storia Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 16 Mar 2022 08:30:44 +0000 it-IT hourly 1 Guerra Fredda: significato, cause e riassunto https://cultura.biografieonline.it/la-guerra-fredda/ https://cultura.biografieonline.it/la-guerra-fredda/#comments Wed, 16 Mar 2022 07:27:20 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=787 Guerra Fredda è una definizione utilizzata per comprendere il periodo storico che va dalla conferenza di Yalta avvenuta nel 1945 alla caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989. All’interno di questo arco temporale le due super potenze Stati Uniti d’America e Unione Sovietica hanno coinvolto il mondo in una strategia della tensione costituita da:

  • guerre parallele,
  • guerre spionistiche,
  • alleanze diplomatiche,
  • scontri sul piano della politica internazionale,
  • corsa agli armamenti tradizionali e alle armi nucleari.
Winston Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Jalta (1945)
1945 – Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Yalta

Dopo la Conferenza di Yalta del febbraio 1945, a cui parteciparono Winston Churchill come Primo Ministro del Regno Unito, Franklin Delano Roosevelt come presidente degli Stati Uniti d’America e Josif Stalin come Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica,  fu subito chiaro al Primo Ministro inglese quanto fosse pericolosa la politica estera russa che stava di fatto inglobando ideologicamente e militarmente i territori conquistati dall’Armata Rossa.

Il presidente americano, invece, sembrava sottovalutare Stalin e al fine di averlo come alleato contro i giapponesi gli consentì di avanzare pretese sui territori conquistati.

La Conferenza di Posdam che avvenne nel febbraio del 1945 rese chiaro a tutti che Churchill aveva ragione e che di fatto si stava stendendo la Cortina di Ferro fra due super potenze: l’America e i suoi alleati e l’ Unione sovietica e i suoi alleati.

Durante la Conferenza di Parigi del 1946-1947, a cui parteciparono le potenze vincitrici, iniziarono a porsi seriamente i primi problemi fra la delegazione americana e quella russa per quanto riguardava la spartizione della Germania.

Il termine Guerra Fredda

Fu il politico statunitense Bernard Baruch, incaricato nel 1946 dal suo governo di redigere un piano per giungere al disarmo in materia di armi atomiche, a coniare il termine Guerra Fredda, proprio per indicare le relazioni diplomatiche tra USA e URSS: era il 16 aprile 1947.

Dalle tensioni mondiali al disgelo

La tensione durante la Guerra Fredda raggiunse il culmine con “la questione greca” e il destino politico delle democrazie popolari che a questo punto non erano più autonome e non avevano più alcuna parvenza democratica. Inoltre, in Asia si stava aprendo un terzo fronte con la Cina che si stava trasformando in una repubblica comunista e marxista alleata con la Russia che si contrapponeva allo stato di Taiwan dove si era rifugiato il governo del generale Chiang Kai-shek alleato e sostenuto da molti governi occidentali.

Durante la Guerra Fredda, i due blocchi – Gli USA e i loro alleati da una parte e l’URSS e i suoi alleati dall’altra – non rappresentavano solo una contrapposizione militare e diplomatica ma anche ideologica, sociale, politica, economica e di visione del futuro del mondo.

Dal punto di vista economico e ideologico uno degli atti più importanti che gli americani decisero già nel 1946 e avviarono nel 1947 fu il Piano Marshall.

Mentre nel 1949 fu istituito, per volontà americana, il Patto Atlantico che rappresentava di fatto un alleanza militare, con un comando integrato chiamato NATO. La North Atlantic Treaty Organization riuniva:

  • USA,
  • Canada,
  • Gran Bretagna,
  • Francia,
  • Belgio,
  • Olanda,
  • Lussemburgo,
  • Italia,
  • Danimarca,
  • Norvegia,
  • Islanda,
  • Portogallo,
  • Grecia e Turchia – aderirono nel 1951
  • Germania Federale – entrò nel patto nel 1956.

L’URSS, invece, diede vita nel 1955 al Patto di Varsavia proprio per contrastare il Patto Atlantico. Vi aderirono:

  • Albania,
  • Cecoslovacchia,
  • Bulgaria,
  • Polonia,
  • Romania,
  • Repubblica Democratica Tedesca,
  • Ungheria.

L’aumento della tensione

Da questo momento in poi la strategia della tensione aumentò proporzionalmente con l’aumento delle armi nucleari e degli armamenti tradizionali in entrambi i blocchi; fino a quando, negli anni ’70, si iniziò una difficile serie di trattative per contenere tale crescita, che soprattutto per l’URSS, stava diventando insostenibile.

Due furono i principali terreni di scontro fra i due blocchi:

  1. la Guerra di Corea, che vide gli Stati Uniti contro la Corea del Nord e la Cina;
  2. la Guerra del Vietnam fra Stati Uniti e Vietnam del Nord.

In entrambe le guerre i due blocchi furono coinvolti attraverso sostegni di tipo politico e militare, anche se le potenze coinvolte direttamente furono solo quelle citate.

La fine della Guerra Fredda

Negli anni ’80 l’elezione di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti d’America e la nomina di Mikhail Gorbaciov a Segretario Generale dell’Unione Sovietica, diede un’ accelerata al disarmo e alla politica della distensione.

Reagan e Gorbaciov nel 1985 (Summit di Ginevra) – Guerra Fredda
Reagan e Gorbaciov nel 1985 (Summit di Ginevra) – L’evento portò al termine della Guerra Fredda

Entrambi i capi di Stato iniziarono una politica nuova all’interno dei loro paesi: Reagan, malgrado la sua crociata contro il comunismo e la sua politica economica liberale, si fece garante di un cambiamento economico radicale e di un avvicinamento politico e strategico all’Unione Sovietica.

Mentre Gorbaciov aprì la strada ad una democratizzazione del suo paese e dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica.

L’atto finale fu la caduta del Muro di Berlino nel 1989 che diede avvio alla dissoluzione dell’impero sovietico.

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Rivoluzione russa: storia e riassunto https://cultura.biografieonline.it/rivoluzione-russa/ https://cultura.biografieonline.it/rivoluzione-russa/#comments Wed, 02 Mar 2022 09:02:29 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16895 La rivoluzione russa fu uno degli eventi più importanti della storia dell’attuale Federazione Russa. Fu un avvenimento invocato, previsto e poi scoppiato nel terzo inverno della Prima Guerra Mondiale, nel febbraio 1917 (calendario giuliano).

Rivoluzione Russa
Rivoluzione russa: un simbolico quadro intitolato “Bolscevico” (1920), del pittore Boris Kustodiev (1878-1927)

Presupposti della rivoluzione russa

I presupposti nacquero quando l’Impero russo scese in guerra al fianco dell’Intesa contro gli imperi centrali. Dopo neppure un anno di guerra, venne alla luce l’arretratezza dell’economia e tutto ciò, condito da sconfitte irreparabili che costarono le perdite della Galizia e della Polonia, portò miseria, fame e carestia. A Pietrogrado si crearono numerose folle e code in piazza, che diventarono ben presto comizi di protesta: gli operai iniziarono gli scioperi contro le speculazioni dei profittatori di guerra e per la diminuzione dei salari reali, proprio mentre lo zar Nicola II si trovava sul fronte di battaglia a dirigere le operazioni belliche.

I giorni della rivolta

Durante i primi due giorni di rivolta, alcuni dati della polizia russa contarono circa 90.000 protestanti che gridavano “pane, pane!”. Tra il secondo e il terzo giorno, i protestanti diventarono 200.000 e risultarono essere anche più aggressivi, agitando bandiere rosse e aggiungendo al grido pane, “basta con l’autocrazia”. La polizia non riuscì più a contenere la folla e dunque, in assenza dello zar, la Zarina decise di dichiarare fermamente agli operai che era proibito scioperare e, in caso d’oltraggio, i trasgressori sarebbero stati mandati sul fronte per punizione. Intanto, Nicola II inviò l’ordine di far presidiare per le piazze delle truppe e, d’improvviso, vi furono i primi scontri. Il quarto giorno risultò essere quello decisivo: il numero degli insorti aumentò, ma i soldati rifiutarono di sparare sui loro padri e fratelli.

La rivoluzione di febbraio

L’esercito diventò il protagonista nell’ultimo giorno quando, nelle caserme, si registrarono diversi casi di ammutinamento: molti soldati si unirono alla folla e, tutti insieme, s’impadronirono della città; furono inoltre liberati i detenuti politici e i soldati arrestarono ufficiali e funzionari zaristi. In 5 giorni, i protestanti di Pietrogrado abbatterono il regime zarista, ponendo fine al regno dei Romanov, nell’insurrezione che verrà denominata la “rivoluzione di febbraio”, perché si svolse tra il 17 e il 23 febbraio 1917.

I Bolscevichi

Da qui in poi, entrarono in scena i Bolscevichi (il Bolscevismo era una corrente del partito operaio socialdemocratico russo fondato nel 1898) e Lenin, capo del partito che si trovava da alcuni anni in Svizzera, decise di ritornare in Russia. Al ritorno in patria, avvenuto il 3 aprile, Lenin fu accolto da una folla immensa; le tesi bolsceviche cominciarono ad avere un’importante rilevanza nel movimento rivoluzionario. Il 4 aprile 1917, Lenin espose le “Tesi d’aprile”, ossia le linee guida del partito per i mesi futuri, tra le quali il leader propose anche di cambiare il nome del partito in Partito Comunista Russo, costruendo, dunque, la storia della rivoluzione.

Famosa foto di Lenin - Rivoluzione russa
Una famosa foto di Lenin durante la rivoluzione russa

Il governo Kerenskij e il comitato militare rivoluzionario

Nel frattempo, fu stanziato un governo provvisorio, il governo Kerenskij, che riuscì a reprimere un tentativo di rivoluzione a luglio e Lenin, accusato di ricevere denaro dai tedeschi per finanziare un colpo di stato Bolscevico in Russia, si nascose in Finlandia. Il colpo di stato fallito avvicinò Kerenskij sul viale del tramonto, poiché, tra luglio ed agosto, i bolscevichi riuscirono ad acquisire la maggioranza nei due soviet; il 9 ottobre 1917, Lenin, tornato a Pietrogrado, decise di prendere il potere creando, insieme a Trotsky, il comitato militare rivoluzionario.

Con il termine rivoluzione d’ottobre si indica la fase finale e decisiva della Rivoluzione russa.

Il 24 ottobre, i bolscevichi cominciarono ad occupare la capitale: si verificarono indubbiamente degli scontri, ma i comportamenti degli insorti non si rivelarono molto violenti. Il 25 ottobre Kerenskij fuggì dalla città e il potere passò nelle mani di Lenin. Nel gennaio del 1918, il governo russo passò a Mosca, che diventò la nuova capitale.

La nascita del regime comunista

Fra i primi provvedimenti del governo vi furono la nazionalizzazione delle banche, la creazione della CEKA (polizia segreta) e l’istituzione del tribunale rivoluzionario; i soviet vennero soppressi e gli anarchici subirono delle violenze; tutte le pubblicazioni non bolsceviche vennero soppresse. Fu così, dunque, che nacque il regime comunista, il quale farà da padre e da padrone in Russia per circa 70 anni.

