Il personaggio è protagonista di un’illustrazione iconica. Le caratteristiche principali sono essenzialmente tre:
La capigliatura, lo stile della barba (lunga, concentrata sul mento e senza la presenza di baffi), ma anche lo stile del vestiario, ricordano ai più la figura di Abraham Lincoln.
Sebbene l’illustrazione risalga al 1917, storicamente il personaggio dello Zio Sam (o Uncle Sam) venne citato per la prima volta oltre un secolo prima, nel 1812, durante la guerra anglo-americana.
Prima ancora di Uncle Sam, esistevano già altre rappresentazioni umane dedicate all’incarnazione degli USA. Tra queste c’era Brother Jonathan (fratello Jonathan) il quale comparve in origine sulla rivista satirica Punch.
Brother Jonathan venne pian piano, nel tempo, sostituito da Uncle Sam. Jonathan comunque resistette venendo – in un certo senso – declassato a rappresentare il solo stato del New England. Divenne più che altro un’allegoria del capitalismo.
Il momento storico in cui lo Zio Sam vide la luce è il periodo della Guerra di secessione americana.
Esiste una tradizione che ne spiega il nome. Le origini del protagonista di questo articolo riconducono alla città di New York.
Le truppe dei soldati allora in servizio ricevevano barili contenenti carne; i contenitori erano marchiati con due lettere maiuscole: U.S.
Il significato dell’acronimo era chiaramente quello di United States (Stati Uniti) ma nell’ambiente militare si diffuse in modo collettivo l’ironica idea di tradurlo con Uncle Sam. La scelta del nome aveva un motivo preciso: il fornitore di carne dei militari, si chiamava Samuel Wilson (originario della città di Troy, dello stato di New York). Così, il nomignolo Uncle Sam calzò a pennello!
Il personaggio dello Zio Sam come rappresentante della nazione comparve per la prima volta in letteratura in un libro allegorico del 1816, di Frederick Augustus Fidfaddy. Esso si intitolava “The Adventures of Uncle Sam in Search After His Lost Honor” (Le avventure dello Zio Sam alla ricerca del suo onore perduto).
Il grande pubblico statunitense ha ormai accettato questa come prima apparizione, tuttavia esiste una pubblicazione di tre anni prima – 1813 – del Troy Post: il giornale della città di Samuel Wilson sovrappose la figura dello Zio Sam con quella del suo concittadino, imprenditore nel settore della carne.
Altri articoli di giornali locali dell’epoca omettono la connessione con Sam Wilson: per loro “Uncle Sam” sembra essere direttamente derivato dalle lettere U.S. senza altre motivazioni addotte.
Nei giornali di quel periodo si ritrova inoltre una traccia risalente al 1812 in cui il termine Uncle Sam viene usato dai giornali pacifisti con tono dispregiativo verso il governo.
E’ il giorno 15 settembre 1961, un venerdì, quando l’87º Congresso degli Stati Uniti d’America riconosce ufficialmente Samuel Wilson come progenitore del simbolo nazionale dello Zio Sam.
A quest’uomo vengono in seguito dedicati due memoriali: uno nella sua città natale ad Arlington (nel Massachusetts), e l’altro nell’Oakwood Cemetery di Troy, dove è sepolto.
Se fin qui le notizie potevano al nostro lettore essere sconosciute o poco note, l’immagine che segue susciterà enorme familiarità, tanto è stata nel corso della storia moderna grazie alla sua diffusione massiva e capillare. E forse, ancora più celebre dell’illustrazione del personaggio, è lo slogan “I WANT YOU”.
Questo ormai super celebre manifesto venne creato durante il periodo della Prima guerra mondiale. L’obiettivo era quello di convincere i giovani ad arruolarsi nell’esercito. Esso a sua volta si ispirò ad un manifesto di reclutamento dell’esercito inglese del 1914.
L’originale anglosassone fu ideato da Alfred Leete; in esso compariva il generale Horatio Herbert Kitchener.
Il messaggio del poster originale recitava “Your Country Needs You” (il tuo paese ha bisogno di te). Il messaggio dello Zio Sam americano diventò invece più di impatto. Con quel dito puntato in mezzo agli occhi del lettore, la frase “I WANT YOU FOR U.S. ARMY” (Voglio te per l’esercito degli Stati Uniti) tuona imperativa.
Se analizziamo le pose dei protagonisti dei due manifesti, si può notare come l’inglese distanzia la mano da sé allungando il braccio. Mentre lo Zio Sam mantiene il braccio più vicino al corpo, comunicando più sicurezza e protezione rispetto alla perentorietà militare dell’originale.
A disegnare l’illustrazione di Uncle Sam fu l’artista James Montgomery Flagg, pubblicitario e prolifico cartellonista dell’epoca, originario dello stato di New York.
Flagg dipinse il manifesto nel 1917. A fargli da modello per la posa fu il veterano Walter Botts. Ma il celebre volto – che a tanti ricorda quello del 16° Presidente americano Lincoln – è una versione modellata del volto dello stesso Flagg.
Oggigiorno i riferimenti, le citazioni e le parodie di questa icona statunitense sono innumerevoli.
A detta di molti ricercatori e studiosi, il simbolo dovrebbe provenire dalla fine del XVIII secolo, quando veniva usato nelle corrispondenze epistolari di affari e commercio tra le colonie britanniche del nord America ed il Messico.
Esso indicava la moneta “peso” ispano-messicana. Il peso o piastra era chiamato all’epoca “spanish dollar”, nell’America settentrionale britannica. Da lì il simbolo S che poi diventa $.
