche di pathos.

La lirica è composta da 19 versi in prevalenza endecasillabi e il tono è epico, ricco di drammaticità.

È da sottolineare la presenza dello straniero, come nella poesia Alle fronde dei salici, e della bandiera (v. 14), posizionata anche sulla casa dei morti e simbolo dell’occupazione nazifascista.

Tra i versi 12 e 19 ricorre ben quattro volte la parola morte, anafora che sottolinea il tema centrale della poesia.

Si trova poi una sinestesia al v. 5-6: foglie di un albero di sangue.

Il messaggio finale, positivo

La poesia “Ai quindici di Piazzale Loreto” si conclude tuttavia con un messaggio positivo: l’affermazione finale infatti delinea l’importanza di scrivere poesie di impegno civile. Esse non devono essere solo un’occasione di tristezza e pianto ma devono rappresentare un canto di rinascita dopo gli orrori della guerra.

Questo è il messaggio che il poeta vuole lasciare ai posteri: non bisogna dimenticare di avere fiducia nel futuro.

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Olindo Romano e Rosa Bazzi: la strage di Erba https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-erba/ https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-erba/#comments Sun, 19 Dec 2021 14:22:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2001 La strage di Erba

L’11 dicembre del 2006 a Erba, in provincia di Como, vengono uccisi a colpi di spranga e di coltello Raffaella Castagna, di trent’anni, suo figlio Youssef Marzouk, di due anni, sua mamma Paola Galli, di sessant’anni, e Valeria Cherubini, vicina di casa di cinquantacinque anni. La strage si verifica all’interno di un appartamento situato in una corte restaurata, in pieno centro cittadino, e coinvolge anche Mario Frigerio, di sessantatré anni, marito della Cherubini, che, dopo essere stato accoltellato alla gola, riesce a salvarsi solo in quanto creduto morto dagli assassini. Al termine della strage, all’appartamento viene dato fuoco.

Olindo Romano e Rosa Bazzi, responsabili della strage di Erba - o massacro di Erba
Olindo Romano e Rosa Bazzi, responsabili della strage di Erba (o massacro di Erba)

Le persone incriminate

La Suprema Corte di Cassazione il 3 maggio del 2011 ha riconosciuto definitivamente come colpevoli e responsabili della strage Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi, sposati, vicini di casa delle vittime: la coppia è stata condannata all’ergastolo (più tre anni di isolamento diurno) con sentenza della Corte d’Assise di Como del 26 novembre 2008; sentenza che è stata poi confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano il 20 aprile del 2010.

Riassunto dei fatti

È la sera dell’11 dicembre del 2006, quando i Vigili del Fuoco della sezione di Erba sono chiamati a intervenire, intorno alle otto e mezzo di sera, in via Diaz 25, all’interno di una vecchia corte, dove, in uno degli appartamenti che la costituiscono, è divampato un incendio e le fiamme si stanno sviluppando con una certa velocità. I primi pompieri che entrano nella casa si accorgono immediatamente della presenza di quattro cadaveri, ma anche di una quinta persona – Mario Frigerio, appunto – che, seppur gravemente ferita, è ancora viva: Frigerio viene quindi trasferito all’Ospedale Sant’Anna di Como (vi rimarrà in coma per quasi un mese).

I corpi senza vita sono quelli di Raffaella Castagna, Paola Galli, Valeria Cherubini e Youssef Marzouk. Raffaella, disoccupata di trent’anni, che presta volontariato in una comunità per le persone disabili, è stata prima colpita violentemente con una spranga, quindi accoltellata per dodici volte e infine sgozzata. Fatali sono state le coltellate anche per Paola Galli, madre di Raffaella e casalinga, e per Valeria Cherubini, commessa e vicina di casa delle prime due, che era accorsa dopo aver sentito urla e schiamazzi per prestare aiuto. Una sola coltellata, indirizzata alla gola, è stata sufficiente anche per porre fine alla vita di Youssef, il figlio di Raffaella di appena due anni e tre mesi.

Mario Frigerio, giunto insieme alla moglie per verificare cosa stesse accadendo, è stato invece picchiato e quindi accoltellato, ma una malformazione congenita alla carotide gli ha permesso di salvarsi, evitando che perdesse troppo sangue.

Azouz Marzouk

Le indagini relative alla strage vengono prese in carico da Alessandro Lodolini, procuratore di Como, e inizialmente si concentrano su Azouz Marzouk. Marito di Raffaella e padre di Youssef, Marzouk, nato a Zaghouan, in Tunisia, il 28 aprile del 1980, ha numerosi precedenti penali per spaccio di droga, e solo grazie all’indulto è uscito di prigione. I primi pesanti sospetti degli inquirenti e dell’opinione pubblica si concentrano su di lui, ma vengono presto fugati quando si scopre che, al momento dei fatti, l’uomo si trovava in Tunisia insieme con i genitori.

Azouz Marzouk
Azouz Marzouk

Gli inquirenti, in effetti, confermano il suo alibi (Marzouk, una volta venuto a conoscenza della strage, torna in Italia il più in fretta possibile e viene interrogato dalle forze dell’ordine), e quindi si dedicano ad altre piste: quella battuta con una certa insistenza riguarda un probabile regolamento di conti da parte di qualche nemico nei confronti di Marzouk. Le indagini, però, arrivano a una svolta il 9 gennaio del 2007, a meno di un mese dalla strage. Dopo un lungo interrogatorio, infatti, vengono arrestati Olindo Romano e Rosa Bazzi, vicini di casa delle vittime.

Rosa e Olindo

I due coniugi (lui è un netturbino, lei è una domestica) vengono ritratti da chi li conosce come una coppia fin troppo riservata, chiusa in se stessa: marito e moglie, secondo le descrizioni raccolte dai carabinieri, sono attaccati l’uno all’altra in maniera addirittura morbosa.

Secondo alcuni familiari di Rosa Bazzi, addirittura, la donna sarebbe stata vittima di violenza sessuale quando era una bambina di dieci anni, per opera di un parente, ma non avrebbe mai ricevuto alcun sostegno psicologico o alcuna assistenza dopo questo avvenimento. Al di là di questo, in ogni caso, nel passato dei due coniugi si riescono a rintracciare ben pochi elementi degni di nota, se non una querela sporta, all’inizio degli anni Ottanta, dal padre e dal fratello di Olindo nei confronti dell’uomo, dopo una rissa nata per motivi familiari. Nel momento in cui vengono arrestati, comunque, Rosa e Olindo non hanno più rapporti con nessuno dei familiari più stretti, e questo contribuisce ad aumentare il loro isolamento.

Le prove contro i coniugi Romano sono diverse: le più importanti sono le tracce del Dna di Valeria Cherubini rintracciate dagli uomini dei Ris di Parma nella Seat Arosa dell’uomo, che viene imputato di omicidio plurimo pluriaggravato, mentre la donna è accusata solamente di concorso. Sarà Mario Frigerio, una volta svegliatosi dal coma e ristabilitosi dalle profonde ferite, a indicare che anche Rosa ha preso parte alla strage in prima persona in maniera attiva.