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Vittoria di Pirro: dove nasce il modo di dire? Chi era Pirro? https://cultura.biografieonline.it/vittoria-di-pirro/ https://cultura.biografieonline.it/vittoria-di-pirro/#respond Sat, 15 Jan 2022 19:21:51 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=38218 Una battaglia vinta, sì, ma a un prezzo un po’ troppo alto. È quello che intendiamo dire quando utilizziamo la locuzione vittoria di Pirro.

Da dove deriva?

Vittoria di Pirro: un modo di dire che risale al 280 a.C.

Quando qualifichiamo come pirrica una vittoria stiamo guardando alla storia antica. Stiamo viaggiando fino a prima di Cristo.

Ci si riferisce in particolare alla sconfitta inflitta ai Romani in due battaglie:

  • quella di Eraclea del 280 a.C.
  • e quella di Ascoli Satriano del 279 a.C.

A battere i Romani fu il re Pirro dell’Epiro.

Vittoria di Pirro

Chi era Pirro

Pirro fu uno dei condottieri alessandrini (discendente di Alessandro Magno) più rilevanti. Annibale stesso in persona lo ritenne il più astuto degli strateghi. Pirro fu inoltre un abile diplomatico.

Dal 306 al 300 e poi ancora dal 298 al 272 a.C. fu re dell’Epiro, regione nel Sud-Est dell’Europa: dall’Albania meridionale alla Grecia Nord-Occidentale, tra la catena montuosa del Pindo e il Mar Ionio.

Pirro celebre per la Vittoria di Pirro
Illustrazione della statua di Pirro raffigurato in modo scultoreo come il dio Marte (statua marmorea del I secolo d.C. conservata presso i Musei Capitolini, Roma)

Una vittoria a metà. Perché?

Nelle battaglie in cui sconfisse i Romani ad Eraclea nel 280 a.C. e ad Ascoli Satriano nel 279 a.C., Pirro ebbe delle perdite molto molto gravi: si trattò di una ferita che si aprì all’interno dell’esercito e si fece incolmabile, fino a rendere impossibile la vittoria della guerra.

Così narra Plutarco in riferimento alla seconda di queste battaglie:

Gli eserciti si separarono; e, da quel che si dice, Pirro rispose a uno che gli esternava la gioia per la vittoria che “un’altra vittoria così e si sarebbe rovinato”.

Questo perché aveva perso gran parte delle forze che aveva portato con sé, quasi tutti i suoi migliori amici e i suoi principali comandanti; non c’erano altri che potessero essere arruolati, e i confederati italici non collaboravano.

D’altra parte, come una fontana che scorresse fuori dalla città, il campo romano veniva riempito rapidamente e a completezza di uomini freschi, per niente abbattuti dalle perdite sostenute, ma dalla loro stessa rabbia capaci di raccogliere nuove forze, e nuova risolutezza per continuare la guerra.

Vite parallele

Nel linguaggio di oggi

Quando si parla di “vittoria di Pirro” non ci si riferisce, oggi, certamente all’ambito militare. Più normalmente si utilizza questa locuzione per analogia in altre sfere del vivere comune. Di vittorie di Pirro sono costellati:

  • il mondo degli affari,
  • la politica,
  • la giurisprudenza
  • e anche lo sport.

In tutte queste situazioni si parla in ogni caso di un successo inutile, effimero in cui il vincitore, alla fine, esce senza aver acquisito quei vantaggi necessari a giustificare lo sforzo. Alessandro Magno

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Il pensiero sociologico di Georg Simmel https://cultura.biografieonline.it/simmel-teoria-pensiero-filosofia/ https://cultura.biografieonline.it/simmel-teoria-pensiero-filosofia/#respond Wed, 18 Jan 2017 19:36:27 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20681 L’opera del filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel ha assunto una grande importanza, in particolare nell’ambito della sociologia fenomenologica, tanto che Simmel ha potuto essere definito come “il più contemporaneo dei classici”.

Georg Simmel
Georg Simmel

La società secondo Simmel

Per Simmel, la società è il risultato delle relazioni reciproche degli individui; dalla complessità dell’agire, in una correlazione di situazioni, sorge un’unità che è appunto la società. Se le unità sociali sono caratterizzate dall’agire individuale, per conoscere tali unità il sociologo deve procedere attraverso astrazioni e selezioni che, solo utilizzando le categorie proprie dell’intelletto umano, si possono trovare. A differenza di Kant, Simmel ritiene che le categorie mediante le quali noi abbiamo accesso alla conoscenza e all’esperienza nascono dai nostri bisogni vitali. Inoltre, Simmel riconosce gli a-priori come una concezione non realista della conoscenza. Essa viene considerata come il risultato di un’attività costruttiva dell’individuo conoscente.

Il rapporto tra idee e strutture sociali si configura nei termini di un’influenza reciproca tra le due dimensioni, dato che la conoscenza nasce attraverso dei condizionamenti naturali e sociali ma, a sua volta, è anche il risultato di un’attività soggetiva autonoma.

Le forme sociali

Per analizzare e comprendere le unità sociali, il sociologo deve procedere attraverso selezioni e astrazioni per costruire il suo oggetto di studio. Simmel propone di mettere in evidenza le forme di relazione che vengono a stabilirsi nei rapporti dinamici tra gli attori sociali. Egli distingue tra forma e contenuto della società.

Il contenuto, semplicemente, è tutto ciò che negli individui è presente come impulso, interesse, scopo, ecc.; la forma, invece, è rappresentata dai diversi modi attraverso cui gli individui stabiliscono le loro intenzioni. Dunque, se il contenuto costruisce, la forma permette la giusta strutturazione. Le forme, a loro volta, tendono a rendersi indipenti dal contenuto e ciò spiega quello che per Simmel sono le “forme del gioco”.

La filosofia del denaro

La filosofia del denaro” è l’opera principale di Georg Simmel, scritta nel 1900. In essa, l’autore vuol mettere in evidenza gli effetti culturali e sociali provocati, nella modernità, dallo sviluppo e dallo scambio economico fondato sul denaro. Il denaro, per Simmel, è la migliore dimostrazione del carattere simbolico del sociale, trasforma la qualità in quantità. L’oggetto del desiderio appare svuotato di ogni valore, che può essere basato dal sacrificio, dal lavoro, che siamo disposti a fare per ottenerlo; questo valore viene sostituito dal denaro. Quando il valore diventa denaro, per molti individui, l’oggetto difficilmente può essere raggiunto, perciò non riescono a comprendere il nesso tra valore e desiderio, in quanto ormai il valore viene oggettivato nel prezzo di mercato. Questo, per Simmel, comporta profondi scompensi nella società moderna, recando un sostanziale contributo all’analisi marxista con l’alienazione.

Rapporto individuo-società

Per Simmel, come detto prima, la società è il risultato delle azioni reciproche; l’individuo, come tale, da solo, non può mai essere integrato socialmente. Simmel afferma che nell’individuo vi è una dimensione che non è rivolta alla società. Questa dimensione non deve essere intesa come qualcosa che sta accanto alla parte socialmente significativa nell’individuo, ma deve essere ritenuta unita con essa. L’ambivalenza della posizione dell’individuo nella società, spiega il fatto che l’individuo si possa contrapporre all’ordine sociale. Si mostra dunque una tensione continua che riguarda il rapporto tra individuo e società, poiché l’attore sociale, con le sue forme di rappresentazione, può sia avvicinarsi nelle interazioni reciproche ma, d’altro canto, può rinchiudersi, alienandosi da ciò che più propriamente appartiene alla sua vita.

In Simmel, dunque, emerge “l’ambivalenza delle forme di determinazione”. Egli sviluppa una concezione tragica della cultura poiché essa produce effetti inquietanti. La mancanza di misura della vita, costituisce un presupposto essenziale attraverso cui Simmel spiega come sia naturale la complessità dei fenomeni sociali. E’ nel rapporto con le forme che si sviluppa l’esperienza umana; quindi, la necessità delle forme viene riconosciuta come determinante e Simmel critica la modernità perché essa tende a liberarsi da ogni forma determinante.

La crisi della modernità

Simmel dunque critica aspramente la modernità. Nella società moderna, un’immensa quantità di rappresentazioni e significati culturali diversi è venuta, in un tempo breve, oggettivandosi in cose e conoscenze, istituzioni e comodità, per poi creare un regresso della cultura.

Per tale motivo, l’attore sociale tende sempre di più a non riuscire ad integrarsi nello sviluppo lussureggiante della cultura oggettiva, riducendosi in quella quantità che viene definita trascurabile.

Per le sue caratteristiche, la modernità appare come un’epoca nella quale si verifica per eccellenza una sorta di “epifania della condizione umana”, durante la quale si manifesta la tensione che c’è nel rapporto tra individuo e società.

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Il pensiero sociologico di Max Weber https://cultura.biografieonline.it/weber-teoria-pensiero-filosofia/ https://cultura.biografieonline.it/weber-teoria-pensiero-filosofia/#respond Mon, 28 Nov 2016 13:10:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20446 Il sociologo tedesco Max Weber si forma nella tradizione dello stoicismo tedesco; le sue posizioni teoriche sono assai diverse da quelle del positivismo di cui si ispirava il suo collega Emile Durkheim.

Max Weber - Pensiero sociologico - sociologia - riassunto
Le copertine di due opere di Max Weber: “Economia e società” e “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

Weber critica l’idea che l’agire sociale deva essere spiegato a partire dalle esigenze funzionali del sistema sociale. La sua vasta produzione è caratterizzata soprattutto dall’interesse per i rapporti tra economia e sociologia, sviluppando inoltre importanti analisi sulle religioni mondiali.

In una sua opera, “Economia e Società“, Max Weber sintetizza i risultati delle sue riflessioni metodologiche e teoriche. Assume un atteggiamento critico nei confronti delle teorie che consideravano la società come un sistema autonomo rispetto all’azione degli individui.
La sociologia per Weber, rispetto alle scienze naturali, è volta alla comprensione dell’atteggiamento degli individui che partecipano alla formazione sociale.

La razionalità cosciente

Egli introduce la razionalità cosciente. Questa dimensione può essere messa in luce grazie al senso in base al quale si determina l’atteggiamento umano; dunque, percepisce la sociologia come una scienza, la quale si propone di intendere, in virtù di un procedimento interpretativo, l’agire sociale e quindi di spiegarlo casualmente nel suo corso e nei suoi effetti. Il senso guida la nostra azione, dà plausibilità a quello che si fa; per comprendere il senso abbiamo bisogno dello VERSTEHEN, intendere, dunque capire il significato, e dello ERKLAREN, spiegare, quindi la spiegazione causale del fenomeno.

Il concetto di agire

Il concetto di agire viene collegato a qualunque atteggiamento, attivo o passivo che sia, che viene unito ad un senso soggettivo. Un agire meccanico non viene preso in considerazione; dunque, l’agire è definito sociale quando:

  1. è riferito secondo il senso soggettivamente intenzionato di colui che agisce all’atteggiamento di altri individui;
  2. è con-determinato in base al riferimento dotato di senso;
  3. quando può essere spiegato in modo intelligibile in base a senso intenzionato.

