Salvatore Mercadante Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 03 Feb 2021 16:07:45 +0000 it-IT hourly 1 Intervista a Salvatore Mercadante su Robert Capa https://cultura.biografieonline.it/mercadante-su-robert-capa/ https://cultura.biografieonline.it/mercadante-su-robert-capa/#comments Thu, 08 Sep 2016 05:34:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19658 Ha vissuto gran parte della sua vita sui campi di battaglia, pur non essendo un soldato. La sua fama infatti è legata alla moltitudine di immagini di guerra da lui scattate in un periodo che va dal 1936 al 1954, ovvero dalla guerra civile spagnola al conflitto tra Cina e Giappone, dalle Seconda Guerra Mondiale al conflitto arabo-israeliano del 1948, infine alla prima guerra d’Indocina, dove lui, Robert Capa, è morto mettendo il piede su una mina antiuomo.

Death in the Making (Robert Capa)
Death in the Making (Robert Capa)

Immagini, le sue, dove si evince l’attimo per eccellenza, un momento unico, utilizzando la fotografia come importante mezzo di documentazione. Una delle sue frasi più note è questa:

Se le tue foto non sono abbastanza buone, significa che non eri abbastanza vicino.

Robert Capa

Capa è considerato il padre del fotogiornalismo moderno. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, nato a Budapest il 22 ottobre 1913. Lascia l’Ungheria nel 1931, trasferendosi a Berlino. In origine, egli avrebbe voluto fare il giornalista e lo scrittore, ma un impegno lavorativo come fattorino presso un’importante agenzia fotografica, la Dephot, lo instrada verso il mondo della fotografia.

Robert Capa
Robert Capa

È nel 1933 che – con l’avvento del nazismo – lascia la capitale tedesca e si trasferisce a Parigi, una città che sembra fatta ad hoc per lui. È qui che lavora come fotogiornalista e che si innamora della sua compagna, Gerda Taro, anche lei fotografa. È con lei che inventano lo pseudonimo Robert Capa. Uomo che odia la violenza e ama la pace, si definisce fotografo di guerra che sogna di diventare disoccupato.

Di seguito l’intervista al fotografo palermitano Salvatore Mercadante con cui abbiamo parlato di Robert Capa.

Salvatore Mercadante
Salvatore Mercadante

Intervista a Salvatore Mercadante

D: Capa, testimone dei fatti del mondo, viene inviato in Spagna per documentare la guerra civile, guerra che ha avuto una grande copertura mediatica… che possiamo dire degli scatti di questo periodo?

R: Parlare di Robert Capa non è mai semplice. Bisogna fare i conti con l’emozione che il padre del fotogiornalismo e la storia più romantica del mondo della fotografia possono suscitare. Il periodo trascorso in Spagna durante il conflitto segnò l’intera vita di Capa, fu proprio in quel periodo che fece i conti con la morte, non solo della sua amata Gerda ma anche di quella, (tanto discussa), del miliziano lealista, ripreso da capa proprio nel momento dell’uccisione.

Le foto di quel periodo mostrano la sua ferma posizione antifascista, posizione che rende i reportage di Capa e della sua compagna, particolarmente diretti e ricchi di dettagli e, grazie ai quali, la coppia otterrà grandi successi, tanto da portare Capa a fondare insieme ad altri grandi fotografi l’agenzia Magnum, una delle più prestigiose agenzie fotografiche del mondo. Un anno dopo la morte di Gerda Taro raccolse nel libro “Death In The Making” le immagini più toccanti di quel periodo e lo dedicò alla compagna scomparsa.

Morte di un miliziano lealista Cordoba Settembre 1936 - foto famosa di Robertt Capa
Morte di un miliziano lealista: la celeberrima foto di Robertt Capa

D: Tra i suoi scatti, molto famosi e discussi, troviamo quello intitolato “Morte di un miliziano lealista, Cordoba, Settembre 1936”, fotografia che è stata scattata vicino Cordoba, in Andalusia. Ci racconta la storia di questa foto?