Secondo altri invece, fu il presidente statunitense Thomas Jefferson ad inventarlo, partendo dalle lettere delle sue iniziali TJ che avrebbe in qualche modo sovrapposto.
Altri ritengono invece che il simbolo del dollaro derivi dalla sovrapposizione della lettera U e della lettera S, acronimo di United States (Stati Uniti); in seguito, per errore di trascrizione, venne rappresentato da una S e due linee verticali I I.
Un’altra teoria porta la nascita del simbolo durante l’impero spagnolo, poiché la casa reale ispanica aveva nel proprio blasone un’immagine composta da due colonne (che rappresentavano le colonne d’Ercole) e una bandiera spiegata al vento, su cui si trovava la dicitura “Plus Ultra”.
Questa immagine appariva sul peso spagnolo e poi venne incisa anche su quello in uso nelle colonie americane.
Il dollaro, con termine corretto dollar ed il suo simbolo, $, venne adottato come valuta degli Stati Uniti d’America il 6 luglio 1785. Fu la prima valuta ad adottare il sistema decimale.
Nel 1792 la legge austriaca sulla coniazione autorizzò la Zecca Statunitense a coniare delle monete da un dollaro d’argento. La produzione regolare venne effettuata fino al 1836.
I primi dollari d’argento coniati il 15 ottobre 1794, precisamente 1.758, furono immediatamente consegnati a David Rittenhouse; egli, responsabile della Zecca Statunitense, li distribuì a tutti i dignitari americani come souvenir.
In realtà però, la prima volta che il simbolo è apparso su una moneta è stata sul rovescio di una moneta da $1 emessa solo nel febbraio del 2007.
Attualmente, per velocizzare la scrittura, il simbolo viene sempre più spesso rappresentato con una sola barra, anche perché sulle tastiere qwerty viene riprodotto così.
]]>In America il candidato alla Presidenza deve avere almeno 35 anni, mentre in Italia l’età si alza, raggiungendo i 50.
In Usa il Presidente viene eletto da un gruppo di “grandi elettori” appositamente designati a tale scopo; in Italia il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento in seduta comune.
In America il mandato del Presidente ha durata di 4 anni; in Italia resta in carica per 7 anni.
Mentre in America il Presidente può essere rieletto solo per 2 volte (è il caso ad esempio di Barack Obama), nel nostro Paese non vi è alcun limite alla sua rielezione (storicamente solo Giorgio Napolitano è rimasto in carica per 2 mandati consecutivi).
In caso di dimissioni o morte, negli Usa subentra il Vicepresidente fino ala scadenza del mandato; mentre in Italia il Parlamento in questo caso procede a nuove elezioni presidenziali.
Per quanto riguarda i poteri del Presidente, in America il Presidente non ha alcuna possibilità di sciogliere il Congresso, al contrario di quello che succede in Italia; qui il Presidente può sciogliere una sola delle Camere oppure l’intero Parlamento.
Negli USA il Presidente rappresenta sia il Capo dello Stato che del Governo; in Italia è Capo dello Stato con potere di nominare il Capo del Governo (ossia il Presidente del Consiglio dei Ministri).
In America il Presidente ha il potere di nominare i 9 giudici appartenenti alla Corte Suprema, mentre nel nostro Paese il Presidente procede alla nomina di 5 dei 15 giudici della Corte Costituzionale.
Ultima importante differenza: al termine del suo mandato il Presidente americano torna ad essere un cittadino come tutti gli altri, mentre da noi il Presidente della Repubblica Italiana continua a mantenere i privilegi con la nomina di senatore a vita.
Dopo la disastrosa sconfitta a Midway, l’alto comando giapponese era come un pugile alle corde, incapace di reagire ai pugni subiti. Per diverse settimane, lo staff dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto – comandante in capo della Flotta Combinata – non fu in grado di elaborare piani.
Si trattava di un momento delicato: l’irreparabile perdita di 4 delle 6 portaerei della squadra di attacco esigeva un ridimensionamento degli obiettivi, se non proprio il passaggio a una fase difensiva.
Di contro, gli americani non erano nella situazione ideale per sfruttare il successo: le loro forze erano ancora troppo deboli, in gran parte a causa della scelta politica sintetizzata nella locuzione Germany first, che privilegiava il teatro bellico europeo nell’assegnazione di risorse per la guerra.
Per ripetere una efficace metafora di dello storico H. P. Willmott, l’iniziativa era come una pistola abbandonata in strada: quale dei due contendenti l’avrebbe raccolta e avrebbe sparato per primo?
Nella parte meridionale delle Salomone giace l’isola che, fino allora sconosciuta, sarebbe diventata teatro di una delle campagne militari più famose e sofferte dell’intera seconda guerra mondiale.
Nell’estate del 1942 Guadalcanal era un appezzamento di terra, per lo più disabitato, lungo circa 150 km e largo al massimo 53. Non era certo un luogo ospitale: le piogge erano frequenti e a carattere torrenziale, la zanzara della malaria molto diffusa e la giungla estremamente fitta. Eppure era stata scelta dal comando giapponese per allestire un aeroporto.
Gli Alleati temevano, con ragione, che questa posizione avrebbe consentito al nemico di minacciare la vitale rotta che collegava Stati Uniti e Australia; lungo tale via venivano indirizzati i mercantili che portavano uomini, armi e munizioni destinati alla difesa della Nuova Guinea e del continente australiano stesso.
Fu principalmente questo timore che indusse l’ammiraglio Chester W. Nimitz, comandante in capo della Flotta del Pacifico, a scegliere l’isola di Guadalcanal come teatro della prima offensiva americana nel Pacifico.