La società

La società si presenta come il risultato di azioni individuali dotate di senso. Weber, inoltre, parla di relazione sociale come comportamento di più individui instaurato reciprocamente ed essa si fonda perciò esclusivamente sulla chance che si agisca socialmente in un dato modo dotato di senso.

L’agire sociale e i tipi di ideali

L’agire sociale non si può analizzare in termine di leggi immutabili, ma va valutato attraverso forme empiriche da verificare di volta in volta. La possibilità di cogliere le uniformità dell’agire, trova un modo valido per la formulazione di tipi ideali (IDEALTYPEN) dell’agire stesso. I tipi ideali sono il risultato di un procedimento dove il concetto di determinate caratteristiche prevalenti dell’agire sociale vengono astratte.

Weber distingue 4 tipi di ideali:

  1. Razionale rispetto allo scopo: è quello che risulta più evidente all’osservatore, perché l’agire è determinato da aspettative in relazione a scopi;
  2. Razionale rispetto al valore: quando l’agire è influenzato da credenze;
  3. Affettivo: quando l’agire è influenzato da sentimenti;
  4. Tradizionale: quando l’agire è influenzato da abitudini acquisite.

In sociologia i tipi ideali non si applicano solo ai comportamenti esterni ma si accentuano anche negli interni.

Ideali di potere

Inoltre, Weber costruisce anche i suoi tipi ideali di potere che si basano sulle diverse forme di legittimazione, che danno la loro legittimità alle credenze dei tipi ideali; i 4 tipi ideali di potere sono:

  1. Potere tradizionale: si verifica quando la legittimazione del potere è fondata sulla credenza di tradizioni ritenute valide da sempre;
  2. Potere carismatico: è fondato sul carisma di un individuo;
  3. Potere legale: si verifica quando la legittimazione poggia sulla credenza di ordinamenti giuridici.

Rapporto religione-società

Come accennato nell’introduzione, Weber dà un importante contributo al rapporto religione-società; egli individua la religione come la risposta agli interrogativi fondamentali della vita umana: la religione costituisce lo strato fondante della cultura di ogni società.

Max Weber
Una foto di Max Weber

Max Weber e il capitalismo

L’autore tedesco Max Weber dà particolare importanza anche al capitalismo e la sua specificità è data dal fatto che, in esso, la produzione economica è orientata a un profitto che non viene impiegato solo a migliorare un tenore di vita, ma per essere reinvestito in vista di maggiori profitti. Egli inoltre crede che il protestantesimo abbia favorito tutto ciò, mostra che il cristianesimo, a differenza di altre religioni, conteneva valori che promuovevano l’individualismo e un atteggiamento attivo nei confronti del mondo.

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La storia mi assolverà: celebre discorso di Fidel Castro https://cultura.biografieonline.it/fidel-castro-discorso/ https://cultura.biografieonline.it/fidel-castro-discorso/#comments Sat, 26 Nov 2016 16:06:40 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20490 Quello che segue è il testo del celebre discorso che Fidel Castro pronunciò in sua difesa il 16 ottobre 1953. La sua arringa durò circa quattro ore ed è ricordato con le sue ultime parole: “La storia mi assolverà“. Il tribunale dinnanzi al quale Castro si difese, lo processava con l’accusa di “attentato ai Poteri Costituzionali dello Stato e insurrezione“. Il rivoluzionario cubano organizzò un disastroso assalto armato alla caserma della Moncada, nella provincia di Oriente, il 26 luglio 1953.

La storia mi assolverà - Il celebre discorso di Fidel Castro
Fidel Castro

Fidel Castro, dopo gli studi in Legge fece praticantato in un piccolo studio associato dal 1950 al 1952. Sua intenzione era poi di candidarsi al parlamento per il “Partito Ortodosso”. Tuttavia il colpo di Stato del generale Fulgencio Batista rovesciò il governo di Carlos Prio Socarras e portò alla cancellazione delle elezioni. Castro denunciò allora Batista in tribunale per violazione della costituzione, ma la sua petizione venne rifiutata. In risposta Fidel Castro organizzò l’assalto che portò all’arresto suo e dei suoi compagni.

La maggior parte dei compagni venne giustiziata in carcere, non prima di aver subìto barbare torture. Castro venne in seguito rilasciato nel maggio 1955, grazie a una amnistia generale. Andò in esilio in Messico e negli Stati Uniti.

Gli estratti del testo che seguono testimoniano il valore umano di Castro e la personalità che ricoprì a livello storico per la rivoluzione, per Cuba e per il mondo intero.

Foto di Fidel Castro
Foto di Fidel Castro

Dal famoso discorso di Fidel Castro del 16 ottobre 1953

Signori Giudici,

mai un avvocato ha dovuto esercitare il suo ufficio in tali difficili condizioni; mai contro un accusato sono state commesse un tal cumulo di irregolarità schiaccianti. L’uno e l’altro sono in questo caso la stessa persona. Come avvocato, non ho potuto vedere il verbale né lo vedrò e, come accusato, da settantasei giorni sono chiuso in una cella solitaria, totalmente e assolutamente isolato, oltre tutte le prescrizioni umane e legali.

Chi sta parlando aborrisce con tutta la sua anima la vanità puerile e non sono parte del suo animo né del suo temperamento qualsiasi posa da tribuno né sensazionalismi di nessun tipo. Se ho dovuto assumere la mia propria difesa davanti a questo tribunale è per due motivi. Il primo perché praticamente mi si privò di essa completamente; il secondo perché solo chi era stato ferito tanto profondamente e aveva visto tanto indifesa la patria e avvilita la giustizia, può parlare in una occasione come questa con parole che siano sangue del cuore e organi vitali della verità. […]

Signori Giudici, quante pressioni si sono esercitate affinché mi si spogliasse anche di questo diritto consacrato a Cuba da lunga tradizione. Il tribunale non pote’ acconsentire a tali pretese perché era già lasciare un accusato al colmo della mancanza di difesa. Questo accusato che sta esercitando ora questo diritto, per nessuna ragione al mondo ometterà di dire quello che deve dire. […]

Vi ricordo che le vostre leggi di procedimento stabiliscono che il giudizio sarà “orale e pubblico”; senza dubbio, si è impedito al popolo l’entrata a questa sessione. Solo hanno lasciato passare due avvocati e sei  giornalisti, nei periodici dei quali la censura non permetterà pubblicare una sola parola. Vedo che ho per unico pubblico, in sala e nei corridoi, circa cento tra soldati e ufficiali. Grazie per la seria e amabile attenzione che mi state prestando! Che appaia di fronte a me tutto l’Esercito! Io so che un giorno arderà dal desiderio di lavare la terribile macchia di vergogna e di sangue che le ambizioni di un gruppo di persone senza anima ha lanciato sopra le uniformi militari. […]

Per ultimo devo dire che non si lasciò passare nella mia cella nessuno trattato di Diritto Penale. Solo posso disporre di questo minuscolo codice che mi ha prestato un avvocato, il valente difensore dei miei compagni: il Dott. Baudilio Castellanos. Allo stesso modo si proibì che giungessero nelle mie mani i libri di Martì: sembra che la censura del carcere li considerò troppo sovversivi. O sarà forse perché io dissi che Martì era l’autore intellettuale del 26 luglio? […]

José Martí fu un poeta, intellettuale, scrittore ed eroe cubano della guerra di indipendenza del 1895 contro la Spagna, durante la quale morì combattendo. Il suo alto contributo umano e intellettuale, nonché il suo sacrificio, alla patria cubana ne fanno sicuramente uno dei padri spirituali della Rivoluzione Cubana stessa.

Non importa in assoluto! Porto nel cuore le dottrine del Maestro e nel pensiero le nobili idee di tutti gli uomini che hanno difeso la libertà di tutti i popoli.

Solo una cosa chiedo al tribunale; spero che me la conceda, come compensazione di tanto eccesso e arbitrarietà che ha dovuto soffrire questo accusato senza protezione alcuna delle leggi: che si rispetti il mio diritto ad esprimermi in piena libertà. Senza di ciò non potrete soddisfare neanche la mera apparenza di giustizia e l’ultimo anello della catena sarebbe, più di nessun altro, di ignominia e codardia.

Confesso che qualcosa mi ha sorpreso. Pensavo che il Pubblico Ministero sarebbe venuto con una accusa terribile disposto a giustificare sino alla sazietà le pretese e i motivi per i quali in nome del diritto e della giustizia – e di quale diritto e di quale giustizia? – mi si deve condannare a ventisei anni di prigione. Però no. Si è limitato esclusivamente a leggere l’articolo 148 del Codice di Difesa Sociale, secondo il quale, più circostanze aggravanti, sollecita per me la rispettabile quantità di ventisei anni di prigione. Due minuti mi sembrano molto poco tempo per chiedere e giustificare che un uomo passi al chiuso più di un quarto di secolo. è forse per caso il Pubblico Ministero disgustato del Tribunale? […] Comprendo che è difficile, per un Pubblico Ministero che ha giurato fedeltà alla Costituzione della Repubblica, venire qui in nome di un governo incostituzionale, statuario, di nessuna legalità e minor moralità, a chiedere che un giovane cubano, avvocato come lui, chissà … altrettanto decente come lui, sia inviato a ventisei anni di carcere. Però il Pubblico Ministero è un uomo di talento e io ho visto persone, con meno talento di lui, scrivere lunghe arringhe […]

Signori Giudici: perché tanto interesse a che io taccia? […] è che manchi completamente la base giuridica, morale e politica per focalizzare seriamente la questione? è che si teme tanto la verità? è che si desidera che anche io parli per due minuti e che non tocchi qui i punti che non lascia dormire a certa gente dal 26 luglio? […] non accetterò mai questo bavaglio, perché in questo giudizio si sta dibattendo qualcosa in più della semplice libertà di un individuo: si discute di questioni fondamentali di principio, si dibatte delle basi stesse della nostra esistenza come nazione civilizzata e democratica. […]

[…] il Pubblico Ministero non merita neanche un minuto di replica. […]

E’ un principio elementare del Diritto Penale che il fatto imputato debba accordarsi esattamente al tipo di delitto prescritto dalla legge. Se non c’è legge esattamente applicabile al punto controverso, non c’è delitto.