Il movente

Il movente degli assassini viene individuato nelle frequenti discussioni che vedevano protagonisti i Romano e Raffaella Castagna, colpevole di fare troppo rumore e disturbare la quiete dei vicini: diverbi che si erano trasformati in una vera e propria lite andata in scena la notte del Capodanno del 2005, con conseguente causa civile tra le parti. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, quella sera Olindo e Rosa avrebbero aggredito e picchiato Raffaella, che quindi li aveva denunciato per lesioni e ingiurie. Raffaella si era mostrata disponibile a ritirare la querela in cambio di un risarcimento economico, ma l’offerta era stata rifiutata dai coniugi Romano: proprio due giorni dopo la strage avrebbe dovuto tenersi un’udienza della causa civile.

Dopo aver tentato di difendersi, sostenendo di aver passato la serata a Como in un McDonald’s (mostrano anche uno scontrino per avvalorare la propria tesi, ma lo scontrino segna un orario avanti di due ore rispetto al momento della strage), finalmente l’11 gennaio del 2007 Olindo Romano e Rosa Bazzi, davanti ai magistrati Simone Pizzotti, Alessandro Lodolini, Antonio Nalesso, Mariano Fadda e Massimo Astori, confessano di essere gli esecutori materiali della strage, gli assalitori: i due descrivono ogni singola azione da loro compiuta, e il loro racconto non sembra lasciare spazio a dubbi. Per esempio, i risultati dell’autopsia confermano la descrizione di un fendente scagliato dal basso verso l’alto contro la coscia di una delle vittime, utilizzando una lama di piccole dimensioni.

L’udienza preliminare

Il 10 ottobre del 2007, tuttavia, Olindo Romano, di fronte al giudice per l’udienza preliminare cui spetta il compito di decidere se iniziare oppure no il processo, ritratta completamente la propria confessione, e si professa innocente: la stessa cosa fa anche la moglie Rosa, suscitando la disapprovazione dei parenti delle vittime, che si ribellano in aula. Mentre il giudice si trova obbligato a sospendere la seduta, l’accusa, per bocca del pubblico ministero Massimo Astori, giudica la novità come una semplice strategia difensiva. Azouz Marzouk chiede addirittura la pena di morte per i due colpevoli; due giorni dopo, il 12 ottobre 2007, arriva il rinvio a giudizio per Rosa Bazzi e Olindo Romano.

La prima udienza

Il 29 gennaio del 2008 va in scena la prima udienza: una vasta folla si accalca fuori dal tribunale (curiosi, giornalisti, parenti e conoscenti delle vittime), ma nell’aula di giustizia vengono fatte entrare solamente sessanta persone. I giornalisti, in particolare, vengono fatti sedere in una sala che è collegata con l’aula via video, e le uniche telecamere concesse sono quelle di “Un giorno in pretura”, trasmissione di Rai 3 che tuttavia potrà mostrare le immagini solamente dopo la sentenza. I coniugi Romano, durante le varie udienze, si mostrano sereni e attaccati l’uno all’altro; non di rado si scambiano sorrisi ed effusioni, anche nel momento in cui in aula vengono mostrate le immagini del corpo senza vita del piccolo Youssef.

Un colpo di scena accade il 18 febbraio del 2008, quando Romano accusa i carabinieri che avevano gestito il suo interrogatorio di averlo indotto a confessare con l’inganno, facendogli il lavaggio del cervello e promettendogli, in cambio di una confessione fasulla, la liberazione della moglie e solo pochi anni di carcere per lui. Nel frattempo le udienze proseguono, e a testimoniare vengono chiamati anche altri vicini di casa della coppia, che parlano di un vero e proprio clima di terrore instaurato nella corte dai Romano, tra minacce verbali, lettere di avvocati, lanci di vasi in direzione degli altri terrazzi e furiose litigate.

In effetti, non di rado in occasione di questi fatti erano state chiamate a intervenire le forze dell’ordine, e addirittura alcune famiglie avevano preferito cambiare casa pur di non vivere più quell’atmosfera di tensione. Una vicina di casa, nello specifico, racconta che poco tempo prima che la strage fosse messa in atto Olindo Romano le aveva mostrato diverse pagine scritte a mano da lui in cui erano presenti minacce e insulti verso la famiglia di Raffaella Castagna, chiedendole di dattilografarle per lui.

Mario Frigerio, sopravvisuto alla strage di Erba
Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage di Erba

Il testimone oculare

Il 26 febbraio del 2008, dopo che i legali della difesa hanno provato a dimostrare che il giorno della strage in casa di Raffaella Castagna era presente un estraneo, Mario Frigerio, l’unico testimone oculare della vicenda (oltre che, naturalmente, persona coinvolta in prima persona), conferma la responsabilità dei coniugi Romano: l’autore della strage è Olindo, e con lui c’era “una donna, quasi certamente Rosa Bazzi”. La tensione in aula è piuttosto palpabile, e tra accusa e difesa ci sono scambi di parole piuttosto gravi: dopo che gli avvocati di Romano rivolgono a Frigerio alcune domande finalizzate a mettere in discussione la sua credibilità, accreditandolo come un testimone non attendibile, Frigerio definisce Romano “un assassino” e urla “Vergognatevi” ai legali della difesa. L’udienza viene sospesa dal giudice.

L’attenzione mediatica per la strage di Erba

Sulla vicenda, naturalmente, l’attenzione dei mass media non accenna a placarsi, e addirittura viene realizzata dal programma di Canale 5 “Matrix” una fiction dedicata agli avvenimenti dell’11 dicembre 2006, chiamata “I giorni dell’odio”. Poco dopo, Olindo Romano conferma di essere stato ingannato dai carabinieri durante gli interrogatori, e rivela, con una dichiarazione spontanea, di avere ricevuto un pessimo trattamento nel carcere di Como.

Inizia così un rimpallo di dichiarazioni in contrasto tra loro: Rosa Bazzi, intenzionata in un primo momento a parlare, decide di rinunciare in quanto (secondo gli avvocati che la difendono) è rimasta turbata dalle accuse che Frigerio le ha rivolto. I carabinieri, poi, confermano che Rosa e Olindo avevano confessato gli omicidi in quanto desiderosi di liberarsi la coscienza (e le registrazioni trasmesse in aula lo confermano). Rosa, quindi, cambia idea e parla: nel corso della deposizione rilasciata nell’udienza del 3 marzo 2008 spiega di aver confessato il delitto in quanto le erano stati promessi gli arresti domiciliari.

La donna, inoltre, smentisce qualsiasi litigio avuto con Raffaella Castagna, sostiene di non essere mai andata a casa sua e di aver spesso cercato di aiutarla quando era in situazione di bisogno. Tutte queste circostanze, però, vengono smentite, tra l’altro, da alcuni conoscenti di Raffaella, che parlano di un pedinamento da parte dei Romano proprio pochi giorni prima degli omicidi.

Rifiutata la richiesta di spostare il processo lontano da Como (richiesta inoltrata dalla difesa secondo il cosiddetto legittimo impedimento, in quanto i mezzi di comunicazione del posto avrebbero messo in mostra un comportamento ostile verso gli imputati), il processo prosegue con la trasmissione in aula della registrazione della prima dichiarazione rilasciata da Mario Frigerio, che, ancora ferito gravemente in ospedale, descriveva la dinamica dei fatti accusando Olindo Romano.

L’opera di ostruzionismo della difesa prosegue, con la richiesta di ricusazione dei giudici (la motivazione è che essi avrebbero un pregiudizio verso la coppia di imputati), e si verifica una nuova sospensione del processo.