L’operazione Watchtower ebbe inizio il 7 agosto, con gli sbarchi preliminari sugli isolotti di Gavutu-Tamambogo, seguiti dall’invasione di Tulagi, dove i giapponesi avevano approntato una base per idrovolanti nel maggio precedente, in occasione della battaglia del Mar dei Coralli.
Entrambe le operazioni incontrarono una resistenza maggiore del previsto, basata soprattutto su efficaci infiltrazioni notturne, tattiche nelle quali il fante nipponico eccelleva. Tutti gli obiettivi vennero comunque conquistati il 9 agosto, non senza la necessità di rinforzi.
Sull’isola di Guadalcanal erano acquartierati 2.230 giapponesi, circa 1.700 dei quali erano operai militarizzati. Alle 9.19 del 7 agosto cominciarono a sbarcare i marines del 1° e 5° reggimento, incorporati nella 1a divisione marines del generale Alexander A. Vandegrift, per un totale di 8.500 uomini.
La resistenza iniziale fu pressoché inesistente e gli americani, già nel primo pomeriggio, si impadronirono dell’aeroporto appena ultimato, che ribattezzarono Henderson Field, trovandovi anche una discreta quantità di materiale abbandonato dal nemico.
Attorno a questo obiettivo venne costituito un perimetro difensivo che sarà poi il teatro delle principali controffensive terrestri giapponesi. I soldati giapponesi, nonché opporsi allo sbarco dei marines, scelsero invece di rifugiarsi nella giungla all’interno dell’isola.
La reazione del Sol Levante fu affidata all’Ottava Flotta del viceammiraglio Gunichi Mikawa, composta da 5 incrociatori pesanti, 2 leggeri e un solo cacciatorpediniere.
Nella notte tra l’8 e il 9 agosto, questa squadra ottenne una delle vittorie numericamente più clamorose dell’intera guerra. Nel corso della battaglia di Savo riuscì infatti ad affondare 4 incrociatori pesanti alleati, senza perdere alcuna unità.
Fallì invece nell’obiettivo di localizzare e attaccare i mercantili nemici, ancora alla fonda e impegnati nello sbarco di materiali, e, in ultima analisi, nel conseguire un completo successo strategico.
La distruzione, o anche solo l’allontanamento dei mercantili, avrebbe certamente messo in crisi i marines, riducendo la loro capacità di opporsi alle imminenti controffensive terrestri.
La campagna si sviluppò da allora secondo un canone ben preciso. Il possesso di Henderson Field garantiva agli americani il predominio dei cieli e, conseguentemente, la possibilità di operare, facendo giungere rinforzi e rifornimenti, alla luce del giorno.
Viceversa, l’oscurità, costringendo a terra gli aerei, andava a vantaggio dei giapponesi, addestrati a combattere di notte e in grado di far giungere, a loro volta, convogli ribattezzati Tokyo Express dagli americani; essi erano composti prevalentemente da cacciatorpediniere che, quasi ogni notte, trasportavano soldati e armi leggere dalle basi nelle Salomone settentrionali a Guadalcanal.
È difficile isolare le singole battaglie perché la storia di Guadalcanal si compone di piccole azioni aeree, navali e terrestri quasi quotidiane.
Entrambe le parti si risolsero a inviare via mare flussi di rifornimenti di dimensioni ridotte per eludere l’opposizione nemica. Inoltre, la morfologia dell’isola si prestava ad incursioni di piccoli reparti.
È forse possibile identificare 6 azioni principali.
Dopo l’ultimo scontro, il quartier generale giapponese non fu più in grado di organizzare un’offensiva. Di fatto, le perdite subite convinsero soprattutto la Marina che era giunto il momento di accettare la sconfitta.
L’evacuazione di Guadalcanal venne ordinata nell’ultima settimana di dicembre e portata a termine il 7 febbraio del 1943 con perdite modestissime. Due giorni più tardi, il generale Alexander Patch, recentemente nominato comandante delle forze alleate sull’isola, dichiarò conclusa la campagna.
Con la vittoria, gli americani poterono fare di Guadalcanal il punto di partenza delle loro successive offensive, sviluppando l’aeroporto già esistente e costruendone altri. Ma, soprattutto, poterono far tesoro della crescente debolezza del nemico, che non era in grado di compensare le perdite subite.
Gli Americani avevano raccolto la pistola abbandonata per strada, l’iniziativa, e non l’avrebbero più mollata fino alla resa senza condizioni del Giappone.
Se le perdite di uomini furono molto superiori per il Giappone, il computo delle navi affondate fu sostanzialmente pari. Nonostante questo, il quartier generale imperiale uscì dalla campagna di Guadalcanal in condizioni di grande inferiorità.
Perché?
Il motivo è presto detto: gli americani erano in grado di far fronte alle perdite subite grazie alle loro capacità industriali, in rapido e imponente aumento, i giapponesi no. Ma non si può tacere che il 7 agosto 1942 era il Giappone a detenere una certa superiorità di uomini e mezzi nel settore.
Quale fu allora il motivo della disfatta?
In primo luogo, è necessario far riferimento a una cattiva pianificazione dello Stato Maggiore nipponico. Per diverse settimane, a Tokyo ritennero che gli americani si fossero insediati a Guadalcanal con forze esigue, sufficienti tutt’al più a una ricognizione su vasta scala.
Da questa erronea convinzione derivarono sconfitte e perdite di uomini e materiali, con offensive lanciate in condizioni di netta inferiorità numerica, confidando anche nella (presunta) superiorità combattiva del soldato nipponico.
