scultura Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Tue, 03 Oct 2023 17:47:28 +0000 it-IT hourly 1 Venere di Milo: storia, descrizione e significato dell’opera https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/ https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/#comments Tue, 03 Oct 2023 17:44:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17625 Scultura di marmo, la Venere di Milo è una statua greca tra le più note e famose del mondo. Estremamente riconoscibile e simbolica è priva delle braccia e del basamento originale. La giovane Venere ritornò al mondo solcando le smarrite strade di un’età ormai perduta, vestita di una nobiltà marmorea e spogliata dal profano limite temporale, quale divinità scultorea di una bellezza bianca e immensa.

Venere di Milo - scultura
La Venere di Milo è una delle sculture più celebri della storia dell’Arte

Capelli raccolti, larghi fianchi fecondi e uno sguardo che ancora oggi colpisce nel complesso di una nudità incompleta ma sensuale, priva dell’illusorietà dell’imbelletto effimero, si fa effige di un’arte suprema, senza raffronti, nella crudele mutilazione del corpo solido che non eclissa l’originaria stupefacente bellezza, ma che paradossalmente fa della mancanza la via prediletta per comprendere la grandezza.

La “Venere di Milo” (130 – 100 a.C.) è tra le afroditi più suggestive scolpite nelle feconde terre del mondo classico, in quelle calde e brune terre egee, da cui fu rapita per incontrare lo sguardo del dispotismo francese e le pallide sale del Louvre, dove è collocata attualmente, in memoria di quella libertà erotica e sessuale che perse la sua purezza tanto tempo fa.

Quando la scultura diventa realtà, non esiste concezione temporale che contempli l’oblio. La grandezza è destinata a durare, la gloria a generare l’ eternità nella memoria, anche se sepolta.
Quando la polvere sotterra, l’uomo riporta alla luce il passato delle grandi ere umane, fiancheggiando la magnificenza di quella conoscenza nascosta che fa della storia umana il più grande mistero.

Venere di Milo - Louvre
La sala del Louvre in cui è esposra la statua della Venere di Milo

La Venere di Milo: genesi dell’opera

Le grandi scoperte archeologiche legano spesso la celebrità del proprio nome all’inusuale contesto esplorativo, casuale e ben lontano da una progettazione voluta, ma in ogni caso desiderata. La “Venere di Milo” come la “Nike di Samotracia” (190 a.C.) è figlia di un destino inatteso, che vide nell’indegna sepoltura la strada per risorgere e risplendere nuovamente.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

Le fortuite sorti della Venere ricaddero nelle mani di un contadino che individuò, l’otto aprile del 1820, la scultura nel proprio campo, vicino al teatro antico dell’isola di Milo.
La statua venne fortemente contesa tra Francia e Grecia, fino al trasporto a Parigi per volontà dell’ammiraglio Jules Sébastien César Dumont d’Urville (1790 – 1842) e il Marchese di Rivière, ambasciatore francese alla corte ottomana, che la donò a Luigi XVIII, per raggiungere il Louvre solo un anno dopo, nel 1821.

Al momento della scoperta il marmo era terribilmente danneggiato, separato di netto in due parti era privo di braccia e del piede sinistro, mai ritrovati nonostante le ulteriori spedizioni archeologiche.

Note tecniche e descrittive

Modellata dal mare, custode del potere universale, tu regni sovrastandoci mediante la tua grazia perfetta, attraverso quella tranquillità che già di per sé possiede un’immensa forza. La tua nobile serenità si manifesta ai nostri occhi, affondando nei nostri cuori come il fascino di alcune tombe, come quieta musica.

Così Auguste Rodin (1840-1917) elevava l’esaltante bellezza di una dea impudente, nel motivo filosofico dell’invincibile giovinezza (“invincibile youth“), e dunque nel concetto dotto di arte viva, immutabile nella mutabilità del mondo, quale ideale permeante dell’anima umana.

Con la “Venere di Milo” l’arte diviene poesia, ispirazione e musa di ogni cuore sensibile alla bellezza. Poeti, scultori, filosofi e pittori di ogni epoca e inclinazione culturale posero su di essa le basi di una riflessione intima e appagante, lontana da un indottrinamento accademico, difforme dalla teoria scritta, dai trattati eruditi di una conoscenza studiata, meditata.

L’ideale che diventa forma, in un’emulazione dalla natura che non termina nella semplice imitazione, ma che si arricchisce di un sentimento emergente nella posa, nell’aura comunicativa di uno sguardo parlante.

L’incompletezza si accompagna ai segni testimonianti un rigore quasi scientifico nella resa di un panneggio bagnato, aderente ai fianchi levigati dell’inebriante Afrodite.

Il colore bianco e la poetica

Il bianco, forse un tempo policromo, del manto avvolgente, riecheggia violentemente la magnificenza solenne della Nike di Samotracia, la Vittoria alata che calò trionfante a salvare le umane sorti di un potere quasi sconfitto. Nel confronto appare chiara la straordinarietà delle due realizzazioni scultoree, dissimili e unite dal ideale classico, ricordano al mondo il potere dell’arte, il potere espressivo della figura femminile nell’arte, quale veicolo perfetto a comunicare le umane passioni, nell’armoniosità di un corpo nudo e mai volgare, di una somma bellezza e di una misurata concezione estetica.

La poetica del cuore umano conduce ad apprezzare l’inqualificabile potere di un’arte che si trasforma e che trova nei suoi pezzi mancanti il simbolo di ideali più alti e didascalici.

Quello che più colpisce la sensibilità dell’osservatore è proprio l’assenza, quel vuoto che, pur colmato dalla semplice immaginazione, non intende essere riempito.

La “Venere di Milo”, dono che riserva all’età moderna il sentimento glorioso di un’epoca passata, deve la sua incredibile fama proprio alla singolare combinazione di una perfezione fisica minacciata.

La forza della moderazione trova nelle tornite forme femminili le misure adeguate ad esprimere l’incredibile gioco di luci e ombre, in cui volumi emergono e si ammorbidiscono sotto le direttive luminose e sapientemente studiate della sala espositiva.

Lo sguardo della Venere di Milo

Lo sguardo ruota e avvolge l’intero corpo, quasi potendo cogliere quel movimento, quell’attesa meditativa di un istante bloccato nei recessi del tempo.

La grandiosità del tempo aureo dell’arte scultorea trova ovviamente le basi solide di un eccezionalità constatata, indiscutibile e volgente all’intera orbita delle opere d’arte classica. L’ideale classico trova nella capolavoro di Milo il tempo di elevarsi e di porre svariati quesiti sull’identità del suo autore, sull’ispirazione mitologica generatrice di un’ideale scultoreo che abbandona la rigida frontalità nella scelta di una torsione del corpo nello spazio, in quella posa leggermente riversata all’indietro, nel piede che regge il corpo in un dinamismo perfetto.

Nell’ “Antologia; giornale di scienze, lettere e arti” dell’ottobre del 1832, l’archeologo e abate Battista Zannoni (1774 – 1832) ripercorse varie tesi interpretative allo scopo di configurare un profilo, se pur del tutto mitologicamente identificativo, di colei che ispirò il mondo alla conquista del tempo (“O conqueror of time !“, Rodin).

Le ipotesi fornite dall’abate chiaramente tratteggiano i connotati confusi del volto femminino dei culto greco, dove risulta impossibile stabilire con convinzione chi fosse realmente la Venere rappresentata.

Venere di Milo - dettaglio del volto
Venere di Milo: dettaglio del volto

Ipotesi e teorie

Dal confronto con altre sculture scoperte fino a quel momento e dallo studio del possibile orientamento nello spazio delle braccia verso sinistra, il filosofo, archeologo e critico d’arte francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1755 – 1849) teorizzò la presenza della statua all’interno di un gruppo scultoreo insieme alla figura di Marte, ipotesi che venne confermata e poi screditata dal ritrovamento di un braccio sostenente un pomo, dalle stile nettamente inferiore rispetto alla statua madre.

Una conclusione di questo tipo risultava convincente nel frangente di una connessione che congiungeva gli artefatti archeologici alla mitologia classica, dunque alle vicenda della vendetta di Eris (dea della discordia) ai danni di Atena (dea della saggezza), Era (regina degli dei) e Afrodite (dea della bellezza) e della tragica guerra di Troia.

A questi Marte, a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora e compagna la Contesa
insaziabilmente furibonda

Iliade, cap. IV, Omero

L’attitudine del mondo antiquario era quella di attribuire le opere ripetute entro un certo profilo iconografico ad un gruppo scultoreo originale e dalle qualità stilistiche superiori, giungendo a considerare i gruppi del medesimo motivo originati tutti dalla celebre “Venere di Milo”; per tale motivo si pensò che il volto della Venere delle Cicladi si rassomigliasse a quello della Venere del Museo Pio – Clementino il quale, grazie a due medaglioni imperiali battuti a Gnido, era attribuita a Prassitele (400/395 a.C. – 326 a.C.); fu proprio tale congettura ad indirizzare Quatremère de Quincy all’ipotesi che la scultura fosse uscita dallo studio o dalla scuola dello scultore ateniese.