L’articolo in questione dice testualmente: “Si imporrà una sanzione di privazione della libertà da tre a dieci anni all’autore di un atto diretto a promuovere un sollevamento di gente armata contro i Poteri Costituzionali dello Stato. La sanzione sarà la privazione da cinque a dieci anni se si porta ad effetto l’insurrezione” In che paese sta vivendo il Pubblico Ministero? Chi le ha detto che noi abbiamo promosso un sollevamento contro i Poteri Costituzionali dello Stato? Due cose risaltano alla vista. In primo luogo, la dittatura che opprime la nazione non è un potere costituzionale, ma semmai incostituzionale; nacque contro la Costituzione, oltre la Costituzione, violando la Costituzione legittima della Repubblica. La Costituzione legittima è quella che emana direttamente dal popolo sovrano. […] In secondo luogo, l’articolo parla di Poteri Costituzionali, vale a dire, al plurale, non al singolare, perché considera il caso di una Repubblica retta da un Potere Legislativo, un Potere esecutivo e un Potere Giuridico che si equilibrano e si contrappesano uno con l’altro. Noi abbiamo promosso una ribellione contro un potere unico, illegittimo, che ha usurpato e riunito in uno solo i Poteri  Legislativo, Esecutivo e Giuridico della Nazione, distruggendo tutto il sistema che precisamente cercava di proteggere l’articolo del codice che stiamo analizzando. […]

Vi avverto che vo a iniziare. Se nelle vostre anime resta ancora un pezzetto di amore per la patria, di amore per l’umanità, di amore per la giustizia, ascoltatemi con attenzione. So che mi si obbligherà al silenzio per molti anni; so che cercheranno di occultare la verità con tutti i mezzi possibili; so che contro di me si alzerà la congiura dell’oblio. Però non per questo la mia voce si risparmierà […]

Ascoltai il dittatore il lunedì 27 luglio […] L’accumulo di menzogne e calunnie che pronunciò nel suo linguaggio turpe, odioso e ripugnante, solo si può comparare con l’enorme quantità di sangue giovane e limpido che dalla notte prima stava spargendo, con sua conoscenza, consenso, complicità e plauso, la turba più crudele di assassini che possa mai concepirsi. […]

E’ necessario che mi occupi un pò del considerare i fatti. Si disse, da parte del governo stesso, che l’attacco fu realizzato con tanta precisione e perfezione che evidenziava la presenza di esperti militari nella elaborazione del piano. Niente di più assurdo. Il piano fu tracciato da un gruppo di giovani nessuno dei quali aveva esperienza militare; e rivelo i loro nomi, meno due di loro che non sono né morti né catturati: Abel Santamaria, José Luis Tasende, Renato Guitart Rosell, Pedro Miret, Jesus Montané e colui che parla. La metà sono morti, e con giusto tributo alla loro memoria posso dire che non erano esperti militari, però avevano patriottismo sufficiente per dare, a parità di condizioni, una sonora lezione a tutti quanti i generali del 10 marzo (allusione ai generali che appoggiarono il colpo di Stato di Fulgencio Batista il 10 marzo del 1952, N.d.T.) che non sono militari né patrioti. […]

E’ ugualmente certo che l’attacco si realizzò con coordinazione magnifica. […]

Abel Santamaria con ventuno uomini aveva occupato l’Ospedale Civile; con lui c’erano un medico e due nostre compagne per accudire i feriti. Raul Castro, con dieci uomini, occupò il Palazzo di Giustizia; e a me toccò attaccare l’accampamento con il resto, novantacinque uomini. Arrivai con un primo gruppo di quarantacinque, preceduto da un’avanguardia di otto  […] Il gruppo di riserva, che era in possesso di quasi tutte le armi lunghe, dato che le corte andavano all’avanguardia, prese per una via sbagliata e si perse completamente in una città che non conoscevano. […]

Si fecero sin dai primi momenti numerosi prigionieri, circa venti, e ci fu un momento in cui tre nostri uomini  […] Ramiro Valdez, Jose Suarez e Jesus Montané, riuscirono ad entrare in una baracca e a detenere lì per un certo tempo circa cinquanta soldati. Questi prigionieri testimoniarono davanti al Tribunale, e tutti senza eccezione hanno riconosciuto che furono trattati con assoluto rispetto, senza dover soffrire neanche una parola di insulto. […]

La disciplina da parte dell’Esercito fu abbastanza scarsa. Vinsero alla fine per il numero, che dava loro una superiorità di 15 ad uno, e per la protezione  che loro forniva la difesa della fortezza. […]

Quando mi convinsi che tutti i nostri sforzi per prendere la fortezza erano già vani, cominciai a ritirare i nostri uomini a gruppi di otto e dieci. La ritirata fu protetta da sei cecchini che al comando di Pedro Miret e di Fidel Labrador, bloccarono eroicamente il passo all’Esercito. Le nostre perdite nella lotta erano state insignificanti. Il gruppo dell’Ospedale Civile non ebbe più di una vittima; il resto fu vinto dal situarsi delle truppe dell’esercito di fronte all’unica uscita dell’edificio, e soltanto deposero le armi quando non rimaneva loro più neanche un proiettile. Con loro stava Abel Santamaria, il più generoso, amato ed intrepido dei nostri giovani, la cui gloriosa resistenza lo rende immortale davanti alla storia di Cuba. Vedremo la sorte che loro toccò e come desiderò sradicare Batista la ribellione e l’eroismo della nostra gioventu’.

I nostri piani erano di proseguire la lotta sulle montagne in caso di insuccesso dell’attacco al reggimento. Potei riunire un’altra volta, a Siboney, un terzo delle nostre forze; pero molti si erano già persi d’animo. Una ventina decisero di consegnarsi; già vedremo che cosa fu di loro. Il resto, diciotto uomini, con le armi e l’attrezzatura che rimanevano, mi seguirono sulle montagne. Il terreno era a noi perfettamente sconosciuto. Durante una settimana occupammo la parte alta della Cordigliera della Grande Pietra e l’Esercito occupò la base. né noialtri potevamo scendere né loro si decisero a salire. Non furono, dunque, le armi; furono la fame e la sete che vinsero l’ultima resistenza. Dovetti distribuire gli uomini in piccoli gruppi: alcuni riuscirono a filtrare attraverso le linee dell’esercito, altri  furono consegnati da monsignor Perez Serantes. Quando solo restavano con me due compagni: Jose Suarez e Oscar Alcalde, tutti e tre totalmente stremati, all’alba di sabato 1° di agosto, una forza al comando del tenente Sarria ci sorprese dormendo. Già la mattanza dei prigionieri era cessata in seguito alla tremenda reazione che provocò nella cittadinanza, e questo ufficiale, uomo di onore, impedì che alcuni assassini ci uccidessero  […]

Si è ripetuto con molta enfasi da parte del governo che il popolo non assecondò il movimento. mai avevo udito una affermazione tanto ingenua e, al tempo stesso, tanto piena di malafede. Pretendono evidenziare con ciò la sottomissione e codardia del popolo  […] Se il Moncada fosse caduto in mano nostra persino le donne di Santiago di Cuba avrebbero impugnato le armi!

Molti fucili furono caricati ai combattenti dalle infermiere dell’Ospedale Civile! Anch’esse combatterono. Questo non lo dimenticheremo mai. […]

Il Pubblico Ministero era molto interessato a conoscere le nostre possibilità di successo. Queste possibilità si basano su ragioni di ordine tecnico-militare e di ordine sociale.

Si è desiderato instaurare il mito delle armi moderne come certezza della totale impossibilità della lotta aperta e frontale del popolo contro la tirannia. Le sfilate militari, le grandi parate di materiale bellico, hanno per obiettivo il fomentare questo mito e creare nella cittadinanza un complesso di assoluta impotenza. Nessun arma, nessuna forza è capace di vincere a un popolo che si decide a lottare per i propri diritti. Gli esempi storici passati e presenti sono incontestabili. è ben recente il caso della Bolivia, dove i minatori, con cartucce di dinamite, sconfissero e distrussero a reggimenti dell’esercito regolare.

Pero noi cubani non dobbiamo cercare esempi in altri paesi, perché nessuno è tanto eloquente come quello della nostra patria. Durante la guerra del 1895 c’erano a Cuba circa mezzo milione di soldati spagnoli in armi […] I cubani non disponevano in generale di altra arma che il machete, perché le sue cartucciere erano quasi sempre vuote. c’è un passaggio indimenticabile della nostra guerra di indipendenza narrato dal generale Mirò Argenter […] ” la gente  […] in maggior parte provvista di solo machete, fu decimata […] Attaccarono agli spagnoli con i pugni, senza pistola […]”

Così lottano i popoli quando desiderano conquistare la propria libertà: tirano pietre agli aerei e deviano i carri armati a morsi! […]

Dissi che la seconda ragione sulla quale si basava la nostra possibilità di riuscita era di ordine sociale. perché avevamo la sicurezza di contare sul popolo? Quando parliamo di popolo non intendiamo i settori concilianti e conservatori della nazione, a quelli per cui va bene qualsiasi regime di oppressione, qualsiasi dittatura, qualsiasi dispotismo, prostrandosi dinanzi al reggente di turno sino a rompersi la fronte contro il pavimento.

Intendiamo per popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta, quella a cui tutti offrono e quella che tutti ingannano e tradiscono, quella che anela una patria migliore, più degna, più giusta […]

Noi chiamiamo popolo se di lotta si tratta, ai seicentomila cubani che stanno senza lavoro desiderosi di guadagnarsi il pane con onore senza dover emigrare dalla propria patria in cerca di sostentamento; ai cinquecentomila operai stagionali della campagna che abitano in baracche miserabili, che lavorano quattro mesi e soffrono la fame per il resto dell’anno dividendo con i propri figli la miseria, che non hanno un fazzoletto di terra per seminare e la cui esistenza dovrebbe muovere a più compassione se non ci fossero tanti cuori di pietra; ai quattrocentomila operai industriali e braccianti le cui pensioni, tutte, sono rapinate, […] la cui vita è il lavoro perenne e il cui riposo è la tomba; ai centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro, contemplandola sempre tristemente come Mose’ alla terra promessa, per poi morire senza mai giungere a possederla, che devono pagare per i fazzoletti di terra come servi feudali una parte dei propri prodotti, che non possono amarla, né migliorarla, né abbellirla, o piantare un cedro o un arancio perché non sanno se un giorno verrà un funzionario a dirgli che deve andarsene; ai trentamila maestri e professori tanto pieni di abnegazione, di sacrifici e necessari al destino migliore delle future generazioni e che tanto male li si tratta e paga; ai ventimila piccoli commercianti appesantiti dai debiti, rovinati dalle crisi e ammazzati dalla piaga di funzionari filibustieri e venali; ai diecimila giovani professionisti: medici, ingegneri, avvocati, veterinari, pedagoghi, dentisti, farmaceutici, giornalisti, pittori, scultori, ecc., che escono dalle aule con i propri titoli desiderosi di lotta e pieni di speranza per trovarsi poi in un vicolo senza uscita, tutte le porte chiuse, sorde alle suppliche e al clamore. Questo è il popolo! Quello che soffre tutte le sue disgrazie ed è pertanto capace di combattere con tutto il coraggio! A questo popolo il cui cammino di angustia è lastricato di inganni e false promesse, non andavamo a dire: “Ti daremo” ma semmai: “Ecco prendi, lotta ora con tutte le tue forze perché siano tue la libertà e la felicità!”. […]

Cuba potrebbe albergare splendidamente una popolazione tre volte maggiore; non ci sono dunque ragioni perché esista la miseria  fra i suoi attuali abitanti. […]

A quelli che mi chiamano per questa convinzione sognatore, io rispondo con le parole di Martí: “Il vero uomo non guarda da che lato si vive meglio, ma da che lato sta il dovere; e questo è l’unico uomo pratico il cui sogno di oggi sarà la legge del domani, perché colui che ha posto gli occhi agli organi vitali universali e visto ribollire i popoli, tra lamenti e sangue, nella conca dei secoli, egli sa che il divenire, senza nessuna eccezione, sta dal lato del dovere“.