Contribuirono alla disfatta anche l’inferiorità qualitativa e quantitativa dei rifornimenti e la mancanza di adeguate strutture sanitarie all’interno dell’esercito che invece sarebbero state necessarie in un ambiente malsano come la giungla di Guadalcanal.
Basti dire che i soldati giapponesi evacuati nel febbraio 1942 erano così emaciati da scioccare i marinai dei vascelli su cui si imbarcarono.
Per parte loro, gli americani incominciarono la campagna con alcuni seri handicap, in primis l’inferiorità nel combattimento navale notturno al quale non erano addestrati, mentre la Marina Imperiale ne aveva fatto uno dei suoi punti di forza.
Seppero però recuperare, grazie a un rapido e intenso ciclo addestrativo e all’imponente produzione che consentì a esercito, marina e corpo dei marines di disporre di abbondanti riserve di materiale; questo nonostante periodi di crisi per la difficoltà di trasferire tanta abbondanza alla prima linea.
Se c’è un aspetto sul quale i due nemici si trovano assolutamente d’accordo, è la durezza della campagna. Guadalcanal fu una tragedia per chi vi combatté perché le condizioni psicologiche e fisiche dei protagonisti furono messe a durissima prova.
Il termine che ricorre più spesso nei resoconti è “inferno”, valga per tutti l’epigrafe che accompagna la tomba di un marine e che recita:
]]>«Quando questo marine si presenterà a Pietro gli dirà: Signore, io ho già servito all’inferno, sono stato a Guadalcanal».
And When He Gets To Heaven, To Saint Peter He Will Tell; One More Marine Reporting Sir, I’ve Served My Time In Hell – (Marine Grave inscription on Guadalcanal, 1942)
Molti storici legano la nascita della bandiera americana al nome di Betsy Ross, sarta di Philadelphia che si racconta l’allora presidente George Washington chiamò per confezionare il vessillo.
A questa donna, in particolare, si riconosce il valore di averne cucite moltissime alla fine del Settecento, ma permangono i dubbi sulla sua autorialità.
Quanto alla grafica e al design della bandiera americana, è altrettanto molto diffusa la teoria che vede la Stars and stripes come evoluzione della bandiera della Compagnia britannica delle Indie orientali.
È noto, invece, che l’attuale bandiera americana, quella “moderna”, deve i suoi natali a Robert G. Heft di Lancaster, Ohio. Questo il nome dello studente 17enne il cui progetto fu scelto, fra oltre mille, dal presidente Eisenhower nel 1960.
Bob Heft la cucì in casa come sua idea per la fiera di scienze. Quando il suo professore, a scuola, la rigettò, il giovane prese a chiamare la Casa Bianca fino alla risposta (positiva) dell’allora presidente.
Dal suo primo sventolare, nel 1777, la bandiera americana è mutata ben 28 volte. Ogni volta con l’aggiunta di una stella, ovvero uno Stato in più fra gli Usa.
Quello di accludere una stella, in particolare, è un atto ufficiale che si è sempre svolto pubblicamente a Philadelphia durante l’Indipendence Day, il 4 luglio, il giorno in cui si commemora la fondazione della Nazione.
Le ultime due celebrazioni sono avvenute nel 1959 per l’annessione dell’Alaska e nel 1960 per quella dello stato delle Hawaii.
Oggi la bandiera americana è riconosciuta ufficialmente su tutto il territorio degli Stati Uniti (oltre 9 milioni di chilometri quadrati) e tenuta in altissima considerazione da tutta la popolazione (oltre 300 milioni di abitanti). Questo ad eccezione degli atolli di Johnson, Midway, Palmyra e delle isole di Navassa e Wake, dove vengono utilizzate bandiere interne, non ufficiali.
Inoltre, la bandiera americana ha influenzato decine di vessilli del mondo come quelli di Cuba, Brasile, Liberia e Uruguay, fra gli altri.
L’attuale bandiera americana ha 50 stelle, quanti sono gli Stati che compongono la Nazione. Queste stelle sono di colore bianco e sono racchiuse in 9 file. Le file alternano 6 oppure 5 stelle e campeggiano in un rettangolo dal fondo blu, posto nell’angolo in alto a sinistra della bandiera.
Il resto dell’area è occupato da 13 strisce, quanti furono gli Stati coloniali, di colore rosso e bianco.
Colonie del New England
Colonie di mezzo
Colonie del sud
Tre, dunque, sono i colori di questo rispettatissimo simbolo degli Usa:
In generale, nella “Stars and stripes” gli americani – mano destra sul cuore – riconoscono i valori fondanti della propria Nazione: libertà, giustizia e umanità. Questi stessi vengono celebrati nel “Flag day” che ricorre il 14 giugno, come istituito dal presidente Truman nel 1950.
Esiste una legge, la numero 829, interamente dedicata alla bandiera americana. Fra le varie istruzioni, la norma specifica il reato gravissimo di vilipendio alla bandiera. Indica che il vessillo che versa in cattive condizioni e non può più essere riparato o rammendato, va bruciato solennemente.
Ancora, sempre secondo il codice, la bandiera può essere esposta dall’alba al tramonto, ma se posta pubblicamente 24 ore su 24 va illuminata a dovere nelle ore di buio.
La bandiera americana, infine, vanta il primato di sventolare anche oltre il pianeta Terra, sulla Luna. Qui, infatti, la pose per primo Neil Armstrong, nel 1969, a compimento dell’epica missione Apollo 11 che portò i primi uomini sulla Luna.
Anche l’inno americano ha un titolo che si rifà alla sua bandiera nazionale: The Star Spangled Banner (La bandiera adornata di stelle).
