Statue Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Tue, 03 Oct 2023 17:47:28 +0000 it-IT hourly 1 Venere di Milo: storia, descrizione e significato dell’opera https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/ https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/#comments Tue, 03 Oct 2023 17:44:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17625 Scultura di marmo, la Venere di Milo è una statua greca tra le più note e famose del mondo. Estremamente riconoscibile e simbolica è priva delle braccia e del basamento originale. La giovane Venere ritornò al mondo solcando le smarrite strade di un’età ormai perduta, vestita di una nobiltà marmorea e spogliata dal profano limite temporale, quale divinità scultorea di una bellezza bianca e immensa.

Venere di Milo - scultura
La Venere di Milo è una delle sculture più celebri della storia dell’Arte

Capelli raccolti, larghi fianchi fecondi e uno sguardo che ancora oggi colpisce nel complesso di una nudità incompleta ma sensuale, priva dell’illusorietà dell’imbelletto effimero, si fa effige di un’arte suprema, senza raffronti, nella crudele mutilazione del corpo solido che non eclissa l’originaria stupefacente bellezza, ma che paradossalmente fa della mancanza la via prediletta per comprendere la grandezza.

La “Venere di Milo” (130 – 100 a.C.) è tra le afroditi più suggestive scolpite nelle feconde terre del mondo classico, in quelle calde e brune terre egee, da cui fu rapita per incontrare lo sguardo del dispotismo francese e le pallide sale del Louvre, dove è collocata attualmente, in memoria di quella libertà erotica e sessuale che perse la sua purezza tanto tempo fa.

Quando la scultura diventa realtà, non esiste concezione temporale che contempli l’oblio. La grandezza è destinata a durare, la gloria a generare l’ eternità nella memoria, anche se sepolta.
Quando la polvere sotterra, l’uomo riporta alla luce il passato delle grandi ere umane, fiancheggiando la magnificenza di quella conoscenza nascosta che fa della storia umana il più grande mistero.

Venere di Milo - Louvre
La sala del Louvre in cui è esposra la statua della Venere di Milo

La Venere di Milo: genesi dell’opera

Le grandi scoperte archeologiche legano spesso la celebrità del proprio nome all’inusuale contesto esplorativo, casuale e ben lontano da una progettazione voluta, ma in ogni caso desiderata. La “Venere di Milo” come la “Nike di Samotracia” (190 a.C.) è figlia di un destino inatteso, che vide nell’indegna sepoltura la strada per risorgere e risplendere nuovamente.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

Le fortuite sorti della Venere ricaddero nelle mani di un contadino che individuò, l’otto aprile del 1820, la scultura nel proprio campo, vicino al teatro antico dell’isola di Milo.
La statua venne fortemente contesa tra Francia e Grecia, fino al trasporto a Parigi per volontà dell’ammiraglio Jules Sébastien César Dumont d’Urville (1790 – 1842) e il Marchese di Rivière, ambasciatore francese alla corte ottomana, che la donò a Luigi XVIII, per raggiungere il Louvre solo un anno dopo, nel 1821.

Al momento della scoperta il marmo era terribilmente danneggiato, separato di netto in due parti era privo di braccia e del piede sinistro, mai ritrovati nonostante le ulteriori spedizioni archeologiche.

Note tecniche e descrittive

Modellata dal mare, custode del potere universale, tu regni sovrastandoci mediante la tua grazia perfetta, attraverso quella tranquillità che già di per sé possiede un’immensa forza. La tua nobile serenità si manifesta ai nostri occhi, affondando nei nostri cuori come il fascino di alcune tombe, come quieta musica.

Così Auguste Rodin (1840-1917) elevava l’esaltante bellezza di una dea impudente, nel motivo filosofico dell’invincibile giovinezza (“invincibile youth“), e dunque nel concetto dotto di arte viva, immutabile nella mutabilità del mondo, quale ideale permeante dell’anima umana.

Con la “Venere di Milo” l’arte diviene poesia, ispirazione e musa di ogni cuore sensibile alla bellezza. Poeti, scultori, filosofi e pittori di ogni epoca e inclinazione culturale posero su di essa le basi di una riflessione intima e appagante, lontana da un indottrinamento accademico, difforme dalla teoria scritta, dai trattati eruditi di una conoscenza studiata, meditata.

L’ideale che diventa forma, in un’emulazione dalla natura che non termina nella semplice imitazione, ma che si arricchisce di un sentimento emergente nella posa, nell’aura comunicativa di uno sguardo parlante.

L’incompletezza si accompagna ai segni testimonianti un rigore quasi scientifico nella resa di un panneggio bagnato, aderente ai fianchi levigati dell’inebriante Afrodite.