L’ipotesi del gruppo scultoreo venne ritrattata dall’archeologo francese, nel proponimento di una scultura nata per vivere nella solitaria collocazione e al contempo in una relazione intensa con le statue di altre due dee.

Le qualità espressive della giovane dea sono sublimi, dove la franchezza dello sguardo severo collide con il torso magnificamente nudo, di “un ventre splendido, largo come il mare“.

Venere di Milo
Venere di Milo

Note Bibliografiche

G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
P. Daverio, Louvre, Scala, Firenze, 2016
A. Rodin (1911), To the Venus de Milo, Art and Progress (2), vol. III, 409 – 413.
B. Zannoni (1822), Sulla statua antica di Venere, scoperta sull’isola di Milo, in G. P. Vieusseux, Antologia; giornale di scienze, lettere e arti, vol. VIII, Firenze: 47 – 52

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Il Pensatore di Rodin: significato, storia e curiosità sulla celebre scultura https://cultura.biografieonline.it/auguste-rodin-il-pensatore/ https://cultura.biografieonline.it/auguste-rodin-il-pensatore/#comments Wed, 22 Feb 2023 06:11:58 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4794 Il Pensatore è una delle più celebri sculture della storia dell’arte; si tratta di un’opera in bronzo realizzata in un lungo arco di tempo, quasi venticinque anni – tra il 1880 e il 1904 – dallo scultore francese Auguste Rodin.

Rodin Pensatore Thinker

Conservata a Parigi nel museo che porta il nome del suo creatore, il suo titolo originale francese è Le Penseur.

Il pensatore: descrizione e significato

L’opera rappresenta un uomo seduto in profonda meditazione: il braccio destro poggia il gomito sulla gamba sinistra, vicino al ginocchio, mentre la mano rivolta indietro sostiene il mento e il capo.

La fama e la diffusione di questa famosissima immagina è dovuta anche – e, forse, soprattutto – al fatto che è spesso usata per raffigurare la Filosofia.

Il Pensatore, famosa scultura di Auguste Rodin
Il Pensatore, famosa scultura di Auguste Rodin

Le origini dell’opera

Inizialmente questa statua fu chiamata “Il poeta“: essa faceva parte di una porta monumentale in bronzo commissionata a Rodin come porta d’ingresso del Musée des Arts Décoratifs (Museo di arti decorative) a Parigi.

L’edificio tuttavia non venne mai inaugurato.

Auguste Rodin
Auguste Rodin

Lo sculture Auguste Rodin per questa porta scelse di raffigurare un tema a lui molto caro: si tratta dell’universo della Divina Commedia, all’epoca considerata un’opera densa di spunti romantici e avventurosi.

Nel progetto dell’artista francese c’erano molte figure, ognuna rappresentante uno dei principali personaggi presenti nel poema dantesco: in questo contesto Il Pensatore avrebbe dovuto raffigurare lo stesso Dante Alighieri davanti alle porte dell’Inferno, mentre meditava sulla sua grande opera.

Perché l’uomo è nudo?

La statua è nuda, poiché Rodin sceglie di rappresentare una figura eroica che si rifà alla filosofia artistica di Michelangelo Buonarroti: l’obiettivo dello scultore francese è quello di rappresentare insieme l’intelletto e la poesia.

Il richiamo alla scultura del Pensieroso di Michelangelo (realizzata per la tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino – Sagrestia Nuova della basilica di San Lorenzo a Firenze) è chiaro.

Il Pensieroso di Michelangelo
Il Pensieroso di Michelangelo: dettaglio del viso
Il Pensatore di Rodin
Il Pensatore di Rodin

Simbolo universale

Posto in cima a una roccia, al centro del timpano, in solitaria meditazione, il Dante di Rodin guarda verso il basso in direzione del mondo dei dannati. Nel giro di pochi anni la figura assume un’immagine e un significato più generico, anzi universale, tanto da entrare nell’immaginario collettivo come una sorta di definizione, di fatto un simbolo e una icona dell’attività intellettuale.

Anche l’uso satirico di tale figura è molto diffuso da lungo tempo, addirittura anche quando Rodin stesso era ancora in vita. Il petroliere americano – nonché appassionato collezionista d’arte – Armand Hammer raccontò che incontrando faccia a faccia Lenin nel 1912, gli portò in donò una piccola scultura raffigurante uno scimpanzé nella posa del Pensatore, in atto di meditazione sopra ad un teschio umano: il messaggio di Hammer era teso a sottolineare con sarcasmo le tendenze darwiniste del pensiero di Lenin.

Sono numerose le le versioni di questa scultura distribuite nei musei in tutto il mondo. Alcune di queste copie sono versioni ingrandite dell’originale, oppure sculture realizzate in scala.

Una versione, voluta dallo stesso Auguste Rodin, è presente anche sulla sua tomba.

Replica in bronzo del Pensatore di Rodin
Replica in bronzo
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Schiavo Ribelle e Schiavo Morente (i Prigioni, di Michelangelo Buonarroti) https://cultura.biografieonline.it/schiavo-ribelle-morente-michelangelo/ https://cultura.biografieonline.it/schiavo-ribelle-morente-michelangelo/#respond Tue, 09 Aug 2016 14:19:28 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19100 Sussurri attutiti e sospiri sofferenti accompagnano l’ammirazione rapita dello spettatore giunto al Louvre, le cui sale risplendono, non poco, grazie ai rilucenti marmi della statuaria rinascimentale, di cui si erigono a simbolo le due statue note nel quadro artistico come lo “Schiavo ribelle” e lo “Schiavo morente” di Michelangelo Buonarroti.

Schiavo morente - dettaglio - Dying slave detail - Michelangelo
Una foto ravvicinata che mostra i dettagli dello Schiavo Morente (Dying Slave) • Michelangelo Buonarroti, 1513 – 1515, marmo, Museo del Louvre

Non esiste giudizio abbastanza esauriente, idea abbastanza vasta da includere nel proprio etere la gloria di un’arte suprema, quale fu quella del celebre genio toscano.
Realizzati per la tomba di Papa Giulio II, i Prigioni, furono esclusi dal progetto tombale, finendo nelle ricche dimore francesi di Roberto Strozzi, per divenire, infine, rinomato omaggio concesso dal nobile fiorentino al re di Francia Francesco I.
I due capolavori michelangioleschi sono tuttora conservati nel museo parigino del Louvre.

Schiavo Ribelle - Rebellious Slave - Michelangelo
Schiavo Ribelle (Rebellious Slave) • Michelangelo Buonarroti, 1513 – 1515, marmo, Museo del Louvre

Schiavo Ribelle e Schiavo Morente: la genesi delle opere

Le sculture custodite nel rinomato museo parigino, i cosiddetti “Prigioni” di Michelangelo, furono scolpite allo scopo di adornare il basamento del mausoleo del Papa Giulio II, il Giuliano della Rovere noto come il “Papa Terribile“, il “Papa pericoloso“.

«Fatto appena papa, egli pensa ai suoi funerali. Aveva conosciuto un artista a Firenze: lo chiama a sé e gli dice con affettuosa dimestichezza: io ti conosco e per questo ti ho fatto venir qui. Io voglio che tu faccia il mio mausoleo. – Ed io me ne incarico. – risponde Michelangelo. Un mausoleo magnifico, ripiglia il papa .Costerà caro, dice sorridendo Michelangelo. – E quanto costerà ? – Centomila scudi. – Io te ne darò dugentomila. E Michelangelo cominciava la tomba di Giulio II.»

(“Storia universale della chiesa cattolica. Dal principio del mondo fino ai dì nostri”, Rohrbacher).

La critica è concorde nell’associare le due creature michelangiolesche alla seconda versione della tomba papale, quella risalente al 1515. Poiché il progetto successivo e definitivo, quello del 1524, portò inevitabilmente all’eliminazione di entrambe le sculture dal collocamento cui si pensava sarebbero state predestinate.

L’infausta sorte dei Prigioni confluì a favore e nelle forme di un prestigioso dono nel ricco patrimonio di Roberto Strozzi, garante di un’ospitalità riservata al maestro toscano, la cui salute fuggiva dall’insalubre ambiente romano.

Le statue dei Prigioni, scalpellate da Michelangelo e mandate a Roberto Strozzi, furono spedite in Francia nell’aprile del 1550.
Fra le carte di Strozzi Ugoccini, allogate presso l’archivio di Stato di Firenze, si legge:

“Signor Ruberto Strozzi in conto di sue spese dee dare a dì 29 Aprile 1550 ducati 14, 5 moneta, fatti buoni a m. Paolo Ciati per tanti spesi per condurre a Ripa et acconciare in barca le statue di Michelangelo mandate in Francia ” (VASARI) .