]]>Lo scultore, di origini danesi, formatosi fra Parigi e New York, insieme a Luigi Del Bianco, maestro carpentiere di origini italiana, naturalizzato americano, diede vita al progetto nel 1927.
Impiegò oltre 400 operai e rimosse 450mila tonnellate di granito dalla montagna, il 90 per cento attraverso esplosioni dinamitarde. Il progetto iniziale, che non si limitava a quanto oggi possiamo ammirare, subì una prima frenata nel 1939 quando il Congresso disse no a quanto lo scultore avrebbe voluto aggiungere ai quattro volti.
Due anni dopo si arrestò del tutto con la morte prematura di Borglum. L’opera, seppur non adempiendo al cento per cento al progetto primario, fu portata a termine dal figlio, Abraham Borglum.
La prima scelta che spettò a Borglum fu quella relativa ai Presidenti da rappresentare nella sua gigantesca scultura sulla roccia.
Scelse senza dubbio George Washington, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti oltre che il 1° presidente in carica fra il 1789 e il 1797. E’ il primo a sinistra.
Gli affiancò Thomas Jefferson, 2° presidente (1801 – 1809) a cui la nazione deve più di tutto la Dichiarazione di indipendenza firmata al termine dell’omonima guerra che fra il 1775 e il 1783 liberò 13 colonie nordamericane dalla bandiera del Regno di Gran Bretagna.
La terza scelta cadde su Abraham Lincoln, 16° presidente in carica fra il 1861 e il 1865. A Lincoln la storia americana riconosce la capacità di aver tenuto unito il paese durante la sanguinosa Guerra civile americana. Nel monumento del Monte Rushmore compare come ultimo a destra.
Il quarto volto scolpito, infine, fu quello di Theodore Roosevelt, 26° presidente. Fu alla Casa Bianca dal 1901 al 1909 e conquistò un posto speciale nella storia a stelle e strisce per il ruolo di mediatore nella guerra fra Russi e Giapponesi che gli valse il Premio Nobel per la pace nel 1906.
Roosevelt, infine, si contese il posto sul monumento con un altro presidente molto ben voluto dagli statunitensi: Woodrow Wilson. Wilson fu il 28° presidente e fu in carica dal 1913 al 1921. Ebbe un ruolo chiave nei trattati di pace al termine della Prima Guerra Mondiale. Per questo ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1919.
Il progetto di Borglum era più ampio di quanto oggi vediamo. Intanto, lo scultore aveva inizialmente pensato e progettato di scolpire i quattro presidenti a mezzo busto e non solo le loro teste.
In più, nell’idea di Borglum c’era una grande area situata dietro la testa di Lincoln in cui conservare i più importanti registri della politica americana, la Hall of records. Sarebbe stata una sorta di capsula del tempo e sarebbe apparsa come una grande camera segreta.
Come detto, nel 1939 il Congresso non autorizzò lavori ulteriori e aggiuntivi alla scultura dei presidenti e due anni dopo Borglum morì.
La Hall of records rimase incompiuta e ferma ai primissimi lavori di scavo.
Il 9 agosto del 1998 fu ultimato un deposito di documenti nel pavimento dell’entrata della sala. In una scatola di legno fu posto un ulteriore contenitore in titanio coperto da una pietra tombale con le parole di Burglum:
“… mettiamo là, scolpiti in alto, il più vicino possibile al Paradiso, le parole dei nostri leader, i loro volti, per mostrare ai posteri che tipo di uomini fossero. Sospira allora una preghiera affinché questi registri dureranno fin quando soltanto il sole e il vento li porteranno via”.
Con la pietra tombale, nell’area scavata nella roccia, si trovano anche sedici pannelli. In questi sono riportati il racconto del progetto del Monumento del Monte Rushmore, le informazioni sui suoi scultori, sui presidenti raffigurati e una breve storia degli Stati Uniti. Un lascito al mondo senza tempo, seppur inaccessibile ai visitatori.
]]>Lo scontro avvenne il 25 giugno 1876, vicino al torrente di Little Bighorn, nel Montana. In cinque ore di movimenti strategici sul campo di battaglia e soli 25 minuti di fuoco, persero la vita oltre 200 soldati statunitensi segnando la più storica vittoria – seppure successivamente pagata a carissimo prezzo – dei nativi americani.
Fra il 1866 e il 1868 i colonialisti bianchi invasero le terre abitate dai nativi indiani in Dakota del Sud, nelle Black Hills e nella Contea di Powder River. I Sioux ebbero la meglio aggiudicandosi il pieno dominio su questi territori.
Nel 1868 il Secondo trattato di Fort Laramie definì i confini della Riserva Sioux, area che andò sotto la tutela degli Stati Uniti. Parti degli stati di Wyoming, Montana, Nord Dakota e Nebraska, però, furono dichiarati territori “non ceduti” ovvero zone né appartenenti alla riserva indiana né sotto la sovranità degli Usa.
Nel 1873, poi, i lavori per la ferrovia Northern Pacific toccarono i territori non ceduti generando la Guerra delle Black Hills. L’anno dopo, quando nelle Black Hills ovvero nella riserva Sioux fu scoperta la presenza di giacimenti di oro, numerosi cercatori invasero il territorio. L’esercito Usa intervenne da una parte per cacciare i cercatori, dall’altra per avviare una trattativa coi Sioux. In particolare, lo Stato mise sul piatto 6 Milioni di dollari (corrispondenti ad oltre 120 milioni odierni) per comprare o affittare l’area interessata dai bacini aurei. L’accordo non andò in porto.