La Cassazione

La Corte di Cassazione, quindi, a novembre rifiuta la ricusazione dei giudici, e le udienze possono ricominciare: in aula il 17 novembre 2008 il pubblico ministero Massimo Astori ripercorre, nella sua requisitoria, tutte le tappe e gli avvenimenti, con tanto di esibizione delle prove contro i Romano. Il pm parla apertamente di “viaggio nell’orrore” e di uno dei crimini più atroci nella storia del nostro Paese, e pertanto chiede per i coniugi il massimo della pena: ergastolo senza attenuanti e in più tre anni di isolamento diurno. Due giorni dopo Olindo parla ancora, e sostiene di aver interpretato la parte del mostro appositamente: la sua sarebbe solo una recita, come confessato a uno psichiatra, e come confermano le frasi scritte su una Bibbia che possiede, dove si possono leggere poesie, dichiarazioni d’amore per Rosa e invettive e ingiurie contro le vittime.

Mentre le parti civili richiedono un risarcimento complessivo di otto milioni di euro, la difesa chiede l’assoluzione o in alternativa una perizia psichiatrica.

Di nuovo Marzouk

Nel frattempo in tutta la vicenda si intrecciano anche i problemi giudiziari che stanno coinvolgendo Azouz Marzouk, finito nuovamente in carcere per spaccio di droga. Mentre va in scena l’udienza del 24 novembre, infatti, il tunisino, dal carcere di Vigevano in cui si trova dopo essere stato arrestato, invia un fax in cui riferisce di una visita ricevuta da alcuni suoi parenti in Tunisia: in pratica, uno sconosciuto avrebbe riferito di conoscere i veri autori della strage, che non sono i Romano.

Secondo il pubblico ministero, tuttavia, queste dichiarazioni non sono degne di nota, e hanno come unico scopo quello di ritardare l’esecuzione del provvedimento di espulsione che pende sul capo di Marzouk (e che sarà attuato nel mese di gennaio del 2009).

Strage di Erba: la sentenza

Il 26 novembre del 2008 arriva la sentenza di primo grado, pronunciata dalla Corte d’Assise. Alla famiglia Frigerio spetta un risarcimento di 500mila euro, a Marzouk un risarcimento di 60mila euro e ai genitori di Marzouk un risarcimento di 20mila euro. I coniugi Romano, invece, vengono condannati all’ergastolo e a tre anni di isolamento diurno come misura afflittiva supplementare: le richieste del pm sono state interamente accolte.

La sentenza della strage di Erba viene confermata dalla Corte d’Appello il 20 aprile 2010, e anche il ricorso in Cassazione presentato dalla difesa non cambia l’esito del processo: il 3 maggio 2011, Olindo Romano e Rosa Bazzi vengono riconosciuti definitivamente come i responsabili della strage di Erba.

L’uomo sta scontando la pena nella casa circondariale di Opera, mentre la donna si trova rinchiusa nel carcere di Bollate.

Mario Frigerio è morto a causa di un tumore nel mese di settembre del 2014.

Aggiornamenti: 2024

All’inizio del 2024 arriva un nuovo sviluppo. La Corte d’appello di Brescia, in qualità di giudice della revisione, dà il suo sì all’istanza di revisione del processo: si tornerà in aula il 1° marzo 2024 per discuterla.

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Disastro del Vajont. Storia di una strage annunciata https://cultura.biografieonline.it/vajont-disastro-diga/ https://cultura.biografieonline.it/vajont-disastro-diga/#comments Tue, 23 Jul 2019 08:41:34 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26690 Una frana colpì la diga che provocò un’onda devastante

Uno dei disastri naturali più gravi che si verificarono nel Novecento in Europa è quello ricordato come Disastro del Vajont. La valle del Vajont è un territorio che si trova al confine tra il Friuli Venezia Giulia e il Veneto. La sera del 9 ottobre 1963 una frana fece esondare la diga del Vajont, provocando la morte di circa 2.000 persone e danni ingenti.

Diga del Vajont - Disastro del Vajont - Strage del Vajont
La diga dove del Vajont oggi

L’intera cittadina di Langarone fu interamente rasa al suolo dalla potenza distruttiva della frana. Tale forza fu ritenuta simile a quella di uno “tsunami”. Sparirono altre cinque frazioni circostanti: i terrazzamenti per l’agricoltura vennero distrutti; circa il 30% del patrimonio zootecnico si estinse.

La frana, colpendo la diga e spazzando via tutto ciò che trovò sul suo cammino, sconvolse profondamente l’intero assetto del territorio del Vajont.

Prima del disastro del Vajont: il progetto di costruzione della diga

Se proviamo a ricostruire la storia della costruzione della Diga del Vajont ci accorgiamo che, come molti ritengono, quella del 1963 è stata una tragedia “annunciata”. Nel 1929, in seguito ad un sopralluogo effettuato da due tecnici esperti, la Valle del Vajont fu ritenuta idonea per poterci costruire un bacino idroelettrico. Esso sarebbe stato gestito da SADE (Società Adriatica di Elettricità).

Nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, il progetto della diga del Vajont fu approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici – nonostante il procedimento di approvazione fosse palesemente irregolare. Ma c’era un conflitto mondiale in atto e quindi la cosa passò facilmente in secondo piano.

Furono aperti diversi cantieri nel 1957 per dare il via alla costruzione dell’imponente diga. Questi erano gli anni del cosiddetto “miracolo economico”: la gente rimase colpita dal fatto che per quell’opera pubblica venissero impiegate circa 400 persone.

Le città dell’Italia del Nord (soprattutto quelle dell’asse industriale) si stavano sviluppando assai rapidamente, e l’energia elettrica era diventata una necessità impellente. Proprio per tale motivo, ad un certo punto la SADE decise di apportare un ampliamento rispetto al progetto originario, in modo tale da realizzare la diga più alta del mondo (ben 266 metri di altezza!), che fosse capace di contenere al suo interno 115 milioni di metri cubi di acqua!

Erto e Casso: i timori dei cittadini

Nei pressi della diga sorgevano due paesi, Erto e Casso. I cittadini erano piuttosto allarmati a seguito della costruzione della diga, e lo furono ancora di più quando, nel 1959, a pochi chilometri di distanza, una frana colpì la diga di Pontesei.

L’incidente provocò la morte di un operaio della SADE. In realtà, tutti erano a conoscenza che la diga del Vajont era stata costruita in un territorio ad altissimo rischio di terremoti, frane ed eventi naturali analoghi. Ma, come succede spesso (purtroppo) gli interessi privati hanno prevalso anche sulle regole di buon senso e sicurezza.

Gli abitanti di Erto e Casso, riunitisi in un comitato, percepivano da tempo rumori e segnali inquietanti, che facevano pensare all’arrivo di una frana: proprio di tali sospetti misero al corrente la giornalista dell’Unità Tina Merlin, che scrisse più di un articolo sull’argomento, denunciando il comportamento della SADE che mirava soltanto a salvaguardare i propri ingenti affari.

SADE accusò la giornalista di diffondere notizie false e tendenziose: Tina Merlin fu però assolta tempo dopo dal Tribunale di Milano. I timori (ritenuti per lo più infondati) dei cittadini dei paesi circostanti la diga del Vajont, cozzavano con il clima di grande sviluppo economico che l’Italia come Paese stava vivendo in quegli anni.