Stemma gentilizio della famiglia Strozzi
Stemma gentilizio della famiglia Strozzi

Una volta giunte in Francia, le statue Schiavo Ribelle e Schiavo Morente, furono collocate nel castello del connestabile di Montmorency a Écouen e in quello di Richelieu a Poitou, per divenire poi dono regale da destinare a Francesco I di Francia, il capostipite della dinastia regale dei Valois – Angoulême.

Antica illustrazione ritraente il palazzo della famiglia Strozzi
Antica illustrazione ritraente il palazzo della famiglia Strozzi

I Prigioni: analisi, note tecniche e descrittive

Michelangelo scolpì le emozioni, i corpi nudi, i visi stravolti dalla passione, edificando la propria genialità ai piedi di un’arte grandiosa, immortale e sempiternamente insuperata in quanto a slancio ed emotività ispiratrice.

Schiavo morente - Dying slave - Michelangelo
“Schiavo morente”, scultura di Michelangelo

L’anima raggiunse, come nel tocco della creazione, il corpo morto della pietra lattea, conferendo a essa lo spirito vigoroso di vita e tempra altrettanto vivi, d’apparire esistenti nella realtà dello spettatore che ammira, prossimi al cuore grazie al movimento del corpo, alla mimica dei volti.

Il Rinascimento vide in Michelangelo l’eroe bisbetico dalla vita sofferta, scandita dalle tormentate note del rifiuto amoroso, dal calvario di un’anima feroce in un corpo fin troppo debole.

L’anima soffrì, si scheggiò nell’infinità di un grande intelletto, mutato nell’esistenza in una disperazione munita di scalpello, in una foga tagliente, arguita e tremendamente brutale, nel connubio di quella vita in cui il marmo è carne, lo scalpello, parola.

Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro.
(Diari, Michelangelo)

Schiavo Ribelle - dettaglio - Rebellious Slave - detail - Michelangelo
Un dettaglio dello “Schiavo Ribelle”

I “Prigioni” subirono l’originale appellativo da Michelangelo stesso, quale titolo idoneo per qualsiasi anima intrappolata nel corpo, e che come tale tenta di liberarsene.
Lo “Schiavo morente ” e lo “Schiavo ribelle” costituirono insieme al “Mosè” i primi frutti ceduti in onore della tomba di Giulio II, nonché prime statue marmoree portate a compimento dopo il “David” e la “Madonna di Bruges”, all’interno di un’ampia crescita, tale da combinare una seria metamorfosi nella suo leggendario linguaggio scultoreo.

Michelangelo - Mosè
Michelangelo – Mosè

Quando nel gennaio 1506 venne riportato alla luce tra le rovine delle Terme di Tito, sull’Esquilino, il celebre Laocoonte di Agesandro, Polidoro e Atenodoro, Michelangelo tra i primi ad ammirarlo, ne rimase profondamente colpito.

L’eccezionale gruppo scultoreo del Laocoonte anticipò la gloria della propria scoperta grazie alla testimonianza di Plinio il Vecchio, giungendo ai tempi rinascimentali come l’esempio più eccelso della statuaria classica di età Ellenistica: il nudo eroico, la tragicità di un movimento disperato di spire fossilizzato nel tempo, nell’evidente sofferenza fisica, suggestionarono Michelangelo a tal punto da incidere intimamente sulle soluzioni espressive e stilistiche adottate per gli “Schiavi“.

'Laocoonte e i suoi figli'', Agesandro, Atanodoro e Polidoro, marmo, I d.C., Musei Vaticani
“Laocoonte e i suoi figli”, Agesandro, Atanodoro e Polidoro, marmo, I d.C., Musei Vaticani

« Il papa comandò a un palafreniere: va, e dì a Giuliano da San Gallo che subito le vada a vedere, e così subito s’andò: e perché Michelangelo Buonarroti si trovava continuamente in casa, che mio padre l’aveva fatto venire, e gli ave va allogata la sepoltura del papa […]»

(“Arti e lettere. Scritti raccolti”, p. 178)

Le due statue, infatti, risultano essere dinamiche: lo schiavo ribelle tirato nello sforzo della liberazione dei lacci della prigionia, lo schiavo morente nella debolezza dello sfinimento, con i muscoli che perdono la tensione dello sforzo e si abbandonano al sonno della dipartita, ovvero alla “transizione tra la vita e la morte” (GRIMM).

Ermanno Grimm
Ermanno Grimm, scrittore e storico dell’arte tedesco, 1828 – 1901

Il fantasma del Laocoonte consentì a Michelangelo di affrontare la realizzazione delle due sculture mediante una plasticità piena e libera. Lasciando da parte l’uso del trapano, si concentrò sull’esito della gradina e delle statue rilievo, create per essere viste secondo un privilegiato punto di vista frontale. Tale era la tradizione nella produzione statuaria fiorentina.

L’influenza del Laocoonte insignì di novità l’opera dell’artista toscano, legandosi, dopo tutto, alla realtà anticheggiante del mondo di Fidia e al contempo superandola. Così sostenne lo scrittore e storico tedesco Ermanno Grimm, nel segno di una profondità eroica, in un confronto tra la scultura antica e rinascimentale che si limita nel primo istante del paragone, per poi evolversi in un estremo progresso.

Per Michelangelo modellare l’argilla era quasi come dipingere, ribadendo, di fatti, che la vita emerge dal marmo liberamente, grazie a un lavoro emancipato, d’ispirazione e che si serve del modello solo come misera guida:

“Michelangelo considerava una statua in marmo, non già quale una copia, una riproduzione del modello in creta, ma bensì quale cosa già perfetta, la quale stava nascosta nel marmo, dal quale lo scalpello doveva cavarla fuori, quasi dalla scorza che la rivestiva” (GRIMM).

Copertina del volume ''Rime di Michelagnolo Buonarrote raccolte da Michelagnolo fuo Nipote'', MDCXXIII
Copertina del volume ”Rime di Michelagnolo Buonarrote raccolte da Michelagnolo fuo Nipote”, MDCXXIII

In un suo sonetto ritroviamo il medesimo concetto:

Non ha l’ottimo artista alcun concetto,
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio; e solo a quella arriva
La man, ch’ubbedisce all’intelletto.

Note Bibliografiche
G. Vasari, I. Bomba, “Vita di Michelangelo”, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1993
E. Grimm, “Michelangelo per Ermanno Grimm”, vol. II, Ditta editrice F. Manini, Milano, 1875
M. Buonarroti, S. Fanelli, “Rime”, Garzanti, Milano, 2006
P. Daverio, “Louvre”, Scala, Firenze, 2016
F. Gasparoni, B. Gasparoni, “Arti e lettere. Scritti raccolti”, Tipografia Menicanti, 1865

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Musei Vaticani https://cultura.biografieonline.it/musei-vaticani/ https://cultura.biografieonline.it/musei-vaticani/#comments Tue, 12 Apr 2016 20:57:24 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17719 Visitare i Musei Vaticani significa immergersi simultaneamente tra le onde di un tempo che rivive il presente nell’immagine del proprio solenne passato, e che s’innesta nel futuro come ideale eterno e universale di un concetto estetico e comunicativo immortale, nato dai padri dell’umanità per impressionare generazioni di figli, nel frangente di una continuità che non sfibra, ma che fortifica ogni antico concetto.

Musei Vaticani

La pluralità della conoscenza incontra le fasi più nobili dello spirito umano nella magnificenza della sede vaticana dove, tra le antichità di una religiosità permeante marmi e antichi segreti, vige il potere indiscusso della Chiesa di Roma. La grandezza incontra il potere nell’incalcolabile connubio tra arte e reggenza clericale, devota a Dio e agli uomini creati a sua immagine e somiglianza. Non esiste vastità più ampia di un complesso dove vige l’anima del mondo, il cuore pulsante di una storia pressoché infinita che articolò i benefici della vittoria sulle rimesse fondamenta del debole pensiero, corrotto e dunque soffocato.

La storia del Vaticano è la storia del mondo, così come ogni parte del mondo fu tassello nel glorioso disegno evangelicamente imperituro di una conquista delle anime lontane dalla Chiesa e quindi da Dio.

L’eccezionalità delle personalità pontificie legò indissolubilmente la storia dei Musei Vaticani a una collezione d’arte stupefacente, in una varietà di manufatti e opere d’arte rappresentanti le fasi più alte dell’artisticità umana, dai corpi perfetti e atletici della statuaria classica fino alla modernità sorprendente e inquieta dei mentori dell’ideale spesso sofferente dell’arte novecentesca.