R: È talmente ricca di significati da essere stata oggetto di critiche e studi e rappresenta ancora oggi la guerra in tutta la sua crudezza, il trapasso dalla vita alla morte e la concezione della morte da parte di quei combattenti per i quali era “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.

Della veridicità di questa foto si è molto parlato, nonostante il fedele racconto dello stesso Capa su come l’abbia fatta, ancora oggi non si è giunti ad una conclusione definitiva, arrivando perfino all’ipotesi che vorrebbe la foto costruita solo in parte.

Si dice infatti che Capa stesse fotografando dei miliziani in posa e che per questo siano diventati oggetto di un cecchino nemico. Ci sono numerosi studi legati ad altri ritrovamenti analoghi perfino sul formato fotografico della foto ma ritengo che la cosa che deve interessarci davvero non sia tanto il “come è stata fatta”, ma il “cosa rappresenta” e dunque la dimostrazione di un concetto che caratterizza la produzione di Capa, ovvero quello che i fatti vanno vissuti dall’interno per poterne parlare, questo modo di raccontare segnerà la nostra e la sua vita stessa.

A tal proposito mi permetto una digressione e invito i lettori a leggere le vicissitudini legate alla famosa “valigia messicana”. La “valigia messicana” è una scatola contenente spezzoni di pellicola, appunti e rullini di Capa, Gerda e Seymour (fotoreporter di grande spessore col quale Capa fonderà la Magnum, Nda) e dopo tanti anni in cui s’era persa, dal 2007 si trova all’International Center of Photography di New York e contiene circa 4000 immagini inedite di questi tre fotografi di origini ebraiche impegnati a raccontare dell’uomo e della sua guerra.

D: La compagna Gerda diventa una fotografa indipendente. Tuttavia la sua vita si spezza nel 1937, schiacciata da un carro armato repubblicano, durante una ritirata delle milizie lealiste da un mitragliamento aereo nazista. Al di là della tragica fine della donna, ci può raccontare la storia di questo amore tra Gerda e Capa fatto di complicità?

R: La storia d’amore della coppia rappresenta per me la storia più romantica della fotografia del Novecento. Accadde in Francia, a Parigi, a Settembre, in un cafè, forse il Cafè Capoulade. Chi li conobbe li descrive, belli e liberi, lui un fotografo capace ma poco conosciuto, lei una bellissima e impegnata comunista, già stata in galera per le sue idee politiche. Oltre l’indiscussa bellezza , il giovane fotografo viene rapito dall’energia che anima Gerta, questo il suo vero nome (Nda), quell’energia che durante i giorni di prigionia in Germania l’aveva resa l’idolo delle altre donne prigioniere, molti ricordano ancora quando, arrestata dalle truppe tedesche, in cella, chiese scusa alle altre detenute per l’abbigliamento troppo elegante: «scusatemi – dirà– mi hanno preso mentre andavo ad una festa».

A loro insegnò parole in inglese e francese ed a cantare le canzoni americane, rimarrà per sempre nel cuore e nelle immagini del giovane fotografo. La complicità tra i due li porterà ad inventare un espediente utile, a superare i pregiudizi razziali che iniziavano a serpeggiare tra la popolazione francese, i due ragazzi decideranno di cambiare i loro nomi per rendere meno riconoscibili le loro comuni idee politiche ed usare quel fascino che gli artisti del grande schermo riuscivano ad emanare in quegli anni. Si crede, ed io ci credo, che l’idea sia stata proprio di Gerta, la quale diede il nome di Robert Capa ad Endre, per farlo somigliare a quello del regista americano Frank Capra, e trasformando il suo in Gerda Taro, per l’assonanza con quello della famosa Greta Garbo.