La S.A.D.E. è una specie di “Stato nello Stato”, fanno quello che vogliono!

Tina Merlin, dal film “Vajont” (2001, interpretata da Laura Morante, regia di Renzo Martinelli)

La diga del Vajont era considerata un’opera pubblica di cui andare orgogliosi, fatta costruire da esperti dell’ingegneria italiana; quindi nessuno (o quasi) pensava ad un eventuale disastro naturale di una portata distruttiva come quello che poi avvenne. Infatti, anche dopo il strage del Vajont, c’è chi sottolineò il fatto che la diga, nonostante la frana fosse caduta con una violenza inaudita, era rimasta miracolosamente in piedi.

La costruzione della diga di Vajont avvenne proprio nel periodo in cui cominciava a profilarsi la nazionalizzazione dell’energia elettrica (e la contemporanea nascita dell’ENEL).

Perizie e controlli della SADE 

In seguito alla frana che colpì la vicina diga di Pontesei, i tecnici della SADE attuarono una serie di perizie, test e sopralluoghi per verificare la sicurezza dei luoghi. Sul monte Toc, nel territorio del Vajont, fu individuata una “paleofrana”; mentre nel 1962 (appena un anno prima del disastro) la SADE accertò che la diga era stata costruita su un un’area a rischio.

Ala fine del 1962 la diga diventò di proprietà dello Stato italiano in seguito alla nazionalizzazione dell’industria elettrica.

Intanto i segnali di un disastro naturale imminente diventavano sempre più inequivocabili anche a Longarone, la cittadina che il 9 ottobre 1963 fu rasa al suolo dalla furia della frana.

Il monte Toc e la zona della frana che provocò il disastro del Vajont
Il monte Toc e la zona della frana che provocò il disastro del Vajont

Il disastro e la strage: le dinamiche e le conseguenze

Sono le ore 22.39 del 9 ottobre 1963 quando un blocco di terra di grandissime dimensioni si stacca dal Monte Toc provocando una frana che precipita ad una velocità di 100 chilometri orari, colpendo il lago artificiale.

L’impatto provocò onde gigantesche di circa 250 metri, una delle quali raggiunse Casso ed Erto, che per fortuna non furono intaccati.

La seconda onda raggiunse la città di Longarone spazzandola via completamente. A perdere la vita furono oltre 1.900 persone, delle quali soltanto 750 riuscirono ad essere identificate.

Il giorno dopo, il 10 ottobre, la cittadina apparve ricoperta da un’immensa distesa di fango. L’allerta per un’altra eventuale frana portò gli abitanti di Erto e Casso a lasciare in fretta e furia le proprie abitazioni.

Pochi giorno dopo il disastro del Vajont, la magistratura aprì un’inchiesta per accertare le responsabilità e i colpevoli di una tragedia “annunciata”.

Finirono sott’accusa alcuni consulenti e tecnici appartenenti alla SADE, insieme ad alcuni funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Il verdetto dei giudici fu chiaro: quel disastro poteva essere evitato.

Il processo, terminato nel 1972, vide la condanna di un dirigente della SADE, Alberico Biadene, ed un ispettore del Genio Civile.

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La strage di Piazza della Loggia (Strage di Brescia) https://cultura.biografieonline.it/strage-piazza-della-loggia/ https://cultura.biografieonline.it/strage-piazza-della-loggia/#respond Sat, 04 Jul 2015 16:50:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14535 Sono le dieci e 12 minuti, quando il 28 maggio 1974 una bomba nascosta nel cestino dei rifiuti viene fatta esplodere in Piazza della Loggia a Brescia, causando la morte di otto persone e oltre cento feriti. Ancora oggi, a distanza di 41 anni, non sono stati individuati e puniti i responsabili di questo attentato, avvenuto mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista.

Piazza della Loggia - Brescia - Strage
Brescia: la strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974) • Una riproduzione del manifesto della manifestazione durante la quale scoppiò la bomba che determinò la strage.

Il processo d’appello bis

A Milano si è appena aperto il processo d’appello bis a carico di Carlo Maria Maggi, un ex ispettore per il Triveneto di Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, un uomo reputato vicino ai servizi; è stato assolto invece Delfo Zorzi. Nel corso della prima udienza, i giudici hanno dato la parola ai periti, che adesso dovranno stabilire se effettivamente Maggi è incapace di affrontare il processo, così come sostiene l’uomo. Ma andiamo con ordine.

Piazza della Loggia, il ricordo

Anche quest’anno, alle 10.12, è stato osservato un minuto di silenzio per commemorare le vittime dell’attentato in Piazza della Loggia a Brescia. In piazza, insieme ai familiari delle vittime, c’era il sindaco Emilio Del Bono, che ha dichiarato: “È una ferita che Brescia non riesce a rimarginare“.

Il discorso del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 28 maggio 2015

E’ sconfortante che, ancora oggi, dopo 41 anni, non siano stati individuati e puniti i responsabili di tanta barbarie. Sono con voi, e con i cittadini di Brescia, che – dichiara Mattarellanon dimenticheranno mai la tremenda strage del 28 maggio 1974. Quel vile attentato stroncò otto vite umane, provocò il ferimento di un centinaio di persone e produsse una ferita profonda non solo nell’animo sconvolto dei familiari ma nell’intero corpo sociale del nostro Paese”.

E continua: “dobbiamo continuare a fare memoria per tenere alta la guardia contro ogni forma di violenza, di fanatismo, di terrorismo. Per trasmettere alle giovani generazioni quei valori di partecipazione, di pace, di confronto nella libertà che sono le fondamenta vive della Costituzione repubblicana. Per guardare alla nostra storia con spirito di verità, cercando di squarciare il velo opaco delle omissioni, delle reticenze, delle complicità“.

Strage di Piazza della Loggia
Piazza Loggia, Brescia • Il punto in cui scoppiò la bomba è ancora oggi visibile

I processi per ricostruire la verità

Il primo processo della magistratura, nel 1979, portò alla condanna di alcuni esponenti dell’estrema destra bresciana. Tra questi, c’era Ermanno Buzzi che, in carcere in attesa d’appello, venne strangolato il 13 aprile 1981. Nel 1982, le condanne del giudizio di primo grado furono trasformate in assoluzioni, confermate poi nel 1985 dalla Corte di Cassazione. Nel 1984 dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, fu seguito un secondo filone di indagini. I pentiti accusarono altri rappresentanti della destra eversiva. Indagini che durarono sino alla fine degli anni Ottanta. Anche questa volta gli imputati vennero assolti in primo grado nel 1987, per insufficienza di prove, prosciolti in appello nel 1989 con formula piena. Tutto confermato in Cassazione.

Il 19 maggio 2005 si tenne la terza istruttoria con la quale la Corte di Cassazione ha confermato la richiesta di arresto per Delfo Zorzi che sarebbe coinvolto nella strage di Piazza della Loggia. Il 15 maggio 2008 sono stati rinviati a giudizio i sei imputati principali: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino e Giovanni Maifredi. Zorzi, Maggi e Tramonte erano all’epoca militanti di Movimento Politico Ordine Nuovo, un gruppo neofascista creato nel 1963 da Clemente Graziani. Francesco Delfino era invece un ex generale dei Carabinieri che, all’epoca, era responsabile del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, mentre Giovanni Maifredi era collaboratore del ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani.