Musei Vaticani: la Storia

Ripercorrere la storia dei Musei Vaticani significa ripercorrere i vicoli della Roma rinascimentale, quando il potere si decorò d’illustri ornamenti, colpendo il cuore della cristianità di una rinnovata concezione artistica, generata dalla mente dei precursori di una potenza interpretativa senza eguali, di una ricchezza compositiva distillata di passione e sottomissione, di un totale asservimento vincolato alla consapevolezza di una somma missione ordinata e intensissimamente voluta dal vicario di Cristo in terra.

L’ispirazione nacque dalle contorte spire del gruppo scultoreo del “Laocoonte” (I secolo a.C.), per giungere, infine, alla genesi del nucleo primitivo della collezione intrapresa da papa Giulio II (1443 – 1513), che non solo gettò le basi di un complesso museale di un’assoluta importanza, ma la cui prima formazione influenzò in maniera consistente il percorso artistico e la mente sensibile ed estremamente ricettiva dei grandi protagonisti del panorama rinascimentale italiano, come nel caso di Michelangelo Buonarroti (1475 – 1564), che seppe fare del “Torso del Belvedere” (I secolo a.C.) l’anima di una propria poetica, e i cui risvolti riecheggiano tra i corpi nudi e mascolinamente torniti dei personaggi che popolano la volta della Cappella Sistina.

La volta della Cappella Sistina
Musei Vaticani: la volta della Cappella Sistina

Il 1508 coincide con l’incipit di una grandiosa e maestosa volontà collezionistica, sacra al valore dell’umano apprezzamento e allo strumento dell’arte quale mezzo per raggiungere Dio, dunque l’anima del mondo.

Quando Giulio II, Giuliano della Rovere, nell’ampio respiro di un mecenatismo illustre e fortemente classicista, acquistò il mitologico gruppo scultoreo urlante di orrore e ritraente, nelle solide forme di un marmo ammirevole, l’inganno della sorte brutale toccata al sacerdote troiano, qualcosa nella storia variò, cambiando gli attesi destini dello “Status Civitatis Vaticanæ”.

“[…] Egli, com’era
D’atro sangue, di bava e di veleno
Le bende e ‘l volto asperso, i tristi nodi
Disgroppar con le man tentava indarno,
E d’orribili strida il ciel feriva;
Qual mugghia il toro allor che dagli altari
Sorge ferito, se del maglio appieno
Non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.”

(Virgilio, Eneide, Libro II, 370 – 377)

Il classicismo della virgiliana figura morente del “Laocoonte” trova in sé il motivo chiave di una collezione, quella classica, che fece della sua esistenza la giustificazione di quell’impero, un tempo romano e fecondo di conquiste, che proseguì passando dalle contuse mani di Lucius Aemilius Paullus (229 a.C. – 160 a.C.) e Flavio Valerio Aurelio Costantino (306 – 307) alle ingemmate dita di Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici, 1475 – 1521) e Paolo III (Alessandro Farnese, 1468 – 1549), verso la fatalità benedetta e gloriosamente sacra di un “Imperium sine fine”, ovvero di un impero prepotentemente consacrato alla Chiesa Cattolica, nella pagana citazione dell'”His ego nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi” di Publio Virgilio Marone (70 a.C. – 19 a.C.).

Un ideale sommo, celestialmente guidato nella riuscita di un’opera suprema di materializzare dell’antico binomio che lega la creazione a Dio, nell’esatta corrispondenza dell’uomo capace di creare e trasformare la materia, infondendo in essa la scintilla dell’umana vitalità, come l’assoluta potenza che colma la breve distanza che separa l’indice di Dio da quella di Adamo, negli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina.

Il potere incontrò il prestigioso volto dell’arte rinascimentale nei sublimi ambienti vaticani, portando a compimento il magniloquente incontro, in molti casi agonistico, tra Raffaello Sanzio (1423 – 1520) e Michelangelo Buonarroti.

La fervente contesa che spesso animava gli artisti, volgeva altrettanto frequentemente l’indomita indole ai danni dei giudizi estranei alla volontà personale.

Come nel caso di Michelangelo che con riluttanza accoglieva le opinioni altrui, atteggiamento che palesò nella laconica risposta data al drammaturgo e poeta Pietro Aretino quando questi dispensò alcune indicazioni attinenti la realizzazione del “Giudizio Universale“:

[…] Sommi molto rallegrato per venire da voi, che sete unico di virtù al mondo, et anche mi sono assai doluto, però che, avendo compìto gran parte de l’historia, non posso mettere in opra la vostra imaginazione, la quale è sì fatta, che se il dì del giudicio fusse stato, et voi l’aveste veduto in presenzia, le parole vostre non lo figurarebbono meglio […].

I Musei Vaticani si configurano, dunque, non solo come indiscussi custodi del sublime operato umano, ma come frangente entro cui si sviluppò la sofferenza, l’indocile passione, il sentimento artistico che mosse gli ingranaggi dell’illustre “intelligentia“, nelle afflizioni estenuanti di capolavori d’immensa portata; le illustri esternazioni del genio artistico amalgamavano il colore al sudore della fatica, l’estetica perfezione delle forme all’inguaribile indebolimento fisico, liberando e trasformando ogni mera rinuncia materiale in un supremo capolavoro artistico, in un’evidente elevazione spirituale facilmente deducibile da alcuni dei versi del Buonarroti, che ritraggono, lo stesso, ormai piegato dagli sconfinati sforzi rivolti alla realizzazione degli affreschi della volta della Cappella Sistina:

Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco soriano
Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerboctana torta.

(M. Buonarroti, Le Rime, 12 – 17)

Le evoluzioni

L’origine delle collezioni vaticane sbocciò esuberante dal marmoreo “Cortile delle statue“, oggi “Cortile Ottagonale“, per evolversi sovente in quel patrimonio artistico che riempì di magnificenza i lussuosi saloni vaticani, portando alla nascita di nuovi spazi espositivi e dunque museali.

Nel corso del XVIII secolo fu fondato il primo nucleo del “Museo Pio – Clementino” per l’opera culturalmente e artisticamente feconda di Clemente XIV (Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli, 1705 – 1774) e Pio VI (Giannangelo Braschi, 1717 – 1799), mentre nel secolo successivo, con Pio VII (Barnaba Niccolò Maria Luigi Chiaramonti, 1742 – 1823) furono fortemente ampliate le raccolte di antichità classiche e la collezione epigrafica, ospitata nella “Galleria lapidaria” (XVIII secolo).

Con Gregorio XVI (Bartolomeo Alberto Cappellari, 1765 – 1846) si aprirono le porte del “Museo Gregoriano Etrusco” (1828) e del “Museo Gregoriano Egizio” (1839), con i reperti provenienti dagli scavi dell’Etruria meridionale e alcuni artefatti nativi del “Museo Capitolino e Vaticano”.

Nel 1844 fu inaugurato il “Museo Lateranense”, luogo espositivo che vanta la presenza di statue, mosaici, bassorilievi di età romana, i quali non trovarono posto nei palazzi vaticani.
Sotto il pontificato di San Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto, 1835 – 1914) fu inaugurato il “Lapidario Ebraico” (1910), sezione ospitante 137 iscrizioni degli antichi cimiteri ebraici di Roma.

I Musei Vaticani si figurano come un contesto espositivo diffuso, in altre parole scandito in una moltitudine di spazi dislocati in varie edifici o ambiti museali; nel limite di una sintesi esaustiva è risulta necessario ricordare la “Galleria degli Arazzi” (1838), la “Galleria delle carte geografiche” (1580) voluta da Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1502 – 1585) e restaurata da Urbano VIII (Maffeo Vincenzo Barberini, 1568 – 1644), la “Sala Sobieski”, la “Sala dell’Immacolata Concezione” (1854), la “Loggia di Raffaello” (1517 – 1519), le “Stanze di Raffaello” (1508 – 1524), la “Cappella di Beato Angelico” (“Cappella Niccolina”, 1447) voluta da Niccolò V (Tomaso Parentucelli, 1397 – 1455), la “Cappella Sistina” (1483), gli “Appartamenti Borgia” (1492), la “Pinacoteca Vaticana” (1932) e il “Museo Missionario Etnologico” (1926).

Il 1973 fu l’anno della nascita della collezione d’arte religiosa moderna e contemporanea e quella del “Museo Storico”, ospitante una serie iconografica dei papi nonché i cimeli dei corpi militari soppressi.

La collezione

I Musei Vaticani, vigilanti di un’arte sacra e al contempo contemporanea, riempirono quell’infausta frattura che per secoli aveva emarginato la sacralità dalla modernità, in un concetto che induceva a escludere dalle collezioni vaticane i maggiori esemplari di arte moderna, in una comprensione di una religiosità nuova, sofferta e ricercata, come nella “Pietà” (1889) di Van Gogh, e fortemente discussa nel “Crocifisso” (1954) di Salvador Dalì.