Unicamente inspirati a tali elevati propositi è possibile concepire l’eroismo di quelli che caddero a Santiago di Cuba. Gli scarsi mezzi materiali, sui quali dovemmo contare, impedirono il sicuro successo. […]

I politici spendono nelle loro campagne milioni comprando coscienze, e un pugno di cubani che desiderarono salvare l’onore della patria dovette affrontare la morte con le mani vuote per carenza di risorse. Ciò spiega da chi è stato governato il paese sino ad ora, non da uomini generosi e fedeli, ma dal bassofondo della politicheria […] Con maggior orgoglio che mai dico che conseguente ai nostri principi, nessun politico di ieri ci ha visti bussare alla sua porta chiedendo un centesimo, che i nostri mezzi furono messi insieme con esempio di sacrificio che non ha paragoni, come quello del giovane Elpidio Sosa che vendette la sua attrezzatura e si presentò da me un giorno con trecento pesos “per la causa; Fernando Chenard, che vendette la apparecchiatura del studio fotografico con il quale si guadagnava da vivere; Pedro Marrero che impegnò il suo stipendio di molti mesi e al quale fu necessario impedire che vendesse persino i mobili della sua casa; Oscar Alcalde, che vendette il suo laboratorio di prodotti farmaceutici; Jesus Montané, che consegnò il denaro che aveva risparmiato per più di cinque anni, e così nello stesso stile molti altri, spogliandosi ognuno di quel poco che aveva.

Bisogna avere una fede molto grande nella propria patria per agire così, e questi ricordi di idealismo mi portano direttamente al capitolo più amaro di questa difesa: il prezzo che fu fatto loro pagare dalla tirannia per il desiderio di liberare Cuba dalla oppressione e dalla ingiustizia. […]

I fatti sono ancora recenti, però quando gli anni passeranno e il cielo della patria si schiarirà, quando gli animi esaltati si quieteranno e la paura non turberà più gli spiriti, si inizierà allora a vedere in tutta la sua spaventosa realtà la magnitudine del massacro, e le generazioni future rivolgeranno terrorizzate gli occhi a questo atto di barbarie senza precedenti nella nostra storia. Però non desidero che l’ira mi accechi, perché ho bisogno di tutta la chiarezza della mia mente e la serenità del cuore distrutto per esporre i fatti così come occorsero, con tutta semplicità, senza drammatismi, perché sento vergogna come cubano, che alcuni uomini senza anima, con i suoi crimini inqualificabili, abbiano disonorato la nostra patria dinanzi al mondo.

Non fu mai il tiranno Batista un uomo di scrupoli che tentenna prima di dire al popolo la più fantastica menzogna. […]

Le cose che affermò il dittatore dal poligono dell’accampamento di Columbia, sarebbero degne di risa se non fossero così impappate di sangue. Disse che gli attaccanti erano un gruppo di mercenari tra i quali c’erano molti stranieri; […] disse che l’attacco era stato ideato dall’ex-presidente Prio e con suo denaro, e si è provato sino alla sazietà l’assenza assoluta di ogni relazione tra questo movimento e il regime passato; disse che eravamo armati di mitragliatrici e granate a mano, e qui i tecnici dell’Esercito hanno dichiarato che avevamo solo una mitragliatrice e nessuna granata a mano; disse che avevamo sgozzato la postazione di guardia, e qui sono apparsi a verbale i certificati di morte e i certificati medici corrispondenti a tutti i soldati morti o feriti, dai quali, risulta che nessuno presentava lesioni di arma bianca. […]

Quando un capo di stato o chi pretende esserlo fa dichiarazioni al paese, non parla per parlare: alberga sempre qualche obiettivo, persegue sempre un effetto, lo anima sempre una intenzione. Se eravamo già stati militarmente vinti, se già non rappresentavamo più un pericolo per la dittatura, perché ci si calunniava in questo modo? Se non è chiaro che era un discorso sanguinario, se non è evidente che si pretendeva giustificare i crimini che si stavano commettendo dalla notte prima e che si andavano a commettere dopo, che parlino per me i numeri: il 27 luglio, nel suo discorso dal poligono militare, Batista disse che gli attaccanti avevano avuto trentadue morti; alla fine della settimana i morti salivano a più di ottanta. In quale battaglia, in quali luoghi, in quali combattimenti morirono questi giovani? Prima che parlasse Batista si erano assassinati più di venticinque prigionieri; dopo che parlò se ne assassinarono cinquanta.

Che grande senso dell’onore quello di quei militari modesti, tecnici e professionisti dell’Esercito, che al comparire dinanzi al tribunale non deformarono i fatti, e relazionarono attenendosi alla stretta verità. Questi si che sono militari che onorano l’uniforme, questi si che sono uomini! né il militare né l’uomo vero è capace di macchiare la sua vita con la menzogna o il crimine. Io so che sono terribilmente indignati con i barbari omicidi che si commisero, io so che sentono con ripugnanza e vergogna l’odore di sangue omicida che impregna sino all’ultima pietra il Quartiere Moncada.

Esorto il dittatore a ripetere ora, se puo’, le sue vili calunnie contro le testimonianze di questi onorevoli militari, lo esorto a che giustifichi davanti al popolo di Cuba il suo discorso del 27 luglio, che non taccia, che parli! Che dica se la Croce d’Onore che pose nel petto agli eroi del massacro era per premiare i crimini ripugnanti che si commisero; che assuma sin da ora la responsabilità davanti alla storia e non pretenda di dire poi che furono i soldati senza suoi ordini, che spieghi alla nazione i settanta omicidi; fu molto il sangue! La nazione ha bisogno di una spiegazione, la nazione lo domanda, la nazione lo esige. […]

Non si ammazzò durante un minuto, un’ora o un giorno intero, ma una intera settimana, i colpi, le torture, […] non cessarono un istante come strumento di sterminio maneggiato da perfetti artigiani del crimine. Il Quartiere Moncada si convertì in un laboratorio di tortura e morte, e alcuni uomini indegni convertirono l’uniforme militare in pannelle da macellai. I muri si incrostarono di sangue; nella parete le pallottole restarono incrostate con frammenti di pelle e capelli umani […]

Le mani criminali che reggono il destino di Cuba avevano scritto per i prigionieri all’entrata di quell’antro di morte, la scritta dell’inferno: “LASCIATE OGNI SPERANZA”. […]

Conosco molti dettagli di come si realizzarono questi crimini, per bocca di alcuni militari che pieni di vergogna, mi riferirono le scene di cui erano stati testimoni. […]

Il primo prigioniero assassinato fu il nostro medico Mario Muñoz, che non portava armi né uniforme e vestiva il suo camice di medico, un uomo generoso e competente che aveva prestato cura con la stessa devozione tanto all’avversario quanto all’amico ferito. Nel cammino dall’Ospedale Civile al Quartiere gli spararono un colpo alla schiena e lo lasciarono lì con la bocca rivolta in basso in una pozza di sangue. Però la mattanza di prigionieri non cominciò sino alle tre del pomeriggio. Fino a questa ora si aspettarono ordini. Arrivò dunque dall’Avana il generale Martin Diaz Tamayo, il quale portò istruzioni concrete uscite da una riunione dove si trovavano Batista, il capo dell’Esercito, il capo del SIM [Servizio di Intelligence Militare] e altri.

Disse che “era stata una vergogna e un disonore per l’Esercito aver avuto nel combattimento tre volte più vittime degli attaccanti e che si dovevano uccidere dieci prigionieri per ogni soldato morto” Questo fu l’ordine! […]

Quello di cui questi uomini avevano bisogno era precisamente questo ordine. Nelle loro mani perì il meglio di Cuba: i più valorosi, i più onorati, i più idealisti. Il tiranno li chiamò mercenari, e lì essi stavano morendo come eroi in mano di uomini che ricevono uno stipendio dalla Repubblica e i quali con le armi che essa ha dato loro perché la difendano, servono piuttosto gli interessi di un manipolo e assassinano i migliori cittadini.

Per mezzo della tortura offrivano loro la vita se tradendo la propria posizione ideologica si prestavano a dichiarare falsamente che Prío [Carlos Prío Socarrás, Ex Presidente cubano in esilio] aveva dato loro il denaro, e come essi rifiutavano indignati la proposta, continuavano torturandoli orribilmente. […]

Le fotografie non mentono e quei cadaveri appaiono distrutti. […]

Questo lo fecero per molti giorni e assai pochi prigionieri di quelli che erano detenuti sopravvissero. […]

Signori Giudici, dove stanno i nostri compagni detenuti nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio che si sa erano settanta nella zona di Santiago di Cuba? Solamente tre e le due ragazze sono ricomparsi; […]

Dove stanno i nostri compagni feriti? Solo cinque sono comparsi; i restanti furono ugualmente assassinati. Qui, al contrario, hanno sfilato venti militari che furono nostri prigionieri e che secondo le loro stesse parole non ricevettero neanche una offesa. Qui hanno sfilato trenta feriti dell’Esercito, molti di loro in combattimenti sulla strada, e nessuno di essi fu giustiziato. Se l’Esercito ebbe diciannove morti e trenta feriti, com’e’ possibile che noi abbiamo avuto ottanta morti e cinque feriti? […]

Come può spiegarsi la favolosa proporzione di sedici morti per un ferito, se non giustiziando i feriti nell’ospedale stesso e assassinando poi gli indifesi prigionieri? Questi numeri parlano senza possibile replica. “E’ una vergogna e un disonore per l’Esercito aver avuto nel combattimento un numero di vittime tre volte superiore agli attaccanti; bisogna ammazzare dieci prigionieri per ogni soldato morto …” Questo è il concetto che hanno dell’onore i caporali divenuti generali il 10 di marzo [il giorno del colpo di stato che portò Batista al potere], e questo è l’onore che desiderano imporre all’Esercito nazionale. Onore falso, onore di apparenza che si basa sulla menzogna, la ipocrisia e il crimine; assassini che plasmano con il sangue una maschera di onore. Chi disse loro che morire combattendo è un disonore? Chi disse loro che l’onore di un Esercito consiste nell’assassinare feriti e prigionieri di guerra? In guerra gli eserciti che assassinano i prigionieri si sono sempre guadagnati il disprezzo e l’esecrazione del mondo. […]

Il militare di onore non assassina il prigioniero indifeso dopo il combattimento, ma lo rispetta; non giustizia il ferito, ma lo aiuta; impedisce il crimine e se non può impedirlo fa come quel capitano spagnolo che sentendo gli spari con cui si fucilavano gli studenti ruppe indignato la sua spada e rinunciò di continuare a servire quell’esercito. […]

Per i miei compagni morti non chiedo vendetta. Dato che le loro vite non avevano prezzo, non potrebbero pagarla con la loro tutti i criminali messi insieme. Non è con il sangue che si può pagare la vita dei giovani che morirono per il bene di un popolo; la felicità di questo popolo è l’unico prezzo degno che si può pagare per quelle vite.