Il 25 novembre 2008 si è tenuta la prima udienza, il 21 ottobre 2010, i giudici hanno emesso l’accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, fatta eccezione per Pino Rauti per il quale era stata chiesta dalla stessa accusa l’assoluzione “per non aver commesso il fatto”. Successivamente, il 16 novembre 2010, la Corte d’Assise ha emesso la sentenza di primo grado della terza istruttoria con la quale ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove. Oltre alle assoluzioni, i giudici hanno stabilito il non luogo a procedere per Maurizio Tramonte per prescrizione del reato di calunnia e, inoltre, hanno disposto la revoca della misura cautelare per Delfo Zorzi. E ancora, il 14 aprile 2012, la Corte d’Assise ha confermato l’assoluzione per i sei imputati e condannato le parti civili al rimborso delle spese processuali, indicando la responsabilità di tre ordinovisti defunti, quali Carlo Digilio, Ermanno Buzzi e Marcello Soffiatti. Poi, il 21 febbraio 2014, la Corte di Cassazione ha annullato le assoluzioni di Maggi e Tramonte e confermato quelle di Zorzi e Delfino. Da qui il nuovo processo d’appello contro Tramonti e Maggi.

Le vittime

Tra le vittime della strage vanno ricordati: l’insegnante di francese, 34 anni, Giulietta Banzi Bazoli, l’insegnante di lettere alle medie, di 32 anni, Livia Bottardi in Milani, l’insegnante di fisica Alberto Trebeschi, 37 anni, Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante, il pensionato, ex partigiano di 69 anni Euplo Natali, Luigi Pinto, 25 anni, insegnante, l’operaio di 56 anni Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio.

L’epilogo

Nel mese di giugno 2017, dopo 43 anni e 11 processi, la Corte di Cassazione riconosce colpevoli gli ordinovisti Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte.

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Eccidio di Sant’Anna di Stazzema https://cultura.biografieonline.it/santanna-stazzema-strage/ https://cultura.biografieonline.it/santanna-stazzema-strage/#respond Mon, 22 Jun 2015 12:02:40 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14584 Nell’estate del 1944 un piccolo paese in provincia di Lucca, Sant’Anna di Stazzema, diventò il teatro di un eccidio insensato, uno degli ultimi massacri voluto e realizzato dall’esercito tedesco che oramai era prossimo alla sconfitta. Sant’Anna di Stazzema era un villaggio di montagna, all’epoca raggiungibile solo attraverso strade impervie e poco battute, e abitato da pochissime persone. Tuttavia, a causa degli sfollamenti di quell’estate, la sua popolazione aumentò fino a raggiungere il numero di 1.500 abitanti.

Eccidio di Sant'Anna di Stazzema - 12 agosto 1944
Eccidio di Sant’Anna di Stazzema: una targa in memoria della neonata Anna Pardini, la più piccola vittima della strage perpetrata il giorno 12 agosto 1944.

In quelle zone la guerra imperversava soprattutto attraverso gli scontri fra milizie, tedeschi e partigiani. Alla fine di luglio si moltiplicarono gli scontri fra partigiani e truppe tedesche. La X brigata Garibaldi fu fra le protagoniste di questi scontri, che si svolsero sul monte Ornato e che furono probabilmente le cause dell’atto terroristico che i tedeschi organizzarono contro la popolazione inerme di Sant’Anna di Stazzema.

L’Eccidio di Sant’Anna di Stazzema: i fatti

Il massacro si compì inizialmente sulla piazza centrale del paese, dove vennero raccolte decine di persone. Un plotone di esecuzione ne uccise la maggior parte, mentre i pochi sopravvissuti vennero bruciati insieme ai corpi dei loro concittadini.

L’orrore annichilì tutti: i tedeschi, senza avere alcuna pietà per donne, bambini e anziani, compirono le loro uccisioni utilizzando fucili, mitragliatori e bombe a mano. Furono rastrellate le case per trovare chi si nascose e lì ucciderli, anche con il calcio dei fucili.

Il numero delle vittime fu di circa 560, di cui 130 bambini. L’assassinio di innocenti fu una delle caratteristiche più atroci di questo massacro, ricordato come “Eccidio di Sant’Anna di Stazzema“. I bambini furono deliberatamente cercati e assassinati affinché il massacro vendicativo rimanesse ancora più inciso nella memoria dei partigiani e delle popolazioni del luogo.

Non si trattò di una rappresaglia ma della decisione del comando tedesco di distruggere qualsiasi forma di resistenza da parte della popolazione civile, non solo per togliere la protezione e l’aiuto ai partigiani, ma anche per annichilire e terrorizzare altri paesi e villaggi della stessa zona.

Sant'Anna di Stazzema (Lucca) - libro sulla strage
Sant’Anna di Stazzema (Lucca): la copertina di un libro sulla strage

La condanna dei responsabili: 60 anni dopo

Immediata, benché inutile, fu l’indagine sul massacro che aveva lo scopo di individuare i criminali responsabili di tanta efferatezza. Infatti, le indagini e i successivi processi non portarono a nessuna condanna fino al 2005, cioè sessant’anni dopo i fatti.

Il Tribunale militare della Spezia condannò alla pena dell’ergastolo dieci ufficiali e sottufficiali delle SS, accusati di aver partecipato al massacro del 12 agosto del 1944. I condannati vennero individuati grazie alle indagine che il procuratore militare di Roma Antonino Intelisano ordinò, dopo aver rinvenuto molti fascicoli depositati in un armadio collocato in uno scantinato della procura militare di Roma, mentre stava svolgendo alcune indagini riguardanti il processo di Erich Priebke e Karl Hass.

Fra questi fascicoli era presente anche la documentazione sull’eccidio di Sant’Anna. Grazie a questi documenti e alle testimonianze dei sopravissuti fu possibile ricostruire gli accadimenti che segnarono quel giorno dell’estate 1944, individuare una parte dei responsabili, ancora vivi, e arrivare ad una condanna.

YouTube Video

Il processo del 2005 vide impegnato il pubblico ministero Marco de Paolis che presentò, non solo la documentazione, ma anche le testimonianze, oltre che di testimoni oculari, anche di due soldati delle SS che erano appartenuti ai reparti che eseguirono l’eccidio. Il processo vide imputati solo gli ufficiali e i sottufficiali, ma non i soldati. Visto il numero de soldati coinvolti, infatti, si preferì processare solo chi aveva organizzato ed ordinato il massacro.

La Corte di Cassazione confermò le condanne nel 2007.

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Marcinelle (Belgio): gli italiani morti in miniera https://cultura.biografieonline.it/disastro-marcinelle/ https://cultura.biografieonline.it/disastro-marcinelle/#respond Wed, 17 Jun 2015 09:43:40 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14477 Ricordato come “Disastro di Marcinelle“, esso fu un terribile incidente che avvenne la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio. Persero la vita 262 persone su 275 al lavoro quel giorno.

Marcinelle (Belgio) disastro in miniera - 8 agosto 1956
Marcinelle (Belgio) : una foto storica che ricorda il disastro avvenuto in miniera il giorno 8 agosto 1956

La causa sarebbe stato un incendio innescato da una scintilla elettrica vicino al condotto dell’aria che provocò la diffusione del fumo in tutta la miniera, soffocando tutti i lavoratori lì presenti. L’incidente ebbe un impatto impressionante sulle coscienze della gente, restando per tanti anni uno dei più gravi nel suo genere mai avvenuti in Europa.