Un’arte moderna che rimanda ai miti del Rinascimento, un’arte rinascimentale che richiama il forte classicismo della statuaria greco – romana, in un’avanzante e galoppante schiera dei più assoluti e universalmente riconosciuti capolavori antichi; è il caso di citare l'”Atena e Marsia” (450 a.C.) di Da Mirone, l’ “Amazzone Mattei” (V secolo a.C.) di Fidia, “Afrodite Cnidia” (360 a.C.) di Prassitele, l’ “Apollo del Belvedere” (350 a.C.) di Leocares, la “Statua colossale di Claudio” (47 d.C.), l’ “Augusto di Prima Porta”, l’ “Apoxyómenos” (330 -320 a.C.) di Lisippo, il “Gruppo del Laocoonte” (I secolo d.C.), gli “Affreschi dell’Odissea dalla casa di via Graziosa” (I secolo a.C.), la “Base dei Vicomagistri” (20 – 40 d.C.), la “Colonna Antonina” (161 – 162 d.C.), il “Sarcofago di Costantina” (340), il “Sarcofago dogmatico” (320 – 340), il “Ritratto del decennale di Traiano” (108 d.C.) e il “Ritratto di Filippo l’Arabo” (244 d.C.).

Il mondo classico sfuma lentamente le brillanti superfici pallide e pagane dei marmi ellenici nella complessità dell’arte medievale che, nel terreno fertile di una venerazione religiosa al limite della faziosità, vide l’investitura di un’arte splendida, narrata dai capolavori vaticani dell'”Evangeliario di Lorsch” (“Codex Aureus di Lorsch”, 778 – 820), dal “Polittico Stefaneschi” (1320) di Giotto, l'”Annunciazione” (1423 – 1425) di Gentile da Fabriano e dai cinque scomparti della predella del “Polittico Quaratesi” (1425).

Nati nel cuore del Rinascimento, i Musei Vaticani godettero del privilegio di artisti contemporanei celebri, che seppero fare dell’arte lo strumento di un potere religioso in progredente crescita, serbando ed esibendo la maestosità di un periodo glorioso attraverso un rinnovamento ideale e materiale che si espresse attraverso gli arazzi della Cappella Sistina di Raffaello, la predella della “Pala di Perugia” (1438) di Beato Angelico, l'”Incoronazione Marsuppini” (1460) di Filippo Lippi, il “San Girolamo” (1480) di Leonardo da Vinci e la “Pietà di Pesaro” (1471-1483) di Giovanni Bellini.

Nel complesso progresso artistico che unì gli uomini al supremo ideale che è l’arte, nell’ottica di uno strumento che cova in sé uno spirito capace di comprendere ogni epoca, si giunge all’illusoria fine di un percorso, nei vasti meandri dell’arte moderna e infine contemporanea, con la “Deposizione” (1602 – 1604) di Caravaggio, il “Martirio di sant’Erasmo” (1628) di Nicolas Poussin, il “Perseo trionfante” di Antonio Canova (1797 – 1801) e le potenti e irrequiete opere sopracitate di Salvator Dalì e Van Gogh.

Perseo trionfante - Scultura di Canova
Perseo trionfante: Perseo tiene con la mano la testa di Medusa (Scultura di Canova)

Note Bibliografiche
C. Rendina, I papi. Da San Pietro a Papa Francesco. Storia e segreti, Newton Compton Editori, Roma, 2013
M. Buonarroti, S. Fanelli (curatore), Rime, Garzanti, Milano, 2006
T. Filippo, La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo. Lettere scelte 1532-1564, Fazi, Roma, 2002

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Nike di Samotracia, descrizione e storia https://cultura.biografieonline.it/nike-di-samotracia/ https://cultura.biografieonline.it/nike-di-samotracia/#comments Wed, 09 Mar 2016 12:39:30 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17265 La Nike di Samotracia vive dell’estasi di una bellezza incompleta e trionfante, celebrando l’esaltazione di una vittoria avvenuta più di duemila anni fa, ricorda al mondo il valore assolutamente intrinseco dell’imperfezione, dove il limite non priva di bellezza, ma l’esalta. Realizzata in marmo pario intorno al 200 a.C., conobbe l’ostinazione della ricerca archeologica di fronte all’enigma di una forma ancora a quel tempo sconosciuta e incompiuta.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

La superba fenice, risorta dal cocente suolo dell’isola di Samotracia, deve la sua rinascita all’archeologo Charles Champoiseau che, quasi sedotto dal seno affiorante, la riportò nuovamente al mondo.

La collocazione in un contesto moderno, quale si configura il museo del Louvre, ridona bellezza e gloria al corpo mutilato che, nell’evocazione di una tenace sensibilità, spinge lo spirito in un’atmosfera mitologica ed eroica, in un tempo in cui la vita di uomini e dei s’intrecciava nell’umana lotta per la conquista di prestigio e potere.

Storia e archeologia a Samotracia

A nord-ovest dello stretto dei Dardanelli, un’isola dalla forma ovale e dal passato sacro e glorioso affiora dalle miti acque del mar Egeo, noto alle fonti classiche per l’infausta sorte toccata al figlio di Pandione, re di Atene, dopo aver creduto di aver perduto per sempre l’amato figlio Teseo.

Mappa dell'isola di Samotracia
L’isola di Samotracia

L’isola di Samotracia non associa unicamente la notorietà del proprio nome alle leggendarie cronache della storia classica, poiché essa fu in assai rare occasione teatro di memorabili scontri, tuttavia lega buona parte della propria celebrità alla propizia scoperta della statua ritraente la Nike alata.

Nike alata - scultura
Nike alata

Dalle sterili rocce brune non emerse mai il richiamo di un influente centro politico e commerciale, eccezion fatta per la piccola città di Paleopoli e dell’antico santuario celebrante le divinità conosciute come “Kabeiroi” (Κάβειροι).

L’altare di Samotracia giocò un ruolo fondamentale nelle vicende, spesso drammatiche, legate ai principi macedoni e tolemaici: nel 280 a.C., Arsinoe II (316 a.C. – 268 a.C.), figlia di Soter, minacciando di morte il marito Lisimago, costrinse quest’ultimo a rifugiarsi a Samotracia, fino a quando ella sposò, nel 279 a.C., il suo stesso fratello di sangue, Tolomeo Cerauno.
Perseus, l’ultimo grande re di Macedonia, vinto dall’esercito romano a Pydna, nel 165 a.C., trovò asilo nel santuario di Samotracia, fino alla resa obbligata imposta dal pretore Ottaviano.
L’antico tempio dorico, situato nella valle, iniziò gradualmente a essere circondato da edifici votivi, in particolar modo da un nuovo tempio dorico dotato di un portico, costruito dai principi tolemaici, un propileo e una grande rotonda, eretta da Arsione.

Gli scavi archeologi e la scoperta della Nike di Samotracia

La storia e l’archeologia dell’isola di Samotracia sono da considerarsi il proscenio di una scoperta straordinaria che, avvenuta nella seconda metà del XIX secolo, ridestò l’interesse del pubblico nei confronti dell’arte classica. L’archeologo viennese Alexander Conze (1831 – 1914), nel 1858, esplorò per la prima volta l’isola, conducendo un’indagine archeologica che si rivelò in termini di scoperte del tutto infeconda.

Nel 1863 Charles Champoiseau (1830 – 1909), viceconsole di Francia ad Adrianopoli, ottenne un finanziamento dal governo francese per l’avvio di nuovi studi sulle rovine degli edifici di Samotracia; gli scavi furono avviati nel marzo dello stesso anno, con il conseguimento di risultati che tuttora destano meraviglia.

Mentre gli operai erano impegnati a far emergere dalla polvere la facciata del Santuario dei Grandi Dei di Samotracia, Champoiseau, passeggiando a circa 50 metri dal sito, fu attratto dal candore di un marmo emergente dal terreno, il quale una volta liberato dai detriti si scoprì avere fattezze delicate di un seno; gli scavi proseguirono fino a una profondità di due piedi, portando alla luce una splendida figura femminile alata.

La scoperta della statua avvenne a pari passo con quella di alcuni blocchi di marmo dalla strana forma, e che per tale motivo sarebbero stati trascurati fino al 1879. La Nike di Samotracia raggiunse immediatamente la Francia e nel 1866 fu esposta al Louvre dove, in un buio angolo nella Sala delle Cariatidi, attraeva gli sguardi più affettuosi e ammiranti.

Nike di Samotracia - dettaglio
Un dettaglio della Nike di Samotracia, celebre scultura esposta al Louvre di Parigi • Il famoso “swoosh” dell’azienda Nike (che deriva il suo nome dalla dea della Vittoria) si ispira proprio al movimento dell’ala della Nike di Samotracia.

L’enorme attenzione che questa scoperta scatenò, spinse il governo a organizzare una nuova missione esplorativa sotto la direzione di M. Gustave Deville e Georges Ernest Coquart (1831 – 1902) che, al contrario di quanto si auspicasse, non portò nuova luce sulla gloriosa scoperta precedente.