Io voglio immaginarli tra le strade di Parigi sotto un cielo grigio di Settembre: lui al collo la sua macchina fotografica, lei in testa un mondo migliore ed un’idea che cambierà la loro vita. Lei darà al nuovo fotografo il nome e l’eleganza dei fotografi d’oltreoceano, lui alla nuova Gerda le basi della fotografia che la porterà a lasciare il suo lavoro come segretaria ed a diventare fotografa e compagna per sempre di Robert Capa.

Il sodalizio professionale e sentimentale tra i due fu grandissimo, li portò sul terreno di battaglia a raccontare l’umanità delle trincee e le atrocità della guerra, la morte di lei lascerà un vuoto in Capa che fino alla sua morte lo porterà a dire che lei era stata la donna della sua vita e che quel 26 Luglio era morto pure lui.

D: Può sembrare un controsenso, ma Capa testimoniava la sua simpatia per entrambe le parti del conflitto, anche se i soldati rappresentavano il nemico, per il fotografo erano sempre vittime delle strategie di guerra. È così?

R: Io credo che in Capa ci sia la voglia di documentare quello che gli uomini sono capaci di fare e vivere, del resto lo si evince nella sua frase a proposito della guerra che definisce «Un inferno che gli uomini si sono fabbricati da soli».

Robert Capa, libro

D: Abbiamo parlato della foto “Morte di un miliziano” tra quelle più famose. Ce ne sono tantissime, quali per lei sono le immagini più rappresentative di Capa e ne ricorda una in particolare che le è piaciuta maggiormente e perché?

R: Sono particolarmente legato a questo fotografo per le sue vicende umane e per la sua storia e trovo difficile scegliere una sola foto tra le migliaia che ho visto. Ricordo però che tempo fa andai ad una mostra dedicata proprio a lui, tenutasi a Troina, un paesino siciliano, davvero molto bello, luogo che vide Capa impegnato in uno dei suoi reportage più famosi e importanti.

Visitai il Salone che ospitava la mostra in assoluto silenzio soffermandomi davanti ad ogni foto, guardavo le immagini di quei giorni e riuscivo a percepire gli odori , i colori e i rumori della guerra, quel paesino tranquillo ed ospitale, nelle foto di Capa sembrava un inferno, di quelle stradine silenziose in cui trovai accoglienza, nelle foto di Capa c’erano solo macerie e dolore, il fotografo mi aveva appena dato un ulteriore lezione: le foto non solo narrano la storia e ne testimoniano gli eventi ma aiutano gli uomini a comprendere che possiamo perdere tutto in qualsiasi momento, perché siamo artefici di bellezza e orrore alla stessa maniera, amiamo e odiamo con la stessa intensità

Finora però l’amore ha sempre vinto, l’odio del nazismo non ha vinto sull’amore di Gerta e di Endre, l’odio gli ha poi tolto Gerta, lui ci ha donato la capacità di vedere con i suoi occhi, e sperare che quell’inferno fotografato ci faccia paura a tal punto da non farlo più tornare.

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Intervista a Salvatore Mercadante su Robert Doisneau https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-doisneau/ https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-doisneau/#respond Fri, 17 Jun 2016 11:09:16 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18642 Robert Doisneau era un fotografo nato a Gentilly, Val-de-Marne, nella periferia di Parigi, in Francia. Pioniere del fotogiornalismo, famoso per i suoi scatti in strada. Riusciva a ritrarre gli aspetti curiosi e i più inaspettati della società francese, pur sostenendo che “Io non fotografo la vita reale, ma la vita che mi piacerebbe che fosse“.

Robert Doisneau
Robert Doisneau

Giovanissimo, a soli ventidue anni, venne assunto come fotografo industriale dalla Renault, ma durò poco, perché fu licenziato, in quanto arrivava sempre in ritardo. Passò quindi all’agenzia Rapho, lavorandoci per circa cinquant’anni. Ebbe esperienze lavorative al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi tornò a Parigi dove si dedicò alla fotografia di strada, negli anni Cinquanta e Sessanta.