I lavoratori italiani coinvolti nel disastro

Gli operai provenivano per la maggior parte dall’Italia: persero la vita 136 italiani, 95 belgi e altri lavoratori provenienti da tutta Europa. L’Italia aveva sottoscritto un accordo con il Belgio il 20 giugno 1946, al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel quale si impegnava ad inviare 50.000 lavoratori nelle miniere in cambio di carbone.

Questo accadde perché il Belgio, non essendo molto popolato, perse ancor più forza lavoro a causa delle vittime della guerra e pertanto aveva un forte bisogno di manodopera proveniente dall’estero. La situazione dei lavoratori italiani all’epoca era molto precaria e molti, specie provenienti dalle zone più povere del paese, scelsero di andare a lavorare all’estero in cerca di fortuna.

Si intensificarono così i flussi migratori verso i paesi del nord Europa e, in modo particolare, nelle miniere belga, tedesche e francesi. Nel 1956 su un totale di 142.000 impiegati nelle miniere del Belgio ben 44.000 erano italiani.

Per convincere le persone ad emigrare in Belgio e a lavorare in miniera, erano state avviate in Italia molte campagne pubblicitarie e il bel paese veniva tappezzato di manifesti di colore rosa. Qui venivano presentati i vantaggi di questo mestiere: pensionamento anticipato, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, buono stipendio, assegni familiari etc.

Tuttavia non era incluso nessun cenno ai pericoli ai quali erano esposti questi lavoratori, dovuti in alla mancanza del rispetto delle elementari norme di sicurezza.

Dopo il disastro di Marcinelle, si ridusse notevolmente il numero di italiani immigrati in Belgio; attualmente vi risiedono stabilmente soltanto 190.000 italiani.

Le cause dell’incidente e il corso degli eventi

L’incendio, che causò poi la diffusione del fumo che soffocò i minatori, fu provocato da una scintilla elettrica vicino a dell’olio ad alta pressione. L’errore fu causato probabilmente da un equivoco di segnali che dovevano scambiarsi due lavoratori: Antonio I. addetto alle manovre, e il suo aiutante Vaussort.

Nell’atto di caricare l’ascensore, i due vagoncini, col carico di carbone da trasportare in superficie, sporgevano e per questo andarono ad urtare un’asse di acciaio (putrella) che a sua volta andò ad urtare il condotto di olio, il filo della corrente elettrica e le condotte di aria compressa.

Tutte queste componenti innescarono un terribile incendio. Ciò avvenne proprio vicino al pozzo di entrata dell’aria e il fumo si diffuse velocemente nelle condotte d’aria e in tutte le gallerie della miniera, provocando il soffocamento dei minatori che vi lavoravano.

Il fuoco divampò invece in una zona circoscritta della miniera. L’allarme venne dato da Antonio I. alle ore 8:25 quando risalì in superficie per primo, anche se si era già capito dalle 8:10 che stava succedendo qualcosa di molto grave poiché iniziarono ad interrompersi le comunicazioni.

La prima squadra di soccorritori arrivò soltanto alle 8:58 ma fu impossibile scendere a causa del troppo fumo. Nessuno riuscì a scendere prima delle 15:00, quando vennero ritrovati solo 3 superstiti, mentre gli ultimi 3 furono scoperti più tardi, in un’altra spedizione.

Marcinelle - Prima pagina giornale (Corriere della sera) - 9 agosto 1956
Disastro di Marcinelle: La prima pagina del Corriere della sera, del 9 agosto 1956

Dopo l’incidente

La mobilitazione generale fu enorme: sul posto si riunirono Croce Rossa, Pompieri, Protezione Civile e Polizia, tentando invano di raggiungere i minatori bloccati sottoterra. Si cercò di aprire anche un cunicolo laterale ma era già troppo tardi. Arrivarono anche semplici cittadini che volevano aiutare i soccorritori nelle ricerche.

Sul posto perfino un esperto francese con l’apparecchiatura radiotelefonica, pronto a captare qualsiasi segnale proveniente da sottosuolo. Da ricordare due personaggi in particolare: G. Ladrière “l’angelo di Cazier”, assistente sociale che tentò di consolare le famiglie delle vittime, e Angelo Galvan “la volpe di Cazier” che cercò fino all’ultimo i suoi compagni superstiti, purtroppo invano.

Il ministro dell’economia Jean Rey creò una commissione di inchiesta composta anche da due ingegneri italiani, Caltagirone e Gallina, tentando di rintracciare i responsabili diretti o indiretti della tragedia. La commissione era composta da 27 membri che si riunirono in 20 sedute, ogni gruppo di membri cercò di difendere i propri interessi anziché ricercare la verità sull’accaduto.

L’inchiesta giudiziaria fu avviata dal magistrato Casteleyn e vide al suo termine un solo condannato: l’ingegnere Calicis; a lui furono dati 6 mesi con la condizionale e una multa di 2000 franchi belga. Le restanti 4 persone vennero assolte e la società Bois du Cazier venne condannata a pagare una parte delle spese per risarcire i parenti delle vittime: la causa si concluse solo nel 1964 con un accordo tra le parti.

Le omissioni

Quel che è certo è che sicuramente la tragedia poteva essere, se non evitata, quando meno ridimensionata. I minatori non morirono serenamente sul loro posto di lavoro ma cercarono di scappare, tant’è vero che molti di loro furono ritrovati cadaveri lontano da dove erano soliti lavorare.

Esisteva un verricello di emergenza, una sorta di ascensore, che doveva funzionare in caso di blocco di quello principale ma non venne mai utilizzato dai soccorritori a causa della scarsa velocità con la quale saliva e scendeva.

Le riserve d’acqua erano piene solo per metà e questo costrinse i pompieri a spegnere l’incendio con l’acqua delle condutture domestiche.

Per quanto riguarda la dinamica dell’incidente principale, non si è arrivati mai alla scoperta della verità in quanto dopo lo spegnimento dell’incendio il vagoncino che doveva sporgere in realtà non si capovolse nemmeno e fu ritrovato al suo posto. Probabilmente la causa era molto più complessa di quella che fu fornita ufficialmente.

Certo è che l’assenza durante quella mattina di alcune figure fondamentali nella direzione del lavoro della miniera  giocò un ruolo fondamentale. Mancavano sul posto di lavoro J. Bochkoltz, il direttore della centrale di soccorso, P. Dassargues, ingegnere ancora in periodo di tirocinio, ed E. Jacquemyn, il direttore generale della miniera, tutti prosciolti.

La giustizia non fece il suo corso e i veri motivi della strage probabilmente non saranno mai chiariti. A distanza di tanti anni resta il dolore per quei tanti lavoratori italiani, emigrati alla ricerca di fortuna e che invece di trovare un buon posto di lavoro, trovarono la morte in un terribile incidente.

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La strage di Ustica https://cultura.biografieonline.it/strage-di-ustica/ https://cultura.biografieonline.it/strage-di-ustica/#respond Mon, 11 May 2015 17:03:02 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14240 Era il 27 giugno 1980 quando il volo Itavia 870 partito da Bologna con rotta Palermo si inabissò con 81 persone a bordo tra Ponza e Ustica. Da allora ci sono voluti anni affinché si arrivasse alla verità su quella terribile strage: “Il Dc-9 fu abbattuto da un missile”. Lo hanno affermato i giudici della prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo, che hanno rigettato i ricorsi dell’Avvocatura dello Stato contro le quattro sentenze del Tribunale siciliano.