Conze, che nel frattempo era divenuto professore a Vienna, persuase il Ministero Austriaco della Pubblica Istruzione a finanziare una nuova esplorazione archeologica a Samotracia. Nel 1873 Conze raggiunse il sito accompagnato dagli architetti Aloïs Hauser (1841-1910) e George Niemann (1841 – 1912): la spedizione consentì di chiarire gli aspetti ancora misteriosi legati all’architettura degli edifici costellanti l’isola, di portare alla luce dei piccoli frammenti di marmo e un certo numero d’iscrizioni.

Con la scoperta di nuovi blocchi marmorei sull’isola di Samotracia, l’archeologo austriaco Otto Benndor (1838 – 1907) generò un’ipotesi illuminante, congetturando gli elementi a disposizione affermò che i marmi dalla strana forma, per lungo tempo trascurati, costituivano in realtà il piedistallo della statua, nella fattispecie la prua sulla quale si elevava trionfante la dea Vittoria.

La Nike di Demetrio I di Poliorcete

L’ipotesi banndoriana trova fondamento nell’analisi del tetradramma, emesso nel 293 a.C., di Demetrio I Poliorcete (337 a.C. – 283 a.C.): monete di questo tipo erano coniate nel caso di vittorie navali di grande portata, in questo particolare frangente il ruolo encomiastico della Nike di Samotracia deve la sua genesi alla vittoria Demetrio I di Poliorcete su Tolomeo d’Egitto presso Salamina di Cipro, nel 306 a.C. .

La disputa sull’autore

L’archeologo britannico Charles Thomas Newton (1816 – 1894) nel saggio “Essey on Art and Archeology” presuppose che:

“Lo spessore, il trattamento originario delle pieghe in movimento e il drappeggio sono rivelazione di un movimento rapido, la cui magnificenza non fu mai valicata nel campo della scultura. […] Si è a conoscenza della fervida attività di Skopas a Samotracia, supposizione che permette di attribuire la Nike alla scuola di questo scultore” (CHILD).

Ulteriori studi condussero l’attenzione su Peonio di Mende, contemporaneo di Fidia, autore della Nike di Olimpia concepita per commemorazione della battaglia di Sfacteria del 425 a. C..
La scultura arcaica non si rivelò mai musa svelatrice dell’energica psiche umana, gli dei rappresentati da Fidia sono impassibili e permeati da una sublime tranquillità, mentre con Skopas l’arte ellenistica raggiunse l’espressione dell’antropica passione.

La Nike germogliò dal soffio vitale di un’idea nuova: la Vittoria alata fu solcata nel bianco marmo riconoscendole la fattezza di una giovane donna rifulgente di una vibrante vigoria, attestando nell’ampio panorama classico il sommo momento di congiunzione tra forza e delicatezza.

Note Bibliografiche
G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
T. Child, Art and criticism; monographs and studies, Harper & Brothers, Franklin Square, New York, 1892

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Ebe, scultura di Antonio Canova https://cultura.biografieonline.it/ebe-canova/ https://cultura.biografieonline.it/ebe-canova/#comments Thu, 02 Jul 2015 14:57:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14647 La statua in marmo di Ebe (alta cm 157) è sicuramente una delle più elevate creazioni in cui si incarna l’ideale neoclassico del Bello, ricercato e sperimentato dallo scultore italiano Antonio Canova (“Amore e Psiche”, “Adone e Venere”). Di questa scultura, una delle opere più controverse e discusse dell’artista, esistono quattro versioni, realizzate in tempi diversi e con diverse scelte stilistiche. L’opera presa in esame è il primo esemplare di Ebe scolpito dal maestro Canova.

Commissionata forse all’artista dal principe Jusupof nel 1795 (terminata dopo quattro anni, nel 1799) la statua, che fu poi ceduta a Giuseppe Vivante Albrizzi e acquistata nel 1830 dal re di Prussia Federico Guglielmo III, oggi si trova presso la Nationalgalerie di Berlino.

Ebe - Antonio Canova
Ebe – Antonio Canova

Ebe, descrizione dell’opera

Nella mitologia greca Ebe (la Juventas romana), figlia di Zeus e di Hera (o Era), era la dea dell’eterna giovinezza. Ancella e coppiera degli dei, sostituita successivamente dal bellissimo Ganimede, aveva il compito di servire alle divinità l’ambrosia e il nettare, ovvero il cibo e la bevanda di cui questi ultimi si nutrivano per mantenersi giovani e immortali.

Abbandonate le torsioni barocche, gli elementi estranei e i superflui panneggi a tutto vantaggio di una composizione pura, in grado comunque di incarnare e trasmettere azioni e sensazioni, Canova, esponente di spicco del Neoclassicismo, nella sua scultura fa rivivere la lezione appresa sui valori fondamentali dell’arte antica dal critico tedesco Johann Winckelmann: la ricerca della “nobile semplicità” e della “quieta grandezza”.

Nella sua opera, l’artista veneto riversa perfettamente la grazia, l’armonia e la compostezza neoclassica, cogliendo mirabilmente Ebe nel suo procedere leggero e lieve, quasi danzante. Riverente e silenziosa, come si confà ad una ancella, la dea avanza in punta di piedi, su una nuvola, con una grazia tale da annullare la gravità del marmo che la trattiene. La statua, a tutto tondo, è perfettamente equilibrata in ogni sua parte. Il movimento delle gambe, che increspa il panneggio che le ricopre, è bilanciato nella parte superiore dalla torsione del busto delicatamente levigato e dall’aggraziata apertura delle braccia. In chiara rivalità con alcune statue classiche descritte dalle fonti, come è possibile notare, Canova decide di arricchire la statua di Ebe con due oggetti in metallo che la divinità regge delicatamente tra le mani: un’anfora e una coppa. Il suo corpo, infine, attraversato da un’ineffabile forza interiore, sembra avvolto da un soffio di vento che scompiglia la ricercata acconciatura che, abbellita da un nastro, evidenzia la mancanza di espressione della giovane dea, e al contempo fa sì che la veste, trattenuta nella parte posteriore da un fiocco, aderisca alle gambe come una seconda pelle naturale.

Ebe di Antonio Canova - particolare
Ebe di Antonio Canova – particolare

Questa prima versione della statua di Ebe riscosse grande successo tra i contemporanei così come svariate polemiche, alle quali Canova fu costretto a rispondere. Ciò che si rimproverò all’artista fu la mancanza di espressività sul viso della giovane dea. A questa critica il Canova, nel 1800, rispose: “a voler più espressione nel viso mi sarebbe stata cosa assai facile il dargliela, ma certamente alle spese di esser criticato da chi sa conoscere il bello; la Ebe sarebbe diventa[ta] una Baccante”. La seconda versione della scultura (Ermitage di San Pietroburgo), molto simile alla precedente, vede la luce tra il 1800 e il 1808. Esposta al Salon di Parigi, l’opera subì nuove critiche legate alle scelte cromatiche effettuate dall’artista e alla presenza degli elementi decorativi in bronzo dorato (vaso e coppa) giudicati fuori luogo. Alcuni critici, inoltre, non accolsero positivamente la scelta del Canova, considerata come un’redità del repertorio figurativo barocco, di far “fluttuare” su una nuvola la dea Ebe. Nacquero così le successive due versioni della statua (Devonshire Collection di Chatsworth e Museo di San Domenico di Forlì) ove lo scultore sostituì le nuvole con un tradizionale tronco d’albero.

Ebe - Museo di San Domenico, Forlì
Ebe – Museo di San Domenico, Forlì

Profondamente coinvolto nella ricerca della “nobile semplicità e quieta grandezza”, Canova dona ai posteri un delicato esempio di serena bellezza, non la meccanica riproduzione di un modello ma il perfetto ed equilibrato incanto che solo un’opera, che rispetta canoni compositivi razionali e piacevoli alla ragione, sa dare.

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Adone e Venere (Canova) https://cultura.biografieonline.it/adone-venere-canova/ https://cultura.biografieonline.it/adone-venere-canova/#comments Wed, 01 Jul 2015 14:06:38 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14628 Adone e Venere è un gruppo in marmo (alto cm 185) dello scultore e pittore italiano Antonio Canova (Amore e Psiche), considerato uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo, tendenza culturale sviluppatasi come reazione al Barocco e al Rococò in Europa, tra il XVIII e il XIX secolo.

Commissionata dal marchese Francesco Berio, che la collocò in un tempietto espressamente realizzato nel giardino del suo palazzo in via Toledo a Napoli, la scultura Adone e Venere fu realizzata dal Canova in cinque anni (1789 – 1794). Alla morte del marchese l’opera, che oggi si trova a Ginevra presso il Musée d’Art et d’Histoire, fu acquistata su suggerimento dello stesso Canova dal colonnello Guillaume Favre.