Nel 1875, quando le Black Hills contavano circa 15mila cercatori in azione, la tensione salì e gli Stati Uniti lanciarono un ultimatum: tutti i nativi americani dei territori non ceduti avrebbero dovuto riparare nella Grande riserva Sioux entro il gennaio del 1876; in caso contrario sarebbero stati giudicati “ostili”. Più di una campagna accerchiò i nativi americani, con gravi perdite da entrambe le parti.
E’ storica la disfatta Usa nella Battaglia di Little Bighorn. Precedente a questo evento si ricorda anche la battaglia di Sand Creek.
La battaglia di Little Bighorn vide l’esercito statunitense giungere nell’area dell’omonimo torrente, nel Montana, in quattro colonne:
Le truppe giunsero sul luogo il 25 giugno del 1876, alle 12. Fu Reno, alle 15, a dare l’assalto, ovvero le prima carica, mentre Custer aspettava sulle colline. Ciò che Reno si trovò davanti fu un numero molto al di sopra di quanto atteso.
Agli stimati 500/800 guerrieri Sioux, infatti, si erano intanto aggiunti i “nomadi invernali” che pure si aspettavano. Tuttavia, la Cavalleria si vide parare davanti numerosi “nomadi estivi” che si erano aggiunti per cacciare nei territori “non concessi” come credevano fosse loro diritto.
Tra i protagonisti della storica battaglia si ricorda il condottiero Sioux Toro Seduto.
Gli “ostili”, fuori dalla Riserva, ad attendere le forze statunitensi erano, a quel punto, alcune migliaia. Alle 17 Custer intervenne coi suoi, dando il via a circa 25 minuti di fuoco in cui caddero 268 americani e fra i 30 e i 300 nativi (mai stimati con precisione).
Gli americani impiegarono tre giorni per fare la conta dei caduti e raccogliere i corpi da seppellire sotto la bandiera a stelle e strisce. In breve tempo, nella Grande riserva i Lakota furono costretti a consegnare armi e cavalli. Furono, inoltre, interdetti dalla caccia in tutti i territori non ceduti.
Nell’arco di tre mesi, al termine del mese di ottobre 1876, tutti i nativi americani rientrarono nelle riserve. Nel tempo furono battuti non tanto con armi e combattimenti, ma con privazioni di mezzi di sussistenza in una politica che molto ricorda gli “embargo” di storia politica moderna.
I territori non ceduti e l’area delle Black Hills andarono agli Stati Uniti.
I massimi esponenti delle tribù protagoniste di questi scontri subirono lo stesso triste destino. Cavallo Pazzo si arrese il 5 settembre del 1877 e fu ucciso a seguire.
Toro Seduto si rifugiò inizialmente in Canada. Dopo qualche anno si arrese e tornò alla riserva di Standing Rock, fra Sud e Nord Dakota. Fu ucciso da un poliziotto in uno scontro il 5 dicembre del 1890.
]]>Nel settembre 1980 Saddam Hussein condusse il Paese in guerra contro il confinante Iran allo scopo di allargare i confini e aumentare il potere rispetto a estrazione ed esportazione del petrolio. La guerra tra Iraq e Iran finì nel 1988.
Hussein uscì dal conflitto senza aver ottenuto quanto sperato e, in più, con un ingente debito con Kuwait e Emirati Arabi contratto per l’acquisto delle armi utilizzate nella guerra contro Teheran.
A seguire, i creditori contravvennero alle direttive dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) superando le quote di produzione di greggio e facendo crollare così il prezzo del petrolio.
Saddam rispose che avrebbe tollerato tale azione solo se avesse ottenuto in cambio:
Il Kuwait rispose negativamente a queste richieste guadagnandosi l’invasione irachena che partì il 2 agosto del 1990.
L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein venne subito condannata dalle Nazioni Unite che risposero imponendo il ritiro delle truppe irachene entro il 15 gennaio del 1991.
Seguì l’operazione “Desert Shield” ovvero “Scudo nel deserto”, diretta dall’allora presidente statunitense George H. W. Bush. Un intervento, datato 7 agosto 1990, volto a prevenire l’invasione irachena dell’Arabia Saudita, paese alleato nonché fornitore di petrolio degli Usa.
A distanza di tre mesi, il 29 novembre del 1990, l’Onu lanciò un nuovo ultimatum secondo il quale, qualora Saddam non si fosse ritirato dal Kuwait entro il 15 gennaio del 1991, insieme alle sanzioni e alla condanna, si sarebbe legittimato l’uso della forza contro l’Iraq.
Intanto, si definirono gli schieramenti. Da una parte l’Iraq di Saddam Hussein appoggiato da Gheddafi (Libia) e Arafat (Organizzazione per la liberazione della Palestina, OLP), con l’Iran neutrale dopo la pace stipulata a fine del conflitto degli anni Ottanta.
Dall’altra parte la Coalizione guidata dagli Stati Uniti d’America in cui convogliano oltre 30 Paesi del mondo fra cui anche Francia, Germania e Italia. L’Italia partecipò al conflitto in 4 interventi dell’operazione “Golfo 2”, con la sua Marina militare.
Mentre si avvicinava la scadenza dell’ultimatum Onu, l’Iraq chiuse le proprie frontiere, con stranieri e diplomatici bloccati e usati dal Rais come “scudi umani”. Il 16 gennaio del 1991, all’indomani dell’ultimatum, dissateso, la Coalizione fece scattare l’operazione “Desert Storm” o “Tempesta nel deserto”, la più imponente operazione alleata dal 1945 in poi.