Strage di Ustica - Prima pagina giornale
Strage di Ustica – La prima pagina de “La Repubblica”

Prima di questa sentenza del 2015, sono state formulate nel corso delle indagini quattro ipotesi: la prima, cedimento strutturale, la seconda, collisione con un altro aereo in volo, terza, bomba a bordo, quarta, un missile sparato da un altro aereo. Ma andiamo con ordine.

Rigettato il ricorso dei ministeri, 15 aprile 2015: Lo Stato dovrà pagare

La Corte di Appello civile di Palermo ha rigettato il ricorso dei ministeri della Difesa e dei Trasporti contro la sentenza del settembre 2011, sentenza del giudice Paola Protopisani, con la quale condannò lo Stato a risarcire con oltre 100 milioni di euro i 42 familiari di 17 vittime. La sentenza di Protopisani stabilì che la causa dell’abbattimento dell’aereo fu «un missile o collisione in una scena militare».

Strage di Ustica - foto aereo
Una foto del DC-9 Itavia I-TIGI, prima della strage di Ustica • Questa foto (tratta da Wikipedia) fu scattata nel 1972 durante un transito dell’aereo a Basilea (Svizzera).

La corte ha confermato la responsabilità dei ministeri per la morte dei passeggeri a bordo del volo Itavia 870. In più i giudici hanno rinviato alla sentenza definitiva, per la quale dovrà pronunciarsi la Cassazione a sezioni unite, l’esame delle singole voci del danno, rinviando la causa al 7 ottobre 2015.

La sera del 27 giugno 1980 e le prime indagini

L’aereo parte dall’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna: sono le 20.08, con due ore di ritardo rispetto all’orario previsto. L’arrivo a Palermo è previsto per le 21.15. Il Dc 9 viaggia con regolarità, con a bordo 81 persone: 64 passeggeri adulti, 11 ragazzini tra i due e i dodici anni, due bambini di 24 mesi e 4 uomini dell’equipaggio.

Il volo prosegue la sua rotta, sino a quando, poco prima delle 21 del Dc 9 si perdono le tracce radar, l’aereo scompare in mare. Da allora sino al 1986 della strage di Ustica non si parlerà più. Le indagini procedono molto lentamente. Viene fondata l’associazione dei familiari delle vittime perché, come dice Daria Bonfietti  “appariva sempre più chiaro che coloro che lottavano contro la verità esistevano, erano esistiti fin dagli istanti successivi il disastro e operavano a vari livelli, nelle nostre istituzioni democratiche, per tenere lontana, consapevolmente la verità”.

A novembre del 1984 viene nominato il primo collegio peritale e il 16 marzo 1989 il collegio consegna al giudice istruttore Bucarelli la relazione. Quindi i sei periti che fanno parte del collegio rilasciano alla stampa una dichiarazione: “Tutti gli elementi a disposizione fanno concordemente ritenere che l’incidente occorso al DC9 sia stato causato da un missile esploso in prossimità della zona anteriore dell’aereo. Allo stato odierno mancano elementi sufficienti per precisarne il tipo, la provenienza e l’identità”.

Dunque il giudice gli assegna il compito di proseguire nelle indagini per identificare il tipo di missile, ma le pressioni fanno sì che vacillino le iniziali certezze: due periti su sei non saranno più certi del missile. Nel frattempo, a seguito di uno scontro tra l’onorevole Giuliano Amato, ai tempi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e il giudice Bucarelli, il giudice abbandonerà l’indagine, che di conseguenza passerà al giudice Rosario Priore.

La Commissione Stragi

Il Parlamento si interessa direttamente della vicenda, a seguito di una vasta mobilitazione dell’opinione pubblica, con la Commissione Stragi, presieduta da Libero Gualtieri, che nell’aprile 1992 approva una relazione: “per la Commissione è possibile indicare al Parlamento le responsabilità delle istituzioni militari per avere trasformato una ‘normale’ inchiesta sulla perdita di un aereo civile, con tutti i suoi 81 passeggeri, in un insieme di menzogne, di reticenze, di deviazioni, al termine del quale, alle 81 vittime, se ne è aggiunta un’altra: quell’Aeronautica militare che, per quello che ha rappresentato e che rappresenta, non meritava certo di essere trascinata nella sua interezza in questa avventura”.

Il 15 maggio 1992 i generali all’epoca dei fatti  ai vertici dell’aeronautica vengono incriminati per alto tradimento, “perché, dopo aver omesso di riferire alle Autorità politiche e a quella giudiziaria le informazioni concernenti la possibile presenza di traffico militare statunitense, la ricerca di mezzi aeronavali statunitensi a partire dal 27 giugno 1980, l’ipotesi di un’esplosione coinvolgente il velivolo e i risultati dell’analisi dei tracciati radar, abusando del proprio ufficio, fornivano alle Autorità politiche informazioni errate.”

Le indagini del giudice Priore

Sono i primi mesi del 1994 quando vengono resi noti i risultati delle perizie commissionate dal giudice Priore. Dalle perizie emerge che è escluso che sul Dc 9 sia esplosa una bomba. Non ci sono infatti tracce di esplosione sulle vittime, né segni di strappi da esplosione sui metalli, le analisi chimiche escludono l’ipotesi di una bomba e persino gli esperimenti e le simulazioni danno esito negativo.

Passano pochi mesi e a luglio gli stessi periti avanzano l’ipotesi di una bomba, ma non sapranno dire come era fatta e né dove fosse collocata. Per i pm Coiro, Salvi e Rosselli e anche per il giudice Priore, “il lavoro dei periti d’ufficio é affetto da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile”. Rimangano i dubbi sull’attività svolta dai periti, alcuni dei quali verranno estromessi dal giudice istruttore che li aveva nominati.

Le indagini si spostano sui radar: viene chiesta la collaborazione della Nato

Il cielo si vuole fare credere vuoto da ogni presenza di voli militari, ma a questo punto si chiede la collaborazione della Nato. A fine agosto del 1999 il giudice Priore sentenzia: “l’incidente al DC9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento”. Quindi quella notte sul cielo di Ustica c’era la guerra. Nel 2000 inizia il processo contro i vertici dell’Aeronautica che nell’aprile del 2004 vengono assolti per prescrizione. Tuttavia si riconoscerà che hanno omesso di riferire alle autorità politiche i risultati dell’esame dei tracciati radar di Fiumicino/Ciampino.

Strage di Ustica: una mappa illustrata che aiuta a capire dove sia caduto l'aereo
Strage di Ustica: una mappa illustrata che aiuta a capire dove sia caduto l’aereo

Proprio quei tracciati vedono la presenza di una manovra d’attacco al Dc9. Inoltre, viene riconosciuto che hanno fornito informazioni errate alle autorità escludendo la presenza di altri aerei militari nella tragedia dell’aereo civile.  La vicenda della strage di Ustica sembrava conclusa il 10 gennaio 2007, quando la Prima sezione penale della Corte di Cassazione conferma la sentenza di assoluzione, con formula piena, per i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri dall’accusa di alto tradimento: non è stato individuato nessun colpevole.