Adone e Venere (Canova)
Adone e Venere – particolare

Il mito di Adone e Venere

Adone è sicuramente una delle figure di culto più complesse dei tempi classici. Assumendo numerosi ruoli in ogni periodo, in quanto oggetto di culto nelle varie religioni legate ai riti misterici, Adone è il simbolo della bellezza maschile giovanile ma anche della morte ed del rinnovamento della natura. Nato dal rapporto incestuoso fra Cinira (re di Cipro) e sua figlia Mirra, secondo l’antica mitologia, il giovane allevato dalle Naiadi (le ninfe che presiedevano le acque dolci della terra e possedevano facoltà guaritrici e profetiche) riuscì con la sua sfolgorante bellezza maschia a far innamorare di sé Venere, dea dell’amore e della bellezza, e Proserpina, dea minore degli Inferi e regina dell’oltretomba. Secondo alcuni mitografi, Adone fu ucciso da un cinghiale, durante una battuta di caccia, inviato dal geloso Apollo con l’aiuto di Artemide, sua sorella gemella, o da Ares amante della dea Venere. In base alle fonti, dal sangue del giovane morente nacquero gli anemoni (genere di piante) e da quello della dea, feritasi tra i rovi mentre cercava di soccorre il giovane amato, le rose rosse. Il padre Zeus, commosso dal dolore della figlia, concesse ad Adone di vivere quattro mesi nel regno di Ade, quattro sulla Terra insieme a Venere e quattro dove preferiva lui.

Descrizione dell’opera

Il ritorno all’arte antica e alla ricerca del Bello ideale, universale ed eterno, espresso dalla perfezione delle figure classiche e dai loro gesti è interpretato in maniera sublime dal “Gran Canova”, come soleva chiamarlo Giacomo Leopardi.

Adone e Venere - Antonio Canova
Adone e Venere – Celebre scultura di Antonio Canova

L’opera, realizzata a tutto tondo, rappresenta Adone e Venere in un momento di profonda intimità e dolcezza. Il momento catturato dallo scultore è quello che precede la fatale caccia, ovvero quello in cui la dea Venere sfiora con le sue dita delicatamente il viso di Adone, trattenendolo dall’andar via. Le perfette anatomie dei corpi, tali da dare l’impressione che le due figure si fondino intimamente l’una nell’altra, i gesti misurati e sensuali, la rotondità delle forme e le linee curve del drappo, che rivela più che celare la sinuosità del corpo femminile, fanno sì che la scultura risulti straordinariamente armonica e armoniosa. La frontale imponenza di Adone, dall’efebica bellezza, è spezzata soltanto dal volgere della testa del giovane uomo verso Venere, che con tenerezza accarezza il volto dell’amato, in un intenso gioco di amorosi sguardi. La dea, abbandonata languidamente la testa sulla spalla dell’amante, lo cinge in un intimo abbraccio che sembra voler celare ad occhi estranei il loro momento di profonda unione. Adone, invece, accennando un passo che conferisce movimento alla scultura e suggerisce soprattutto l’imminente distacco, sfiora senza stringerli i fianchi di Venere, accostandola a sé.

Adone e Venere - Antonio Canova
Adone e Venere – Antonio Canova

Vista da dietro, l’opera conferma la maestria di Antonio Canova. L’intreccio delle braccia, sottolineando la fluidità del movimento e l’armoniosità delle curve perfettamente delineate, risulta ancora più sensuale e passionale. Il drappo, stretto tra le gambe di Venere, svela e sottolinea la pienezza e la morbidezza della carne; mentre il pelo ruvido del cane, un Cirneo dell’Etna, che siede ai piedi degli amanti osservandoli, esalta ed evidenzia la levigatezza dei corpi di Adone e Venere.

È indubbio che con la sua opera, il maestro Antonio Canova, riesce a confermare che la scultura è rappresentazione viva ed eterna della parola che non si legge ma si contempla.

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Ratto di Proserpina (scultura del Bernini) https://cultura.biografieonline.it/ratto-proserpina/ https://cultura.biografieonline.it/ratto-proserpina/#respond Thu, 23 Apr 2015 05:17:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14115 Il “Ratto di Proserpina” (base esclusa, alto cm 255) è un gruppo scultoreo dell’architetto e scultore napoletano Gian Lorenzo Bernini (“Apollo e Dafne”, “David”), commissionato da Scipione Borghese per la sua residenza romana, Villa Borghese. Alcuni mesi dopo la conclusione dell’opera però, per motivi a noi ignoti, Scipione Borghese dona la scultura a Ludovico Ludovisi, nipote del nuovo papa Gregorio XV.

Il Ratto di Proserpina - Galleria Borghese
Il Ratto di Proserpina (1621/1622) – Galleria Borghese

Il gruppo scultoreo, trasportato pertanto a Villa Ludovisi e sistemato in una sala al pianterreno attigua al giardino, è stato acquistato dallo Stato italiano nel 1908 e riportato a Villa Borghese, residenza naturale per la quale l’opera è stata concepita.

Il “Ratto di Proserpina” eseguito tra il 1621 e il 1622 dal giovanissimo artista (al tempo il Bernini ha 23 anni), rappresenta per l’appunto il famoso mito del Ratto di Proserpina, tratto dalle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone.

Il mito del Ratto di Proserpina nelle Metamorfosi di Ovidio

Il mito in questione è legato al ciclo delle stagioni e racconta il ratto (ovvero il rapimento) di Proserpina, figlia del dio Giove e di Cerere (dea della fertilità dei campi), ad opera del dio Plutone (fratello di Giove e sovrano dell’Ade, luogo in cui risiedono in eterno le anime dei morti). Infatuatosi della dea, mentre questa è intenta a raccogliere fiori in un campo presso il lago di Pergusa (Enna), Plutone la rapisce portandola con sé nei recessi più cupi della terra.

Cerere, cercata a lungo e inutilmente la figlia, cessa per il grande dolore ogni sua divina attività: abbandona i campi, rende sterile ogni seme, lascia che i raccolti marciscano. A sua volta Giove, preoccupato per lo stravolgimento dei cicli naturali, interviene grazie alla mediazione di Mercurio, trovando un accordo tra il dio Plutone e Cerere. Il patto concluso prevede che Proserpina trascorra sei mesi sulla terra con la madre, mentre nei mesi invernali risieda nell’Ade con il dio Plutone, suo sposo.

Analisi dell’opera il “Ratto di Proserpina”

Ancora una volta, come già in altre sue notorie sculture, Lorenzo Bernini coglie l’essenza del momento, l’immediatezza e la potenza del movimento, rendendolo eterno. Ispiratosi, per la realizzazione del gruppo scultoreo, alla pittura contemporanea di Annibale Carracci e di Rubens, il Bernini pensa e realizza il “Ratto di Proserpina” per una ricezione pittorica da parte dell’osservatore, cioè per essere percepita e ammirata da un unico punto di vista, quello frontale.

Il Ratto di Proserpina - Bernini
Il Ratto di Proserpina – Bernini

Il dramma è in pieno svolgimento, le dinamiche del concitato momento sono rese dal movimento degli arti e delle teste dei protagonisti.
La dea è prigioniera, ma continua a lottare. Avvinta tra le braccia di Plutone, rivolgendo la sua preghiera al cielo, Proserpina respinge con la mano il suo assalitore arricciando così la pelle del viso del dio.

La sua chioma, fluente e scomposta, lascia ampio spazio all’espressività del viso segnato superbamente da una lacrima; il panneggio, fluido anch’esso, lascia scoperto il corpo perfetto di Proserpina, mettendo al contempo in evidenza la torsione del corpo stesso e il pathos dell’attimo rappresentato.

Plutone è vincitore, fiero e trionfante. Il suo viso è delineato dalla resa dei capelli e della barba, esempi della maestria e dell’eccellenza del Bernini; il corpo, possente e virile, presenta una muscolatura che evidenzia la forza del dio. Il realismo di questo gruppo scultoreo tocca l’apice del virtuosismo nella rappresentazione delle mani di Plutone. Le dita del dio, infatti, che affondano letteralmente nella coscia e nel fianco di Proserpina, non solo segnano ed esaltano la morbidezza e la pienezza della carne della dea, ma fanno sì che l’osservatore dimentichi per un attimo che di fronte a sé ha una scultura in marmo e non una scena reale. Ai piedi della coppia, in parte nascosto dalle gambe della divinità femminile, il cane a tre teste (ovvero il guardiano infernale) abbaia.

Ratto di Proserpina - particolare
Ratto di Proserpina – particolare

Ancora una volta, grazie all’operato del Bernini, la potenza evocativa e rappresentativa della scultura viene fuori in tutta la sua straordinaria magnificenza lasciando che dove non arrivi la parola, giunga il potente silenzio della scultura.