Si contarono infatti circa 1000 uscite al giorno, venne bombardata fortemente la città di Baghdad, si combatté in aria e in terra. La missione contro l’Iraq di Hussein constò di tre fasi:
Il 13 febbraio del 1991 due bombe intelligenti della Coalizione andarono a colpire un presunto centro militare di comunicazione uccidendo 400 persone. Più avanti gli iracheni denunciarono l’accaduto spiegando come il luogo attaccato fosse un rifugio civile.
Documenti successivi dimostrarono che il sito era adibito ad entrambe le finalità presunte dall’una e dall’altra parte.
Saddam rispose con il lancio di missili Scud sulle basi della Coalizione in Arabia Saudita e Israele, sperando di trascinare questo ultimo in guerra. Non accadde: Israele non rispose nel timore di trascinare tutti gli stati arabi delle Coalizione in guerra (solo la Giordania, infatti, si era dichiarata neutrale).
Il 22 febbraio del 1991 l’ONU lanciò un nuovo ultimatum per il ritiro definitivo di Saddam dal Kuwait. Quattro giorni dopo, mentre la Coalizione era penetrata nel Kuwait, Saddam batté in ritirata.
Il Rais, però, diede ai suoi l’ordine di incendiare tutti i pozzi petroliferi sulla strada del rientro in patria. Questo ultimo atto di belligeranza causò la cosiddetta “Autostrada della morte”: le forze irachene in ritirata furono bombardate dalla Coalizione fino a oltre 200 chilometri da Baghdad.
Il 28 febbraio 1991 Bush dichiarò la liberazione del Kuwait e la fine della guerra. Il 3 marzo l’Iraq firmò il cessate il fuoco, accettò il disarmo e le pesanti sanzioni economiche inflitte dalle Nazioni Unite.
Mentre gli Usa si insediarono nel Paese con le proprie basi militari, l’Iraq uscì dal conflitto con ingenti perdite militari, civili e anche economiche. Danni tali da creare una crisi da cui il Paese non si sarebbe mai più risollevato.
Al termine della Guerra del Golfo, poi, la palla passò nelle mani dei Curdi Sciiti (etnia in contrapposizione ai Sunniti di Saddam) che si sarebbero impegnati nel rovesciare la dittatura di Hussein.
Tuttavia, non solo questa rivoluzione non accade mai, ma anzi Hussein riprese il potere, reprimendo le rivolte con l’uso di armi chimiche e reinserendo la Sharia nel sistema legislativo del Paese.
All’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, anche Hussein entrò nel mirino di George W. Bush. Gli Stati Uniti, infatti, a causa del possesso di Hussein di armi di distruzioni di massa e per i suoi contatti con Al Qaida (fattori poi smentiti ufficialmente) si lanciarono in un secondo atto della guerra contro l’Iraq (Iraqi Freedom, dal 20 marzo 2003).
Questo conflitto condusse alla cattura di Hussein il 13 dicembre 2003. Il Rais, infine, fu processato e condannato a morte per crimini contro l’umanità. La sua impiccagione, il 30 dicembre del 2006, mise fine a un gravissimo capitolo della storia mondiale.
]]>Il presidente e i membri della corte vengono nominati dal presidente degli Stati Uniti, la cui decisione deve poi essere confermata dal Senato. Non ci sono particolari condizioni per la nomina di un giudice, né il presidente deve seguire norme di legge stabilite. Può infatti scegliere un giudice con esperienza oppure personalità senza un curriculum specifico.
Pur non essendoci obblighi particolari da seguire, è prassi che i giudici rappresentino tutti i segmenti sociali e geografici del paese.
Insomma la Corte è anche lo specchio dei cambiamenti antropologici dell’America. Nel tempo sono stati quindi nominati giudici afroamericani e giudici donne. Nel 2009 Barack Obama ha nominato il primo giudice di origine ispanica, Sonia Sotomayor. La Corte Suprema degli Stati Uniti (Supreme Court of the United States, che si trova anche abbreviata con l’acronimo SCOTUS) è un organo importante non solo per il suo ruolo giuridico ma anche perché esprime libertà, lealtà ai principi della Carta costituzionale e indipendenza da qualsiasi schieramento politico.
La Corte, che rappresenta quindi l’organo giuridico supremo, non appellabile, può decidere direttamente controversie disciplinate dalla legge che l’ha fondata e che riguardano quelle originate da ambasciatori, consoli, rappresentanti stranieri o dove una parte sia rappresentata da uno Stato. Oppure può decidere sulla base di un’eccezione formulata da un cittadino contro un tribunale inferiore che ha deciso, secondo l’opinione di quest’ultimo, in modo errato, illegale o non confacente con i principi della Costituzione.
La Corte Suprema può esprimersi anche giudicando una legge dello Stato che un giudice federale abbia ritenuto emessa in violazione della Costituzione. Può fare questo in virtù del suo ruolo di garante della Costituzione e di difensore della gerarchia delle fonti, dove la Carta Costituzionale è la legge suprema da cui derivano tutte le altre leggi. La Corte può sempre decidere di non prendere in esame una certa controversia.
Il procedimento per chiedere di essere ascoltati da parte dei giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti è semplice. Un cittadino può chiedere in forma scritta ad un tribunale di inoltrare gli atti alla Corte affinché decida di pronunciarsi o meno sul suo caso.
Un altro procedimento per chiedere un parere dei giudici costituzionali riguarda il quesito diretto. Un tribunale può porre un quesito di diritto su un caso che sta affrontando. La Corte può decidere di rispondere dando un parere oppure di prendere sotto la sua giurisdizione tutto il caso.
E’ evidente quindi che la Corte non difende solo la supremazia della Costituzione ma svolge anche il ruolo di interprete delle leggi costituzionali e delle leggi inferiori che devono essere emanate nel rispetto di quelle superiori.