In più i miei compagni non sono dimenticati, né morti; vivono oggi più che mai e i suoi assassini devono vedere terrorizzati come sorge dai loro cadaveri eroici lo spettro vittorioso delle loro idee. Che parli per me l’Apostolo: “c’è un limite al pianto durante la sepoltura dei morti, ed è l’amore infinito per la patria e la gloria che si vede sopra i loro corpi, che non teme, non si abbatte né mai si indebolisce; perché i corpi dei martiri sono l’altare più bello della dignità “.

… Quando si muore
Nelle braccia della patria gradita,
La morte finisce, la prigione si rompe;
Comincia alla fine, con il morir, la vita!

Fin qui mi sono attenuto quasi esclusivamente ai fatti. Come non dimentico che sto davanti ad un Tribunale di Giustizia che mi giudica, dimostrerò ora che unicamente dalla nostra parte sta il diritto e che la sanzione imposta ai miei compagni e quella che si pretende di impormi, non hanno giustificazione dinanzi alla ragione, dinanzi alla società e dinanzi alla vera giustizia. […]

Sto per narrarvi una storia. C’era una volta una Repubblica. Aveva la sua Costituzione, le sue leggi, le sue libertà; Presidente, Parlamento, Tribunali; tutti potevano riunirsi, associarsi, parlare e scrivere in piena libertà. Il governo non soddisfaceva il popolo, però il popolo poteva cambiarlo e già mancavano alcuni giorni per farlo. Esisteva una opinione pubblica rispettata e riverita e tutti i problemi di interesse collettivo erano discussi liberamente. C’erano partiti politici, ore dottrinali di radio, programmi polemici della televisione, atti pubblici e nel popolo palpitava l’entusiasmo. Questo popolo aveva sofferto molto e se non era felice, desiderava esserlo e aveva diritto a ciò. Lo avevano ingannato molte volte e guardava al passato con vero terrore. Credeva ciecamente che questo non poteva tornare; era orgoglioso del suo amore per la libertà e viveva convinto che essa sarebbe stata rispettata come cosa sacra; sentiva una fiducia nobile nella sicurezza che nessuno potesse provare a commettere il crimine di attentare contro le proprie istituzioni democratiche. Desiderava un cambiamento, un miglioramento, un progresso e lo vedeva vicino. Tutta la sua speranza stava nel futuro.

Povero popolo! Una mattina la cittadinanza si svegliò di soprassalto; nelle ombre della notte gli spettri del passato avevano congiurato mentre essa dormiva, e ora la tenevano afferrata per le mani, per i piedi e per il collo. […] Non, non era un incubo; si trattava della triste e terribile realtà: un uomo chiamato Fulgencio Batista aveva commesso il crimine che nessuno pensava.

Successe dunque che un umile cittadino di quel popolo, che desiderava credere nelle leggi della Repubblica e nell’integrità dei suoi giudici  […] cercò un codice di Difesa Sociale per vedere che castigo prescriveva la società per l’autore di un simile fatto e lo trovò come segue:

Incorrerà nella sanzione di privazione della libertà da sei a dieci anni colui che effettuerà qualsiasi atto diretto a cambiare in tutto o in parte, per mezzo della violenza, la Costituzione dello Stato o la forma di governo stabilita.

Si imporrà una sanzione di privazione della libertà da tre a dieci anni all’autore di un atto diretto a promuovere un sollevamento di gente armata contro i Poteri Costituzionali dello Stato. La sanzione sarà la privazione da cinque a dieci anni se si porta ad effetto l’insurrezione”  […]

Senza dire niente a nessuno, con il Codice in una mano e i fogli nell’altra, il menzionato cittadino si presentò nel vecchio edificio della capitale dove funzionava il tribunale competente, che era obbligato a promuovere la causa e castigare i responsabili di quel fatto, e presentò uno scritto denunciando i delitti e chiedendo per Fulgencio Batista e per i suoi diciassette complici la sanzione di 108 anni di prigione come ordinava imporre il Codice di Difesa Sociale con tutte le aggravanti […]

Passarono giorni e mesi. Che tradimento. L’accusato non era molestato, passeggiava per la Repubblica come un barone, lo chiamavano onorevole signore e generale  […]

Passarono ancora giorni e mesi. Il popolo si stancò di abusi e di burle. I popoli si stancano! Venne la lotta, e quindi quell’uomo che stava fuori dalla legge, che aveva occupato il potere con la violenza, contro la volontà del popolo e aggredendo l’ordine legale, torturo’, assassino’, incarcerò e accusò dinanzi ai tribunali quelli che lottavano per la legge e per ridare al popolo la sua libertà.

Signori Giudici,

io sono quel cittadino che un giorno si presentò inutilmente dinanzi al Tribunale per chiedere che castigasse a quegli ambiziosi che violarono le leggi e ridussero in cenere le nostre istituzioni, e ora è a me che si accusa  […] Mi direte che quella volta i giudici della Repubblica non agirono perché glielo si impedì con la forza: dunque, confessatelo: questa volta ugualmente la forza vi obbligherà a condannarmi. La prima volta non poteste castigare il colpevole; la seconda dovrete castigare l’innocente. La donzella della giustizia due volte violentata con la forza. […]

Cuba sta soffrendo un crudele e ignobile dispotismo e voi non ignorate che la resistenza di fronte al dispotismo è legittima; questo è un principio universalmente riconosciuto e la nostra Costituzione del 1940 lo consacrò espressamente nell’articolo 40: “E’ legittima la resistenza adeguata per la protezione dei diritti individuali garantiti anteriormente” […]

Il diritto di insurrezione dinanzi alla tirannia è uno di quei principi che, sia o no incluso nella Costituzione Giuridica, ha sempre piena vigenza in una società democratica. […]

Il diritto alla ribellione contro il dispotismo, Signori Giudici, è stato riconosciuto dalla più lontana antichità sino al presente, da uomini di tutte le dottrine, di tutte le idee e di tutte le credenze. Nelle monarchie teocratiche della più remota antichità in Cina, era praticamente un principio costituzionale che quando il re governasse in modo turpe e dispotico, fosse deposto e rimpiazzato da un principe virtuoso.

I pensatori dell’antica India impararono la resistenza attiva contro gli arbitri dell’autorità. Giustificarono la rivoluzione e tradussero molte volte le proprie teorie in pratica. […]

San Tommaso d’Aquino, nella “Summa Theologica” rifiutò la dottrina della tirannide, e sostenne, senza dubbio, la tesi che i tiranni devono essere deposti dal popolo.

Martin Lutero proclamò che quando il governo degenera in tirannide ferendo la legge, i sudditi sono liberati dal dovere dell’ubbidienza. […] Calvino, il pensatore più notevole della Riforma dal punto di vista delle idee politiche, postula che il popolo ha diritto a prendere le armi per opporsi a qualsiasi usurpazione.

Niente meno che un gesuita spagnolo dell’epoca di Filippo II, Juan Mariana, nel suo libro “De Rege et Regis Institutione”, afferma che quando il governante usurpa il potere, o quando eletto, regge la vita pubblica in maniera tirannica, è lecito l’assassinio […] direttamente, o avvalendosi dell’inganno, con il minor disturbo possibile. […]

Già nel 1649 John Milton scrive che il potere politico risiede nel popolo, il quale può nominare o destituire i re […]

John Locke nel suo “Trattato di Governo” sostiene che quando si violano i diritti naturali dell’uomo, il popolo ha il diritto e il dovere di sopprimere o cambiare il governo: “L’unico rimedio contro la forza senza autorità sta nell’opporre ad essa la forza”. Jean-Jacques Rousseau dice con molta eloquenza nel suo “Contratto Sociale”:

Mentre un popolo si vede forzato a obbedire e obbedisce, fa bene; e non appena può strapparsi il giogo e se lo strappa, fa meglio, recuperando la sua libertà con lo stesso diritto che gli è stato tolto“. […]

Rinunciare alla propria libertà è rinunciare alla qualità dell’uomo, ai diritti dell’umanità, e anche ai doveri. […] Tale rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo; e togliere tutta la libertà alla volontà è togliere ogni moralità alle azioni. […]

La famosa Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo lasciò alle generazioni future questo principio:

“Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per questo il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri”. “Quando una persona si impossessa della sovranità deve essere condannata a morte dagli uomini liberi”

Credo di aver giustificato sufficientemente il mio punto di vista […] Però c’è una ragione che ci assiste più potente di tutte le altre: siamo cubani ed essere cubano implica un dovere, non compierlo è un crimine ed un tradimento. Viviamo orgogliosi della storia della nostra patria; la apprendiamo a scuola e siamo cresciuti udendo parlare di libertà, di giustizia e di diritti. […] Tutto questo apprendemmo e non lo dimenticheremo […]

Nascemmo in un paese libero che ci lasciarono i nostri padri, e sprofonderà l’Isola nel mare prima che acconsentiremo ad essere schiavi di qualcuno. […]

Termino la mia difesa, però non lo farò come fanno sempre tutti gli avvocati, chiedendo la libertà del difeso; non posso chiederla quando i miei compagni stanno soffrendo nell’Isola dei Pini una prigionia ignobile. Inviatemi insieme a loro a condividere la loro sorte, è concepibile che gli uomini che hanno onore siano morti o prigionieri in una repubblica dove è presidente un criminale e un ladro.

Ai Signori Giudici, la mia sincera gratitudine per avermi permesso di esprimermi liberamente senza meschine coazioni […] Resta tuttavia all’Udienza un problema più grave: qui stanno le cause iniziate per i settanta omicidi, cioè per il più grande massacro che abbiamo conosciuto, e i colpevoli restano liberi con l’arma in mano che è una minaccia perenne per la vita dei cittadini; se non cade sopra di essi tutto il peso della legge, per codardia o perché ve lo impediscono, e non rinunciano in pieno tutti i giudici, io ho pietà della vostra dignità e compassione per la macchia senza precedenti che cadrà sopra il Potere Giuridico.

In quanto a me so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, pieno di minacce, di vile e codardo rancore, però non lo temo, così come non temo la furia del tiranno miserabile che ha preso la vita a settanta fratelli miei.

Condannatemi. Non importa. La storia mi assolverà.

Fidel Castro

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Durkheim, la teoria sociologica https://cultura.biografieonline.it/durkheim-teoria/ https://cultura.biografieonline.it/durkheim-teoria/#respond Fri, 04 Nov 2016 17:21:15 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20258 La teoria del sociologo francese Emile Durkheim si pone in linea di continuità con la corrente positivista di Auguste Comte, anche se, rispetto a quest’ultimo, Durkheim sarà più portato ad attuare uno studio di tipo empirico.