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Enea, Anchise e Ascanio: sculture di Gian Lorenzo Bernini https://cultura.biografieonline.it/bernini-enea-anchise-ascanio/ https://cultura.biografieonline.it/bernini-enea-anchise-ascanio/#comments Fri, 22 Aug 2014 09:09:22 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=11750 Il gruppo scultoreo raffigurante Enea, Anchise e Ascanio è uno dei primi lavori romani di Gian Lorenzo Bernini, realizzato da  tra il 1618 ed il 1619. L’opera prende spunto da un passo dell’Eneide di Virgilio e fa parte dei quattro gruppi borghesiani prodotti dall’artista tra il 1621 ed il 1625.

Gian Lorenzo Bernini: Enea, Anchise e Ascanio (1621-1625)
Enea, Anchise e Ascanio: celebre scultura del Bernini realizzata negli anni tra il 1621 e il 1625 (Roma, Galleria Borghese)

Storia dell’opera

La statua di Enea, Anchise e Ascanio, è oggi esposta all’interno della Galleria Borghese di Roma, così come gli altri tre gruppi borghesiani dell’artista, il Ratto di Proserpina (1621 – 1622), Apollo e Dafne (1622 – 1625) e il David (1623 -1624). Le quattro opere marmoree, raffiguranti soggetti mitologici (fatta eccezione per il David che rappresenta un mito biblico), furono commissionate all’artista dal cardinale Scipione Borghese che le destinò all’abbellimento della sua Villa romana sul Pincio.

Filippo Baldinucci, scrittore d’arte dell’epoca e consulente del cardinale Leopoldo dè Medici, riteneva che la scultura fosse il frutto di una collaborazione tra Gian Lorenzo ed il padre Pietro Bernini. La tesi del Baldinucci venne confutata grazie al ritrovamento di alcuni documenti d’archivio, nello specifico una ricevuta di pagamento che fa risalire l’acquisto del piedistallo su cui poggia il gruppo scultoreo al 1619; ciò permise la totale attribuzione dell’opera a Gian Lorenzo.

Breve analisi: Bernini dona forma ad un passo dell’Eneide di Virgilio

Il Bernini rappresenta la fuga di Enea, del padre Anchise e del figlioletto Ascanio dalla città di Troia in fiamme. Il momento è pieno di tensione e l’artista, grazie alla sua maestria e sensibilità, in quest’opera riesce a manifestare, oltre che una sopraffina abilità tecnica, una sorprendente capacità comunicativa.

Chi si trova davanti al manufatto infatti, non può far altro che immedesimarsi, arrivando addirittura a vivere la scena come se fosse anch’egli uno dei protagonisti dell’evento: lo spettatore diventa parte integrante dell’azione, fino a percepirne la preoccupazione ed il pericolo. Il vecchio, il giovane ed il bambino rappresentano il passato, il presente ed il futuro. Enea porta il padre Anchise sulla spalla sinistra ed il piccolo Ascanio lo segue; Anchise, vecchio stanco e preoccupato, tiene con la mano sinistra il keramos troikos contenente le ossa degli avi ed Ascanio, sempre con la mano sinistra, sorregge il fuoco eterno di Vesta, due dei sette “Pignora Imperii” ovvero gli oggetti che, per credenza del popolo romano, erano in grado di garantire e mantenere in eterno la grandezza di Roma.

Risulta evidente che in questa scelta, l’artista abbia voluto mettere in risalto il potere della committenza, oltre che rappresentare i due oggetti per il loro significato intrinseco: Anchise portatore della storia, delle tradizioni e Ascanio, destinato a dare origine alla futura gens julia, custode del sacro fuoco vestale.

Lo sviluppo del gruppo marmoreo è verticale. Le differenti età dei tre personaggi si evincono, non soltanto dalle fattezze dei volti o dalle dimensioni corporee (come nel caso del piccolo Ascanio) ma, soprattutto, dalla bravura dell’artista nel rappresentare l’epidermide dei soggetti: segnata dalla caducità quella di Anchise, tonica quella di Enea, paffuta e tenera quella di Ascanio.

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La scultura di Michelangelo e le sue opere giovanili https://cultura.biografieonline.it/opere-giovanili-michelangelo/ https://cultura.biografieonline.it/opere-giovanili-michelangelo/#comments Tue, 14 Jan 2014 12:07:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8830 Riproducendo in marmo un pezzo che tiene fisso davanti ai suoi occhi, Michelangelo si abitua a considerare che ciò che scolpisce esiste già prima; quando poi creerà liberamente, ciò che traduce nel marmo dovrà essere ben preciso nella sua mente, come se già esistesse: nel marmo dovrà ritrovare quell’idea che vive nella sua immaginazione.

Michelangelo opere giovanili
Dettaglio di opere giovanili di Michelangelo

La teoria michelangiolesca

Questa appena introdotta è la teoria michelangiolesca: se la visione di ciò che deve essere rappresentato è già nella mente dell’artista prima ancora di porre mano allo scalpello, l’esecuzione consisterà soltanto nel ricavare quella visone dal marmo, spogliando questo di ogni “soverchio” fino a lasciare libera l’immagine.

Tecnicamente questo procedimento è comune a tutta la tradizione scultorea. Ma Michelangelo va oltre la prassi tecnica. La mano è lo strumento che esegue meccanicamente la volontà dell’intelletto, il quale non può avere nessuna idea che già non preesista all’interno del marmo. È, dunque, l’idea che vive eternamente e che l’artista ha il compito di liberare dalla materia, lottando con essa, con il totale impegno di se stesso, con fatica, fino a ritrovarla intatta. È il motivo costante dell’arte di Michelangelo: la lotta dell’uomo, imprigionato, oppresso, sconfitto, per raggiungere una meta, che si sa irraggiungibile, ma verso la quale dobbiamo tendere per dovere morale, per salvaguardare la propria dignità.

Michelangelo Buonarroti
Michelangelo Buonarroti

In questo senso Michelangelo Buonarroti si pone come legittimo erede di Giotto, di Masaccio, di Donatello e della tradizione neoplatonica fiorentina. I primi saggi sicuri di sua mano sono alcuni disegni. Si tratta di alcune copie da Giotto e da Masaccio. La scelta di questi autori non è casuale: Michelangelo si rivolge a questi maestri fiorentini che più di altri hanno espresso la dignità dell’uomo e ne hanno reso le forme rilevandole volumetricamente con il chiaroscuro e cogliendone non l’apparenza esteriore ma l’essenza.

Le copie di Michelangelo sono personalissime: si noti in particolare il chiaroscuro, ottenuto mediante un tratteggio a reticolo fitto, che segue l’andamento delle sporgenze e delle rientranze e che vitalizia le superfici, come la scalpellatura spesso visibile nei marmi michelangioleschi.

Tra le opere giovanili abbiamo “La Madonna della scala”. Realizzata tra il 1490-1492; rilievo in marmo; centimetri 55,5×40; Firenze, Casa Buonarroti.

Michelangelo: Madonna della scala
La Madonna della scala (1490-1492) è un’opera giovanile di Michelangelo

Quest’opera rivela rapporti con opere antiche, ma soprattutto con Donatello nello “stiacciato”, che deforma le figure in latitudine dando loro potenza. La Madonna, posta di profilo, occupa l’altezza totale della lastra, il fondo inferiore funge da piano di appoggio per i piedi, mentre quello superiore comprime quasi la testa aureolata. Il Bambino è rappresentato mentre, succhiando il latte dal seno materno, volge la testa e il braccio in posizioni divergenti. La scala dagli alti gradini, più che creare profondità spaziale, incombe sul davanti drammaticamente.

I putti, appena accennati, reggono un telo, forse il lenzuolo funebre, allusione al sacrificio di Gesù, in un intreccio di vita e morte, tema costante, pensiero ricorrente nella lunga vita di Michelangelo.

Altra opera giovanile è la “Battaglia dei Centauri” del 1492; rilievo in marmo; centimetri 84,5×90,5; Firenze, casa Buonarroti.

Battaglia dei centauri
Battaglia dei centauri (1492), opera giovanile di Michelangelo

In quest’opera i centauri non si distinguono chiaramente, ma prevale il senso della lotta accanita tra gli uomini, in un groviglio inestricabile di membra. La scena è dominata dal giovane, in alto, al centro, che si volge da un lato sollevando il braccio destro. Con il gesto sembra imprimere movimento all’intera composizione, in verticale e in orizzontale, costituendone il perno.

Troviamo un’assenza della prospettiva geometrica. Lo spazio è creato liberamente dal diverso emergere dei volumi della lastra marmorea, cosicché possiamo enumerare almeno tre piani, ma in realtà sono molti di più perché le figure sono in gran parte ancora contenute all’interno del marmo, quando addirittura non siano appena accennate, suggerendo un più ampio spazio retrostante.

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