Il colore bianco e la poetica

Il bianco, forse un tempo policromo, del manto avvolgente, riecheggia violentemente la magnificenza solenne della Nike di Samotracia, la Vittoria alata che calò trionfante a salvare le umane sorti di un potere quasi sconfitto. Nel confronto appare chiara la straordinarietà delle due realizzazioni scultoree, dissimili e unite dal ideale classico, ricordano al mondo il potere dell’arte, il potere espressivo della figura femminile nell’arte, quale veicolo perfetto a comunicare le umane passioni, nell’armoniosità di un corpo nudo e mai volgare, di una somma bellezza e di una misurata concezione estetica.

La poetica del cuore umano conduce ad apprezzare l’inqualificabile potere di un’arte che si trasforma e che trova nei suoi pezzi mancanti il simbolo di ideali più alti e didascalici.

Quello che più colpisce la sensibilità dell’osservatore è proprio l’assenza, quel vuoto che, pur colmato dalla semplice immaginazione, non intende essere riempito.

La “Venere di Milo”, dono che riserva all’età moderna il sentimento glorioso di un’epoca passata, deve la sua incredibile fama proprio alla singolare combinazione di una perfezione fisica minacciata.

La forza della moderazione trova nelle tornite forme femminili le misure adeguate ad esprimere l’incredibile gioco di luci e ombre, in cui volumi emergono e si ammorbidiscono sotto le direttive luminose e sapientemente studiate della sala espositiva.

Lo sguardo della Venere di Milo

Lo sguardo ruota e avvolge l’intero corpo, quasi potendo cogliere quel movimento, quell’attesa meditativa di un istante bloccato nei recessi del tempo.

La grandiosità del tempo aureo dell’arte scultorea trova ovviamente le basi solide di un eccezionalità constatata, indiscutibile e volgente all’intera orbita delle opere d’arte classica. L’ideale classico trova nella capolavoro di Milo il tempo di elevarsi e di porre svariati quesiti sull’identità del suo autore, sull’ispirazione mitologica generatrice di un’ideale scultoreo che abbandona la rigida frontalità nella scelta di una torsione del corpo nello spazio, in quella posa leggermente riversata all’indietro, nel piede che regge il corpo in un dinamismo perfetto.

Nell’ “Antologia; giornale di scienze, lettere e arti” dell’ottobre del 1832, l’archeologo e abate Battista Zannoni (1774 – 1832) ripercorse varie tesi interpretative allo scopo di configurare un profilo, se pur del tutto mitologicamente identificativo, di colei che ispirò il mondo alla conquista del tempo (“O conqueror of time !“, Rodin).

Le ipotesi fornite dall’abate chiaramente tratteggiano i connotati confusi del volto femminino dei culto greco, dove risulta impossibile stabilire con convinzione chi fosse realmente la Venere rappresentata.

Venere di Milo - dettaglio del volto
Venere di Milo: dettaglio del volto

Ipotesi e teorie

Dal confronto con altre sculture scoperte fino a quel momento e dallo studio del possibile orientamento nello spazio delle braccia verso sinistra, il filosofo, archeologo e critico d’arte francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1755 – 1849) teorizzò la presenza della statua all’interno di un gruppo scultoreo insieme alla figura di Marte, ipotesi che venne confermata e poi screditata dal ritrovamento di un braccio sostenente un pomo, dalle stile nettamente inferiore rispetto alla statua madre.

Una conclusione di questo tipo risultava convincente nel frangente di una connessione che congiungeva gli artefatti archeologici alla mitologia classica, dunque alle vicenda della vendetta di Eris (dea della discordia) ai danni di Atena (dea della saggezza), Era (regina degli dei) e Afrodite (dea della bellezza) e della tragica guerra di Troia.

A questi Marte, a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora e compagna la Contesa
insaziabilmente furibonda

Iliade, cap. IV, Omero

L’attitudine del mondo antiquario era quella di attribuire le opere ripetute entro un certo profilo iconografico ad un gruppo scultoreo originale e dalle qualità stilistiche superiori, giungendo a considerare i gruppi del medesimo motivo originati tutti dalla celebre “Venere di Milo”; per tale motivo si pensò che il volto della Venere delle Cicladi si rassomigliasse a quello della Venere del Museo Pio – Clementino il quale, grazie a due medaglioni imperiali battuti a Gnido, era attribuita a Prassitele (400/395 a.C. – 326 a.C.); fu proprio tale congettura ad indirizzare Quatremère de Quincy all’ipotesi che la scultura fosse uscita dallo studio o dalla scuola dello scultore ateniese.