Sociologia - Durkheim - teoria - pensiero - filosofia
La divisione del lavoro sociale (De la division du travail social) • La tesi di Durkheim del 1893

Durkheim nasce in Francia nel 1858. Si forma sotto la guida dei suoi maestri, Gabriel Monod e Fustel de Colanges (due storici) ed Emile Boutroux, un filosofo. Inoltre subisce l’influenza della scuola organicista tedesca.

Nel 1902, si trasferisce a Parigi dove si appresta ad insegnare, alla Sorbona, Storia e teoria dell’educazione che diventerà in seguito cattedra di educazione e sociologia. Durkheim contribuirà in maniera decisiva al riconoscimento della sociologia sia come scienza sia come disciplina didattica.

Durkheim: teoria sociologica

La teoria sociologica di Durkheim si colloca tra le teorie che vengono definite olistiche. Deriva chiaramente dall’Olismo, la teoria della totalità. Egli si accorge che servono delle regole per lo studio del metodo sociale e decide di allontanarsi dalle regole biologiche e fisiche.

Durkheim riteneva inoltre che la società fosse un’entità fondata sui generis, dotata di un carattere proprio ma non riducibile. Ed essa era costituita da “fatti sociali”. Ciò che più colpiva Durkheim era il fatto che la società, fin dalla nascita, forma gli individui secondo i valori e i comportamenti che sono propri dell’epoca in cui l’individuo vive. Inoltre, osserva anche che la società e le istituzioni che la compongono hanno continuità. Questa cosa va al di là della vita dell’individuo, o meglio dire, dell’attore sociale.

I fatti sociali e l’attore sociale

I fatti sociali sono maniere d’agire, di pensare e di sentire e sono entità esterne a noi, sono cose che vanno analizzate come tali e sono coercitivi, in quanto s’impongono a noi.
Dunque, Durkheim spiegava nelle “Regole del metodo sociologico” :

Quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna cercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve“.

La dimensione culturale è molto importante nella visione di Durkheim e ci permette di comprendere come il modello funzionalista presenti sempre il problema sociale, soprattutto, per il mantenimento dell’ordine e dell’integrazione dell’attore sociale nel sistema sociale stesso; l’ordine e l’integrazione sono ottenuti dall’attore sociale tramite l’assimilazione dei valori e delle norme morali dominanti.

Foto di Emile Durkheim
Emile Durkheim

Ordine e solidarietà collettiva

Quindi, per Durkheim, assume una posizione centrale il problema dell’ordine, una struttura che limita la spinta naturale dell’uomo verso uno stato di guerra universale. Egli considera, infatti, gli individui, se lasciati a se stessi, come esseri egoisti e volenterosi ad esaudire i loro desideri. Dunque, la società si presenta come fenomeno morale di solidarietà collettiva.

In Durkheim troviamo una Dicotomia, ossia divisione, tra indeterminatezza, che è attribuita alla natura dell’uomo, e la determinatezza che la società sa avere. L’accento posto sull’importanza dei valori e delle norme sociali tende ad aumentare la presenza di disordine e dell’anomia. Elementi che caratterizzano la società industriale del suo tempo.

Il termine anomia (dal greco anomos, privo di leggi) sta ad indicare situazioni nelle quali i valori e i comportamenti validi nelle situazioni d’origine, non sono più validi e/o adeguati a causa dei rapidi cambiamenti sociali che provocano nell’individuo disorientamento.

La sua prima grande opera è “La divisione del lavoro sociale”. Con essa analizza come la società contemporanea diventa sempre più articolata e complessa, dove altrettanto lo sono i ruoli, per cui nasce la “solidarietà organica”. Questa si differenzia dalla quella primitiva, definita “meccanica” che è propria di una società semplice.

Nella solidarietà organica il tutto si basa sui rapporti di natura funzionali. Perché ognuno è indispensabile per portare avanti il progresso della società. Nella solidarietà meccanica invece si fa riferimento a valori e a norme proprie della società tradizionale nella quale gli individui sono molto simili tra loro.

Il Suicidio

La sua opera “Il Suicidio” (1897) può essere considerata come uno dei primi esempi di ricerca empirica in sociologia. In essa Durkheim analizza i dati statistici relativi ai casi di suicidio in Europa. Egli notò che il tasso di suicidio aumentava a seconda di alcuni fattori. Tra essi vi erano le stagioni e le situazioni di rapide trasformazioni in cui venivano a trovarsi le persone. Inclusi i fattori economici e gli eventi bellici.

Da questa ricerca evinse inoltre che il tasso di suicidio era generalmente più alto nei paesi dove prevaleva la religione protestante, mentre diminuiva dove erano cattolici.

Durkheim introduce ed identifica 3 tipi di suicidio:

  1. Suicidio Egoistico, determinato da scarsa integrazione degli attori sociali;
  2. Suicidio Anomico, determinato dalle situazioni di rapido cambiamento sociale;
  3. Suicidio Altruista, determinato da un eccesso d’integrazione sociale.

Durkheim, dunque, coglie nel rapporto individuo-società il carattere ambivalente dell’importanza delle forme normative e istituzionali. Esse sono indispensabili per la sopravvivenza ma potenzialmente distruttive a causa delle loro riduttività.

La dicotomia tra la determinazione dell’ordine sociale e l’indeterminazione delle aspirazioni infinite dei singoli rende problematica la stessa origine della società. Non si è in grado di capire da dove nasca il desiderio che porta all’accettazione delle normative sociali. Sappiamo però che la coscienza collettiva nasce come frutto dell’opinione comune. Dunque, vengono a formarsi le rappresentazioni collettive che sono diverse da quelle individuali.

Durkheim può essere definito come uno dei padri fondatori della Sociologia.

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Karl Marx e il marxismo: pensiero filosofico e politico https://cultura.biografieonline.it/marx-pensiero/ https://cultura.biografieonline.it/marx-pensiero/#comments Sat, 29 Oct 2016 14:09:03 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20256 Nel pensiero filosofico e politico di Karl Marx, nel quale sono presenti, oltre alla tradizione dell’utilitarismo e dell’economia politica classica, elementi derivanti sia dalla filosofia hegeliana sia dal positivismo di Auguste Comte. Il pensiero di Marx ha avuto anche una grande influenza sullo sviluppo della teoria sociologica.

Marx e Engels - Karl Marx Friedrich Engels
Un disegno che ritrae Karl Marx e Friedrich Engels

Karl Marx nacque in Renania nel 1818, studiò diritto a Bonn e filosofia a Berlino, ove entrò in contatto con la filosofia di Hegel. Trasferitosi a Parigi per motivi di soppressione da parte del governo Prussiano, egli conobbe Engels. I due diventarono colleghi ed amici. Pubblicarono insieme, nel 1848, il famoso Manifesto del Partito Comunista. Successivamente, Marx passò a Londra, ove morì nel 1883, scrivendo e pubblicando, nel 1859, L’economia politica e, nel 1867, Il Capitale.

Pur non avendo elaborato una vera e propria teoria sociologica, Marx ha profondamente influenzato la sociologia successiva, diventando un punto di riferimento sia per coloro che condividevano la sua teoria sia per chi non la condivideva.

Il pensiero di Marx e la teoria dialettica

Il pensiero di Marx intende sviluppare una teoria scientifica delle leggi che presiedono alla storia e alla dinamica sociale. Egli non adotta e non si ispira al modello comtiano del progresso come sviluppo unico, ma adotta il modello dialettico di Hegel, secondo il quale la storia evolve attraverso conflitti e contraddizioni. Marx interpreta la dialettica come un principio attivo operante all’interno delle condizioni materiali e dei rapporti socio economici. Pensa che l’evoluzione storico-sociale è determinata dalle contraddizioni oggettive legate alla disponibilità di risorse, anche naturali, e ai rapporti di produzione.

Mentre dal punto di vista sociologico, Marx intende la teoria dialettica come un qualcosa che si caratterizza per la rilevanza che assume in essa il conflitto nelle relazioni sociali. Il modello dialettico si articola a partire da un’idea di società come totalità, ovvero insieme di elementi in relazione reciproca tra di loro. La totalità viene concepita in modo diacronico, ovvero un processo in continua trasformazione il cui movimento è determinato dalle contraddizioni oggettive che man mano emergono nella realtà sociale attraverso le strutture materiali e i rapporti sociali.

La filosofia politica di Marx: le classi sociali

In Marx, i veri protagonisti delle trasformazioni sociali sono le classi sociali. Egli intende la classe come l’insieme degli individui che all’interno del sistema sociale si trovano nella stessa posizione. I membri di una classe sociale si presentano tutti alla stessa maniera e hanno le stesse possibilità di accesso alle risorse economico sociali. Su questa base, si formano anche le forme culturali o sub-culturali proprie della classe d’appartenenza, che definiscono appunto lo stile di comportamento di quell’individuo.

L’appartenenza ad una classe sociale è determinata in primis dalla nascita e dal processo di socializzazione nei primi vent’anni di vita e, successivamente, dipende dalle scelte che l’individuo effettua riguardo il lavoro. La classe è un fattore che sussiste indipendentemente dalla coscienza. Gli individui possono appartenerle e dunque è da considerare come classe in sé. Qualora gli individui dovessero diventare coscienti della loro appartenenza in quella determinata classe, essa diventa classe per sé. Dunque, quando una classe diventa cosciente, consapevole, essa può diventare anche soggetto politico promotore di cambiamenti anche rivoluzionari dell’ordine sociale.

L’alienazione

Altro concetto chiave della sociologia ma anche del pensiero di Marx in generale, è quello dell’alienazione. Il concetto di questo termine va compreso in riferimento alla teoria dell’attività produttiva come essenza dell’uomo. Ossia il lavoro è oggettivazione della vita generica dell’uomo.

L’alienazione assume 4 steps:

  1. alienazione dell’oggetto;
  2. alienazione dal processo di produzione;
  3. alienazione da se stessi;
  4. alienazione dalla comunità a cui si appartiene.

La causa principale dell’alienazione dunque è, per Marx, la proprietà privata, il capitalista, perché tende ad appropriarsi della produzione dell’operaio per arricchirsi. Ciò gli vieta di sentirsi ampiamente realizzato. La realizzazione dell’uomo si trova, per Marx, nell’oggetto della sua produzione, dunque dell’attività produttiva e lavorativa. Sopprimendo la proprietà privata e l’economia di scambio, l’uomo potrà liberarsi.

La soluzione del Comunismo

In questa prospettiva, il comunismo appare la vera e propria via di salvezza. Per Marx è l’unica soluzione del contrasto fra uomo e natura. La situazione di alienazione in cui si trova l’uomo è dunque colpa del capitalismo. Tale situazione è fondata sulla sostituzione del valore d’uso, legato ai bisogni affettivi dell’uomo. Il valore di scambio estrania l’individuo dal suo oggetto poiché è oggetto di scambio o merce.

La teoria dei comunisti può essere raccolta in una singola frase: abolizione della proprietà privata.
(KARL MARX)

Possiamo dunque notare come il pensiero di Karl Marx sia principalmente un pensiero di carattere utopico. Marx vorrebbe eliminare le differenze che vi sono tra le diverse classi sociali. Perciò anche con le sue opere cerca di dare delle soluzioni per modificare il capitalismo che ormai si era all’epoca instaurato.