Collaborò con scrittori come Blaise Cendrars e Jacques Prevert. Mentre i suoi servizi vennero pubblicati dalle riviste “Life” e “Vogue”. Riusciva a ritrarre i bambini mentre giocavano, conferendogli rispetto e serietà.

Il grande maestro francese Robert Doisneau, morto nel 1994, ha realizzato oltre 450.000 fotografie. La prima, scattata nel 1929 a 17 anni. Nelle sue immagini si trovano soprattutto la quotidianità lungo le strade di Parigi, bambini che giocano, momenti di festa, innamorati, animali. Scatti dalla immensa carica emotiva

Foto famose di Robert Doisneau

Tra gli scatti più famosi si ricordano “Il bacio davanti all’hotel De Ville“, 1950, “L’informazione scolastica”, Parigi, 1956, “La diagonale dei gradini”, Parigi 1953, “Autoritratto con Rolleiflex”, 1947.

Intervista a Salvatore Mercadante

D: Robert Doisneau viene definito per i suoi ritratti un esponente della fotografia umanista…

R: Si tratta di un vero e proprio movimento culturale fotografico attraverso il quale la mera documentazione lascia spazio alla poesia, il suo inizio lo si può far risalire al 1930; questa nuova corrente di pensiero mirava alla rivalutazione dell’uomo attraverso il reportage sociale. L’autore ha sempre avuto un ruolo di particolare importanza, rappresentando attraverso le sue fotografie la bellezza di una Parigi con al centro l’uomo ed i suoi sentimenti.

Salvatore Mercadante
Salvatore Mercadante

D: Qual è la foto di Robert Doisneau che più l’ha colpita?

R: Sono comunemente controcorrente e non le dirò che la famosa foto del bacio all’hotel De Ville è la foto che più mi colpisce; rimango colpito invece dalla sua capacità di donare dignità ai “più piccoli” e profonda conoscenza delle dinamiche umane, come a sottolineare la necessità di ricominciare da capo e non dimenticare la semplicità e la voglia di sognare.

"Bacio davanti all'hotel De Ville" (Le Baiser de l'hotel De Ville), 1950
“Bacio davanti all’hotel De Ville” (Le Baiser de l’hotel De Ville), 1950 : la foto più famosa di Robert Doisneau

Ad esempio, nella foto “le bolide” un bambino su un automobile giocattolo si accosta ad un automobile vera ma con una gomma forata; tralasciando i tecnicismi, c’è tutta l’ambizione dell’uomo a diventare grande ma allo stesso tempo la precarietà dell’essere poi adulto: l’automobile simbolo dell’uomo ormai maturo, infatti, è ferma con la gomma forata mentre il bambino, nonostante la sua auto giocattolo, può continuare tranquillamente per la sua strada. I baci, i giochi, i sorrisi sono tutte prove che un mondo migliore può esistere.

A tal proposito, mi permetta una digressione: spesso sentiamo dire, quando si parla di Doisneau, “che il suo intento era quello di voler dimostrare che un mondo migliore poteva esistere”.

Forte di questa affermazione, ho ripreso in mano il libro di Doisneau e riletto le vicende giudiziarie che ebbero al centro della discussione proprio la sua opera maggiore: fu proprio quell’immagine a trasformarsi in prova, non solo dal punto di vista processuale ma, soprattutto, prova di un modo di lavorare di uno dei più grandi esponenti della fotografia del Novecento che ci avvicina alla poesia e all’amore ovunque esso sia.

D: Ci racconta un aneddoto sul maestro francese?

R: Sicuramente, l’aver rubato lo sguardo indiscreto dei passanti. Grazie alla complicità dell’amico antiquario Romi e il giornalista Robert Giraud, preparò una vera e propria trappola utile a catturare le emozioni dei parigini di passaggio, posizionando un quadro di donna dal contenuto per quell’epoca equivoco, nella vetrina della boutique di Romi e, fotografando gli sguardi dei passanti, realizzò un insieme di immagini esilaranti. Ma le chiedo un po’ di clemenza nel farmi fare una mia personale interpretazione.