]]>Al suo interno, l’uso dei simboli, rappresenta l’essenza stessa della Massoneria, il mezzo tramite il quale dialogare a distanza con tutti i fratelli massoni. Infatti, stando alle stesse parole di Pierre Mariel, massone e martinista, “il simbolo dunque, non è destinato a nascondere la verità. Il suo scopo è invece quello di selezionare coloro che, integrandosi a esso, si mostrano degni di accedere alla Realtà ultima”.
Esaminando il dollaro, l’attenzione si focalizza subito sull’effige del primo Presidente degli Stati Uniti d’America, George Washington. Eletto alla presidenza nel 1789, supervisore dei lavori di costruzione della Casa Bianca (sede ufficiale del Presidente in carica), Washington, in occasione della cerimonia ufficiale di insediamento, fece il suo solenne giuramento sulla sacra Bibbia di proprietà della loggia massonica St. John N°1 di New York.
Il primo Presidente degli Stati Uniti era già stato “iniziato” ai segreti esoterici in giovane età, come membro della Massoneria e dell’Ordine degli Illuminati Bavaresi, ben prima della sua candidatura al potere. È opportuno sottolineare che molti altri presidenti americani furono iscritti alla Libera Muratoria, come ad esempio Franklin Delano Roosevelt, 33° Grado del Rito Scozzese della Libera Muratoria (a lui si deve la decisione di stampare nel 1933 sul dollaro il “Delta Luminoso”); Harry Truman, raggiunto il 33° Grado si fece aggiungere il secondo nome di Solomon, in onore del re Salomone, eroe della Massoneria; William Jefferson Clinton, 33° Grado e George H. W. Bush, anch’egli 33° Grado.
Accanto a George Washington compare sulla sinistra il logo della Riserva Federale (Federal Riserve Bank, nella banconota presa in esame di New York, ma questa lettera cambia in base alla banca federale di emissione); mentre sulla destra vi sono il simbolo del Dipartimento del Tesoro (Department of the Treasury) e la sua data di fondazione, il 1789. Quest’ultima coincide, oltre che con la fondazione della Riserva Federale, anche con l’anno di inizio della Rivoluzione francese (Presa della Bastiglia), ovvero con un periodo di radicale sconvolgimento sociale e politico, il cui fervore fu alimentato dalle idee proprie dell’Illuminismo e della Massoneria, che prometteva di cambiare il mondo, di creare una società libera dalle ingiustizie, di realizzare una vera eguaglianza tra gli uomini, portandoli tutti ad un elevato grado di conoscenza.
Osservando attentamente il logo, è possibile rintracciare diversi simboli massonici: lo scudo, la bilancia, la chiave (tutti e tre facilmente identificabili) e la squadra (meno visibile, è la linea spessa con il vertice sotto la bilancia che divide in due lo scudo).
Quest’ultima, sulla quale sono disegnati tredici punti (Il numero tredici ricorre più volte nella banconota), è certamente uno dei simboli massonici più noti perché rappresenta lo strumento principe del lavoro massonico. Racchiudendo in sé il rigore morale e la perfezione, con il suo angolo sempre fisso, simboleggia infatti il mondo del concreto, o ancora la misura della realtà oggettiva. La chiave rappresenta il sapere esoterico tramandato nel tempo dai confratelli massoni, mentre la bilancia simboleggia chiaramente il delicato equilibrio tra le forze opposte.
Curiosità: la scritta “In God We Trust” è presente su tutte le monete: il Congresso degli Stati Uniti lo stabilì il 22 aprile 1864 con il Coinage Act.
Girando la banconota da un dollaro, sulla sinistra è possibile notare, all’interno di un cerchio, una piramide tronca sormontata al vertice da un Delta, al centro del quale vi è un occhio (“Delta Luminoso” o “L’occhio che tutto vede”). La piramide, uno dei simboli più famosi della Massoneria, è formata da tredici gradini e settantadue mattoni (7+2=9, numero della perfezione massonica). Alla base vi è incisa la data “MDCCLXXVI”, ovvero 1776, anno sia della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America sia della nascita dell’Ordine degli Illuminati. Sotto la piramide la scritta Novus Ordo Seclorum (e non Secolorum come ci si aspetterebbe) è formata da diciassette lettere, numero che indica la mancanza della perfezione divina, rappresentata invece dal numero diciotto.
Come accennato il numero tredici ricorre numerose volte sulla banconota da un dollaro: tredici, infatti, sono gli stati che formarono la prima confederazione americana; tredici i “passi” da compiere durante il percorso di iniziazione degli Illuminati; tredici le lettere che compongono la scritta che sovrasta la piramide, Annuit Coeptis (“Approva le cose iniziate”).
A destra della banconota, è presente un altro simbolo massonico, l’Aquila. Anche qui il numero tredici ritorna costantemente. Tredici sono le stelle nell’aureola sopra l’Aquila così come lo sono le strisce presenti sullo scudo; tredici i rami con altrettante olive che compongono il ramo d’ulivo sorretto dall’Aquila nell’artiglio destro, mentre nel sinistro vi sono tredici frecce; tredici infine le lettere che compongono le parole E Pluribus Unum (“Da molti uno”), presenti nel cartiglio che l’Aquila regge con il becco. Quest’ultime rivelano che l’insegnamento degli Illuminati si diffonderà per dare inizio ad un nuovo governo universale.
Che si tratti di realtà o di pure coincidenze, che si creda o meno all’esistenza della Massoneria, al suo insito simbolismo, il misterioso fascino della banconota da un dollaro statunitense resta del tutto intatto.
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