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Sessantotto: il movimento del 1968 in Italia (riassunto) https://cultura.biografieonline.it/1968-in-italia-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/1968-in-italia-riassunto/#comments Fri, 21 Oct 2016 12:38:26 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20065 Dopo la morte di esponenti come Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, la politica italiana si svolse ancora una volta all’insegna del torpore e della disorganizzazione. Si alternarono alla guida del governo diversi personaggi che portarono avanti dei governi confusi e di breve durata. Governi in abbondanza che, in teoria, dovevano essere diversi. E portare quanto meno delle modifiche ma che, in pratica, portavano sempre gli stessi frutti. All’improvviso vi fu tempesta in Europa, in Francia e in Italia. In particolare nelle università, esplosero delle proteste studentesche che comportarono una serie di occupazioni e rivendicazioni. Esse precedettero e seguirono i moti parigini del maggio 1968. In questo articolo approfondiamo i temi del 1968 in Italia.

Il 1968 in Italia Sessantotto riassunto - Potere studentesco

Il 1968 in Italia: la protesta studentesca

Il primo episodio, in Italia, lo si ebbe nel corso del 1968 nei pressi di Valle Giulia, vicino alla Romana Villa Borghese. E’ una zona in cui aveva sede la facoltà di architettura. Qui alcuni giovani studenti che facevano parte del movimento studentesco furono protagonisti di numerosi scontri con i poliziotti.

Le prime rappresaglie dunque si ebbero a Roma, ma il movimento studentesco milanese era certamente più organizzato e più forte rispetto agli altri. Tra le sue fila vi era il leader e capro espiatorio Mario Capanna. Egli fu uno studente iscrittosi alla statale di Milano dopo essere stato allontanato dalla sede dell’Università Cattolica. Nel maggio del 1968 tutte le università di Milano, esclusa la Bocconi, furono occupate.

In merito a ciò, il famoso poeta e scrittore nonché sceneggiatore e regista Pier Paolo Pasolini prese una posizione alquanto rigida nei confronti di questi studenti. Essi vennero aspramente criticati dal drammaturgo d’origine bolognese, il quale si schierò dalla parte dei poliziotti. Secondo lui, in sintesi, erano proprio loro i figli del popolo, mentre gli studenti erano dei figli di papà, viziati.

Il movimento operaio

La protesta studentesca del 1968 in Italia, raggiunse il livello massimo di consensi. Tutto ciò comportò l’esplosione di numerose rivolte degli operai in fabbrica, nel 1969. Dunque il movimento operaio si amplificò e si collaudò anche più di quello studentesco.

Sessantotto: Scioperi del 1968
Sessantotto: studenti ed operai uniti nella lotta

Dal loro canto, gli operai erano afflitti da un continuo e profondo malessere sociale che fu probabilmente causato (secondo loro stessi) dal cosiddetto “miracolo economico” che caratterizzò l’Italia negli anni ’60, il quale non era stato accompagnato sia a livello governativo e sia dal punto di vista imprenditoriale. Gli operai rivendicarono in gran parte il fatto che loro pagassero molte più tasse e che iniziò ad insediarsi l’evasione fiscale da parte di alcuni ricchi imprenditori.

L’autunno sindacale

Correva l’anno 1969 quando nacque “l’autunno sindacale“, denominato così perché durante l’autunno era in corso l’importante discussione di 32 contratti di lavoro. La loro discussione si svolse in un clima arduo e tempestoso. I sindacati e i comitati dei lavoratori esigevano salari uguali per tutti. La loro richiesta fu esaudita in quanto i contratti vennero firmati dopo numerosi incidenti e scontri tra i protestanti.

Gianni Agnelli
Gianni Agnelli

Dopo tutti questi disordini intervenne anche “l’avvocato” e principale azionista della FIAT, Giovanni Agnelli, in quanto anche nelle sua azienda vi furono diverse proteste. Agnelli disse, riferendosi all’autunno sindacale, che quest’avvenimento fu l’inizio di 10 anni disastrosi e di brutalità in fabbrica. Probabilmente tutto questo introdurrà ciò che sarà poi quel periodo di terrorismo, che si manifestò in Italia negli anni successivi, denominato “anni di piombo” e caratterizzato dalle Brigate Rosse.

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La guerra di Etiopia del 1935 (riassunto) https://cultura.biografieonline.it/guerra-di-etiopia/ https://cultura.biografieonline.it/guerra-di-etiopia/#comments Wed, 04 May 2016 09:52:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18135 Prima di arrivare a riassumere ed analizzare la Guerra di Etiopia del 1935 (talvolta nota anche come guerra d’Abissinia o campagna d’Etiopia), facciamo una breve introduzione ricordando lo scenario storico: in passato, le più grandi potenze europee si vantarono di avere numerose colonie: alla fine dell’Ottocento, l’Impero Britannico risultò vastissimo; non da meno fu quello francese, mentre Germania e Belgio ebbero un numero inferiore di colonie rispetto alle altre due, ma un numero ad ogni modo rispettabile. Alla fine dell’Ottocento, fu in possesso di sole due colonie in Africa orientale, l’Eritrea e gran parte della Somalia; nel 1902, ottennero una piccola concessione in Cina a Tientsin e, per ampliare il colonialismo italiano, bisogna attendere il 1912, anno in cui avvenne la conquista della Libia.

Guerra di Etiopia: Emilio De Bono in Abissinia
Una foto del generale Emilio De Bono in Abissinia durante le prime fasi della Guerra di Etiopia

L’Etiopia e le intenzioni di Mussolini

A partire dal 1923, poco dopo l’assunzione del potere al governo, Benito Mussolini credette di creare una nuova era coloniale per l’Italia, allargando soprattutto il predominio in Africa Orientale; la regione Africana nella quale Mussolini pensò di estendere l’influenza italiana fu l’Etiopia, rimasta uno Stato indipendente, amministrata dal Negus e dai ras, dei governatori locali.

Benito Mussolini a cavallo
Benito Mussolini

D’altro canto, gli italiani tentarono già una volta, nel 1896, di occupare l’Etiopia ma la battaglia di Adua fu clamorosamente fatale per il Regio esercito. L’Etiopia, negli anni 30, si presentava come uno Stato, anzi un Impero, di tipo feudale, dove vi furono diversi tentativi dell’imperatore Hailè Sellassiè, ma fu un paese che nonostante gli sforzi non riuscì mai a crescere.

L’invasione dell’Etiopia e l’opinione pubblica

Nel 1928, Mussolini dichiarò che le due nazioni si erano riappacificate, stipularono anche il patto d’Amicizia ma, negli anni seguenti, vi furono diversi incidenti, soprattutto verso il confine con la Somalia italiana a Ual Ual, ove vi fu uno scontro armato nel 1934.

L’attacco etiopico fece da collante con le idee che il fascismo stava maturando ossia quella di creare una sorta d’impero per controllare gran parte del Mediterraneo. L’opinione pubblica europea, soprattutto quella britannica, si oppose all’intenzione del Duce di invadere l’Etiopia, perché temevano un possibile scoppio di eventuali guerre ed erano inoltre preoccupati per ogni tipo di avvenimento che l’invasione avrebbe potuto provocare.

Mussolini non diede affatto importanza all’opinione pubblica internazionale e, sul finire del 1934, fornì nuove istruzioni al generale Pietro Badoglio, nelle quali disse chiaramente che il rapporto con gli abissini poteva risolversi solo con l’intervento delle armi.

Il 2 ottobre 1935 ci fu la “chiamata alle armi”; il 3 ottobre 1935 le truppe italiane presenti in Eritrea diedero inizio all’invasione dell’Etiopia: essa fu una guerra coloniale come mai si era vista prima per la ricchezza dei mezzi, sia in termini numerici sia in termini quantitativi. Oltre ad essere una guerra coloniale, la spedizione ebbe anche un altro importante significato, quello del consenso, poiché con la guerra d’Etiopia, i referti storici dissero che in quel momento tutta l’Italia fu fascista e il regime assunse il suo consenso assoluto.

Nel frattempo l’opinione pubblica mondiale, che già da prima dell’invasione fu ostile, divenne irremovibile e l’Italia fu condannata dalla Società delle Nazioni che decise di applicare delle sanzioni; ben 52 Stati furono contro l’operato italiano; di seguito, la nazione che sarebbe diventata il nemico numero uno fu proprio l’Inghilterra di Churchill che, fino a poco tempo prima stimava il Duce. Per le ingenti spese che lo Stato dovette affrontare per la campagna etiopica, il 18 dicembre 1935 venne indetta la giornata della fede (o dell’oro), giorno in cui tutti vennero invitati a donare la propria fede e altri ori personali; parteciparono anche diversi antifascisti ed accademici come Pirandello.

I contatti con la Società delle Nazioni, soprattutto con Francia e Inghilterra, continuarono imperterriti, ma Mussolini fu sempre restio nei confronti di soluzioni diplomatiche.

Intanto, in Etiopia fu mandato Pietro Badoglio, il miglior maresciallo e generale che l’Italia avesse in quel periodo, per dirigere le operazioni belliche facendo ritornare in Italia Emilio De Bono, perché il Duce non poteva rischiare di far prolungare le battaglie e rischiare di non vincere. Pur di sconfiggere gli abissini, gli italiani fecero uso di armi chimiche (gas asfissianti) e gli abissini, dal canto loro, usarono le pallottoledum dum” (ossia proiettili ad espansione) che esplodevano all’interno dei corpi; furono delle armi vietate dalle convenzioni internazionali, ma utilizzate da entrambi gli eserciti.

Gli ascari e le tappe principali della Guerra di Etiopia

Un grande ruolo nella guerra d’Etiopia fu giocato dagli “ascari” che, erano un gruppo di soldati indigeni dell’Africa orientale, inquadrati come componenti regolari delle truppe italiane: vennero considerati come punta di diamante e, difatti, nel febbraio 1936 portarono alla prima grande vittoria italiana ad Amba Aradam.

Ascari
Ascari

In marzo, la resistenza abissina capeggiata direttamente dal Negus venne piegata; il 3 maggio, il Negus abbandonò l’Etiopia atterrando in Palestina; il 5 maggio 1936, gli italiani occuparono Addis Abeba ponendo fine alla Guerra di Etiopia.

La guerra etiopica fu un successo per il regime e come detto sopra, in quel momento tutta l’Italia fu fascista, ma questo successo dimostrò ben presto il suo carattere fallimentare sia dal punto di vista economico e sia per il fatto che quelle terre appena conquistate erano indifendibili; durante la Seconda Guerra Mondiale vennero lasciate sole poiché, per l’appunto, l’economia scarseggiava e per raggiungere l’Etiopia, o meglio l’Africa orientale, le navi italiane dovevano per forza passare dal canale di Suez, che era controllato dagli inglesi, i quali erano in guerra proprio contro l’Italia; dunque, l’Africa orientale fu ben presto perduta.

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