Non si tratta a mio avviso di una semplice sequenza ironica di immagini che catturano il quotidiano nonché le emozioni e la curiosità, ci portano con un sorriso vicino all’essenza della fotografia, quella fotografia indiscreta che cattura a nostra insaputa un’intima debolezza che non avremmo voluto mai mostrare.

D: Doisneau sosteneva che “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Quanto di vero coglie in queste parole?

R: Moltissimo e dona alla fotografia valore sociale; possiamo migliorare il mondo anche attraverso le fotografia. Immagini per un istante in che maniera la fotografia di reportage sociale ha cambiato e continua a cambiare le sorti politiche di intere nazioni.

D: Di recente, la fotografia di Doisneau, il famoso bacio, è diventato il simbolo della forza di Parigi, dopo gli attentati di venerdì 13 novembre 2015…

R: Sembra proprio così, l’autore torna ad emozionarci con le sue immagini che non sono solo belle e toccanti ma ci danno quello slancio emotivo per credere che “un mondo dove stare meglio può esistere”. Grazie.

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Intervista a Salvatore Mercadante su Henri Cartier-Bresson https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-bresson/ https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-bresson/#respond Tue, 19 Apr 2016 19:40:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18080 Con Henri Cartier-Bresson nasce la “teoria del momento decisivo“: il fotografo ha il compito di cogliere la vita di sorpresa. In lui convivono la passione per la fotografia e per la pittura, a cui si dedica verso la metà degli anni Sessanta. La sua fotografia artistica si basa sull’osservazione continua della vita quotidiana. Immagini senza posa, caratterizzate da realismo e spontaneità e che regalano allo spettatore una misteriosa armonia.

Henri Cartier-Bresson
Una foto di Henri Cartier-Bresson con la sua macchina fotografica

«La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una composizione o un’espressione che la vita stessa propone, e si deve saper intuire immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è andato via per sempre.».

E’ questo il pensiero del grande fotografo francese, Henri Cartier-Bresson, nato a Chanteloup-en-Brie, un piccolo paesino a pochi passi da Parigi, il 22 agosto del 1908, e morto il 3 agosto del 2004 a Céreste, lasciando al mondo le sue immagini. Per tutta la sua vita ha utilizzato una macchina fotografica 35 mm Leica con un obiettivo di 50 mm.

Foto famose di Bresson

Tra gli scatti più famosi ci sono: Marilyn Monroe sul set del film di John HustonThe Misfits“, Nevada-Usa,1960, Albert Camus, Parigi, 1944, Dessau. Germania, aprile 1945, Alberto Giacometti nella Galleria Maeght. Parigi, 1961, Hyères (Francia), 1932, Srinagar, Cachemire. India, 1948, Domenica sulle rive della Marna. Francia, 1938, Henri Matisse a casa – Matisse, Via Mouffetard. Parigi, 1952, Dietro la stazione Saint-Lazare. Parigi, 1932, Truman Capote a New Orleans. Stati Uniti, 1947.

Quella che segue è un’intervista al fotografo palermitano Salvatore Mercadante sull’arte fotografica di Bresson.

Salvatore Mercadante
Salvatore Mercadante

Intervista

D: Bresson diceva che “ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non si sa niente di niente. Non esiste una scuola per la sensibilità. Non esiste, è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale“. Lei cosa ne pensa?

R: Impossibile trovarsi in disaccordo con un uomo che è stato definito “L’occhio del 900“. Ogni volta che mi trovo a leggere di lui rimango colpito dalla efficacia e dalla profondità, ogni sua considerazione la sviluppo dentro di me facendone oggetto di riflessioni.

In questi giorni ho avuto modo di valutare l’importanza dello studio, non inteso però come viene fatto spesso, l’ho inteso come sinonimo di libertà di esprimersi, libertà di sorprendersi e di sorprendere creando quel terreno fertile per coltivare quella sensibilità che fa parte del bagaglio culturale di ognuno di noi. La stessa scelta di fare un percorso di studi è manifestazione di quella sensibilità che non ci fa smettere di meravigliarci.