L’ipotesi del gruppo scultoreo venne ritrattata dall’archeologo francese, nel proponimento di una scultura nata per vivere nella solitaria collocazione e al contempo in una relazione intensa con le statue di altre due dee.

Le qualità espressive della giovane dea sono sublimi, dove la franchezza dello sguardo severo collide con il torso magnificamente nudo, di “un ventre splendido, largo come il mare“.

Venere di Milo
Venere di Milo

Note Bibliografiche

G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
P. Daverio, Louvre, Scala, Firenze, 2016
A. Rodin (1911), To the Venus de Milo, Art and Progress (2), vol. III, 409 – 413.
B. Zannoni (1822), Sulla statua antica di Venere, scoperta sull’isola di Milo, in G. P. Vieusseux, Antologia; giornale di scienze, lettere e arti, vol. VIII, Firenze: 47 – 52

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Colosso di Rodi https://cultura.biografieonline.it/colosso-di-rodi/ https://cultura.biografieonline.it/colosso-di-rodi/#comments Fri, 26 Feb 2016 09:16:01 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16701 Più di duemila anni fa il dio del sole Helios si ergeva sulle tiepide acque egee di cui si bagnavo le coste dell’isola di Rodi. Una divinità tangibile e bronzea, immensa e assoluta come lo spirito di chi investì la grandezza dell’umana forza per esprimere gratitudine alla divinità protettrice. Il Colosso di Rodi, realizzato nel IV a.C., accoglieva i naviganti e ricordava loro la potenza divina che gli aveva sottratti alla guerra, memoria che viene rinforzata dalla presenza della statua bronzea nel novero delle sette meraviglie del mondo antico.

Colosso di Rodi
Colosso di Rodi: illustrazione

Cenni storici

Nel IV secolo a.C. l’isola di Rodi presentava un impianto di tipo ippodameo, ovvero una pianificazione del tessuto urbano realizzata partendo dalla tracciatura delle strade e la successiva distribuzione diversificata degli edifici, permettendo una netta separazione tra aree pubbliche, private e sacre. L’ isola era organizzata in terrazzamenti ed era dotata di una cinta muraria di cui, grazie a delle indagini archeologiche, è stato possibile individuare la fase classica e quella ellenistica, probabilmente realizzata dopo l’assedio di Rodi da parte del re macedone Demetrio Poliorcete nel 305 a.C. .

Lo scontro con i macedoni era nato in seguito ai tentativi di interrompere i vantaggiosi rapporti tra l’isola di Rodi e l’Egitto, complicità che ostacolava la politica degli Antigonidi.

La conquista dell’isola avvenne con i mezzi più alti che l’arte poliorcetica poteva elargire: lo storico siceliota Diodoro Siculo (90 a.C. circa – 27 a.C. circa) raccontava della costruzione di una torre con ruote chiamata “Helepolis”, realizzata dall’ingegnere Epimaco, necessitava di 3400 uomini per essere manovrata (Βιβλιοθήκη ἱστορική, Biblioteca storica, XX, 5-6). Nonostante il considerevole coinvolgimento di uomini e armi, Demetrio fu obbligato ad arrendersi e a firmare la pace con Rodi.

Helepolis - Torre con ruote
Helepolis, la torre con ruote (illustrazione)

L’acropoli della città era situata sull’altura naturale del Monte S. Stefano, luogo che restituì le tracce del santuario di Atena e Zeus Poliadi e quello di Apollo Pizio, al di sotto della quale era collocato l’Odeion.

“La presenza di tombe monumentali come il cosiddetto Ptolemaion nei dintorni di Rodi o le altre grandi tombe nelle necropoli della stessa Rodi o l’archokrateion sono gli esempi più imponenti di una produzione di monumenti funerari tipologicamente varia e di grande impatto visivo che fanno di Rodi uno dei centri più interessanti per lo studio della architettura funeraria, di cui tuttavia ancora manca una trattazione complessiva” (CALIÒ).

Ricostruzione storica ed iconografica del Colosso di Rodi

Uno dei riferimenti più completi attestanti l’esistenza del Colosso di Rodi è da attribuirsi a Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.):
“Ma sopra tutti fu ammirato il Colosso del Sole in Rodi, opera di Chares Lindio discepolo di Lysippos. Fu dell’altezza di 70 cubiti questo simulacro, il quale poi cadde a terra dopo 66 anni a causa di un terremoto; ma anche a terra è uno spettacolo meraviglioso. Pochi arrivano ad abbracciare il pollice; le sue dita sono più grosse di molte statue. Vaste caverne si aprono nelle fratture della membra; e dentro si vedono dei sassi di grande mole, col peso dei quali l’artista aveva consolidato la massa durante la costruzione. Dicono che fu fatto in dodici anni e con 300 talenti che si erano ricavati dalla vendita del macchinario bellico abbandonato davanti a Rodi dal re Demetrio stanco del prolungarsi dell’assedio” (Naturalis Historia).