I due generali nell’informare il ministero della Difesa sulla situazione nei cieli italiani della sera dell’abbattimento del Dc 9 avevano escluso il coinvolgimento di altri aerei italiani o della Nato, militari o civili. Così, con questa sentenza, a distanza di 27 anni, il processo penale si chiude senza la possibilità di ottenere giustizia. Ma nel febbraio 2008, la dichiarazione dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che sostiene ai microfoni della Rai che il Dc9 è stato abbattuto da un missile lanciato da un jet militare francese, la procura della repubblica di Roma apre il 21 giugno 2008 una nuova inchiesta.

Le morti sospette

L’elenco di morti sospette dei cosiddetti “suicidi in ginocchio” è lungo. L’elenco si apre il 3 agosto 1980 con l’incidente stradale in cui muore il colonnello dell’Aeronautica militare Pierangelo Tedoldi, 41 anni, comandante dell’aeroporto di Grosseto.

È il 23 gennaio 1983 quando in un altro incidente stradale muore il sindaco di Grosseto, Giovanni Battista Finetti. Il sindaco aveva raccolto le testimonianze di alcuni ufficiali dell’Aeronautica. Secondo tali confidenze, due caccia italiani si erano sollevati in volo dalla base toscana per abbattere un Mig libico.

Il 28 agosto 1988, in Germania, a Ramstein, nel corso di un’esibizione aerea delle Frecce Tricolori, muoiono i due piloti, Mario Naldini, 41 anni, e Ivo Nutarelli, 38 anni, gli stessi che la sera del 27 giugno 1980 avevano lanciato segnali di emergenza, decollati da Grosseto.

Il 1° febbraio del 1991 il maresciallo dell’Aeronautica, Antonio Muzio, viene ucciso con tre colpi di pistola a Vibo Valentia; nell’anno della strage di Ustica prestava servizio alla torre di controllo di Lamezia terme. Segue, il 2 febraio 1992, l’incidente stradale in cui rimane vittima il maresciallo Antonio Pagliara: negli anni Ottanta era in servizio a Otranto con funzioni di controllo per la Difesa Aerea.

Il 12 gennaio 1993 viene ammazzato a Bruxelles l’ex generale Roberto Boemio, testimone – chiave. L’alto ufficiale aveva collaborato su Ustica con la magistratura e le modalità dell’omicidio secondo la magistratura belga coinvolgono “i servizi segreti internazionali”.

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La strage di Capaci https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-capaci/ https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-capaci/#comments Mon, 21 May 2012 14:22:07 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2139 Con l’espressione “strage di Capaci” si fa riferimento all’attentato mafioso portato a termine il 23 maggio 1992 a pochi chilometri da Palermo, vicino allo svincolo di Capaci dell’autostrada A29, che provocò la morte del giudice antimafia Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo (sua moglie), e di tre agenti della sua scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Sopravvissero all’attentato gli agenti Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Paolo Capuzzo, oltre a Giuseppe Costanza, l’autista giudiziario che nell’occasione si trovava sul sedile posteriore dell’auto di Falcone.

Una foto della strage di Capaci (23 maggio 1992)
Una foto della strage di Capaci (23 maggio 1992)

La strage di Capaci: i responsabili

Tra gli esecutori materiali dell’attentato (in tutto almeno cinque persone) ci sono anche Giovanni Brusca (colui che azionò il telecomando al passaggio della macchina del magistrato) e Pietro Rampulla (colui che realizzò e collocò l’esplosivo).

Tra i mandanti, invece, ci sono (secondo la sentenza della prima sezione penale della Cassazione arrivata nel 2008) Carlo Greco, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Salvatore Montalto, Pietro Aglieri, Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola.

I minuti precedenti

Il delitto compiuto dai mafiosi è studiato nei minimi particolari: sotto l’autostrada A29, nel tratto che collega Palermo e l’aeroporto di Punta Raisi, viene scavata una galleria in cui vengono posizionati cinque quintali di tritolo. Quando rimane vittima dell’attentato, Giovanni Falcone sta tornando, come di consueto nei week-end, da Roma. Dopo essere partito dall’aeroporto di Ciampino con un jet di servizio alle 16.45, atterra in Sicilia dopo poco meno di un’ora di viaggio.

A Punta Raisi lo aspettano tre vetture (tre Fiat Croma blindate), insieme alla scorta guidata da Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo. Una volta sceso dall’aereo, Falcone decide di mettersi alla guida, facendo sedere sul sedile posteriore l’autista Costanza. Falcone si trova su una Croma bianca, di fianco a lui c’è la moglie Francesca.

Davanti a loro, invece, su una Croma marrone si trovano Vito Schifani, alla guida, Antonio Montinaro, agente scelto seduto di fianco a Schifani, e Rocco Dicilio, seduto dietro; chiude la scorta, infine, una Croma azzurra con a bordo Cervello, Corbo e Capuzzo.

Quando le tre vetture partono dall’aeroporto, i sicari che hanno posizionato il tritolo vengono avvisati via telefono (le inchieste giudiziarie, però, non sono mai riuscite a risalire all’identità della fonte).

Le tre Croma imboccano l’autostrada verso Palermo senza accendere le sirene. Gli spostamenti delle auto vengono seguite da un’auto su una strada parallela, per segnalarne la posizione ai sicari.

L’esplosione

Alle 17.58, in corrispondenza del chilometro 5 dell’autostrada, Giovanni Brusca aziona con un telecomando la carica di tritolo. Pochi secondi prima dello scoppio, Falcone rallenta improvvisamente dopo essersi piegato leggermente verso il cruscotto per prendere un mazzo di chiavi: Brusca, sorpreso, preme in anticipo il pulsante. Di conseguenza, a essere investita in pieno dall’esplosione è solo la prima Croma: i suoi resti vengono scaraventati oltre la corsia opposta, e gli agenti muoiono sul colpo.

La Croma bianca a bordo della quale si trova Falcone, invece, si schianta contro i detriti e il muro di cemento innalzatosi a causa dello scoppio: sia il giudice che sua moglie Francesca non hanno le cinture di sicurezza allacciate, e vengono scagliati conto il parabrezza.

In apparenza le ferite di Falcone non sono gravi, e in effetti il magistrato viene portato in ospedale quando è ancora vivo: morirà più tardi, a causa di diverse emorragie interne.

Gli agenti a bordo della Croma azzurra, infine, si salvano, così come le altre persone (circa venti) che passano nel punto dell’attentato al momento dello scoppio.

Sulla strada si apre una voragine immensa, mentre i residenti delle abitazioni vicine all’autostrada immediatamente avvisano le autorità, scendendo in strada per prestare i primi soccorsi.

Giovanni Falcone
Giovanni Falcone

La morte di Falcone

Giovanni Falcone viene trasportato, a venti minuti di distanza dall’esplosione, all’Ospedale Civico di Palermo, scortato da un elicottero dei carabinieri: alle 19.05, però, muore nonostante i tentativi di rianimazione. Fatali sono le lesioni interne e il trauma cranico. Tre ore più tardi, intorno alle 22, muore anche la moglie Francesca Morvillo.

Le reazioni

La strage provoca i festeggiamenti da parte dei mafiosi rinchiusi nel carcere dell’Ucciardone, ma anche una profonda reazione di sconcerto da parte dell’opinione pubblica italiana ed internazionale.

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