I 300 talenti indicati nel brano vennero utilizzati per la realizzazione del Helios Eleutherios. La storia classica rimanda alla memoria la tradizione di dedicare enormi statue per la salvezza ottenuta, come nel caso dello Zeus Eleutherios, costruito dopo la cacciata dei tiranni Dinomenidi di Lindo, nel V secolo a.C. .

Nonostante i numerosi riferimenti filologici, sono poche le informazioni legate all’aspetto e alla precisa collocazione del Colosso di Rodi: per il geografo e storico greco Strabone (60 a.C. –24 d.C.) il Colosso di Rodi, in seguito al terremoto del 227- 226 a.C. che ne aveva provocato la distruzione, venne nuovamente ricostruito in età romana-imperiale su volontà di un oracolo.

Filone di Bisanzio (280 a.C. – 220 a.C.) riportò alle cronache che la statua, realizzata in bronzo, era stata costruita assemblando pezzi fusi separatamente e in seguito giustapposti in progressione a partire dai piedi: tale supposizione è in netto contrasto con l’ipotesi più recente di un’esecuzione a martellatura su metallo.

L’aspetto del Colosso, secondo Albert Gabriel, era quello di un bellissimo kouros (scultura greca del periodo arcaico) dotato di torcia e lancia, descrizione che coinciderebbe con le serie montali dell’isola.

La ricostruzione iconografica del Colosso è stata facilitata dal ritrovamento di due reperti scultorei, probabili copie della statua bronzea: la testa fittile di Rodi, con dei fori sulla testa che lascerebbero pensare alla presenza di una corona ed identificata con Helios, e la statua in marmo di poro che, rivenuta a Santa Marinella e conservata a Civitavecchia, risale ad al periodo adrianeo (117 – 138 d.C.).

Nella statua di Santa Marinella il kouros ha una faretra sulle spalle e probabilmente nella mano destra porgeva una fiaccola, mentre nella sinistra un arco che fungeva da sostegno.

In un epigramma dell’Antologia Palatina, da molti considerato un carme celebrativo all’opera, compare un riferimento alla luce, precisamente alla “luce che brilla in mare e in terra“, espressione che confermerebbe la presenza della torcia nelle mani del rinomato Colosso di Rodi.

Colosso di Rodi incisione 1790
Il Colosso di Rodi illustrato in un’incisione del 1790

Per quanto riguarda la collazione è davvero molto difficile esprimere un responso conclusivo:
dalle note incisioni di Maarten van Heemskerck (1498 – 1574) e Joseph Emanuel Fischer von Erlach (1693 – 1742), il Colosso era posto a gambe divaricate all’entrata del porto, con i piedi separati e posti sulle due sponde.

Questa figurazione, ormai fortemente consolidata nell’immaginario collettivo, deve la sua sussistenza alla testimonianza di un italiano: Niccolò de Martoni, tornato da un viaggio a Rodi nel 1394, riportò ai contemporanei che le tradizioni locali parlavano dell’ubicazione del Colosso nell’attuale porto di Mandraki, nei pressi nel forte di San Nicola.

L’archeologo inglese Reynold Higgins (1916 – 1992) indicando certe discrepanze logistiche sulla presenza di alcuni frammenti nei pressi del forte, suppose che il Colosso era un tempo posizionato nelle vicinanze del Tempio di Helios, nel quale era custodita la “Quadriga del Sole” realizzata dallo scultore greco Lisippo (390/385 a.C. –306 a.C.).

Colosso di Rodi
Colosso di Rodi

Un contributo importante alla definizione dell’esatta collocazione fu dato dal classicista tedesco Wolfram Hoepfner che, attraverso l’esame dei blocchi in marmo grigio – blu presenti nella zona nord est del forte di S. Nicola, rilevò il basamento del Colosso, talmente alto che probabilmente fungeva anche da cinta muraria difensiva.

Per Hoepfner la statua presentava la mano destra alzata in un gesto di saluto e la sinistra, per ragioni statiche, era poggiata su una roccia. Gli ultimi frammenti del Colosso furono venduti ad un mercante arabo che, grazie all’ausilio di 900 cammelli, li trafugò da Rodi nel VII secolo d.C. .

Note Bibliografiche
D. Barbagli, Le sette Meraviglie del mondo antico, Giunti, Firenze, 2003
L. M. Caliò, Un architetto a Rodi. Amphilochos di Laago, (2008)
http://www.raco.cat/index.php/SEBarc/article/viewFile/208187/277370 [Accesso: 11/02/2016]

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