Certo ognuno ha poi una sensibilità e ci sono tante scuole.

Lo studio inoltre ci libera da quel vincolo uomo/macchina, che spesso limita la ricerca dell’attimo tanto a cuore a Bresson e che credo sia presente in tutta la storia fotografica del Novecento.

La capacità di vedere comunque non si impara sui banchi di scuola, in un laboratorio fotografico o in un qualsiasi ambito fotografico, credo che la sensibilità possa portare semmai allo studio come ricerca e mai viceversa.

D: E ancora affermava: “Quando mi interrogano sul ruolo del fotografo ai nostri tempi, sul potere dell’immagine, ecc. non mi va di lanciarmi in spiegazioni, so soltanto che le persone capaci di vedere sono rare quanto quelle capaci di ascoltare“. Qual è, secondo lei, il potere dell’immagine?

R: La capacità di vedere, come la capacità di ascoltare sono peculiarità rare, viviamo in un periodo di “iperfotografismo”, i social network ed i media ci sommergono di immagini costantemente, mi viene in mente un sondaggio di alcuni giorni fa in cui un social network si cercava di capire quanti rispondevano per il solo fatto che il messaggio era accompagnato da un’immagine o meno.

Ad oggi la fotografia ha avuto una enorme evoluzione soprattutto nei numeri, diventando essa stessa immagine di una società che cambia.

Tralasciando ogni critica e l’aspetto che riguarda la velocità con la quale raggiunge ogni punto del mondo, vorrei porre l’attenzione sulla capacità di legarla attraverso semplici link a tutte le informazioni necessarie alla sua comprensione donando all’immagine un grande potenziale espressivo tale da rappresentare un evento meglio di mille parole o dibattiti. La sua diffusione, se è vero che permette a chiunque di avere una fotocamera performante non intacca i principi cardine della fotografia lasciando a chi sa vedere la capacità di emozionare.

D: Bresson sottolinea: “Guardi certi fotografi di oggi: pensano, cercano, vogliono, in loro si avverte la nevrosi della nostra epoca attuale… ma la gioia visiva, quella in loro non la sento. Si sentono delle ossessioni, il lato morboso, a volte, di un mondo suicida“. Lei cosa pensa in merito?

R: La fotografia nell’uso comune ha avuto una diffusione talmente vasta che sembra subire tutto l’influsso del valore economico. È un mezzo di sostentamento, di apprezzamento, di valorizzazione del proprio pensiero, molti acquistano in base a quello che il mercato vuole e non in basa alle proprie esigenze. L’autore in questione in una sua citazione afferma : “In realtà la fotografia di reportage ha bisogno solo di un occhio, un dito, due gambe“.  Del resto la complessità del mezzo fotografico potrebbe condizionare la nostra  capacità di ricerca e scelta dell’attimo decisivo. Tutto questo “apparire” ha fatto dimenticare il piacere di vedere… 

D: Quanto è importante la tecnica per un fotografo? Lo studio è fondamentale?

R: Lo studio è fondamentale quando coltiva la nostra sensibilità. Da piccolo ricordo la mia ossessiva voglia di fare con la mia polaroid e l’ammirazione per le mitiche macchine 6×6… iniziai a studiare da autodidatta, alcune fotografie mi lasciavano indifferente altre mi emozionavano fino alle lacrime, alcuni autori dimostravano una profonda sensibilità ma anche una consapevolezza dello scatto, della composizione, della formazione… Alcuni avevano sviluppato delle tecniche sensazionali, ricordo i libri letti e le prove fatte.  Perfino lo studio del corpo macchina diventa fondamentale per gestire il tempo di reazione durante lo scatto. Fondamentale non trovarsi impreparati di fronte a quell’attimo che Bresson mise al centro della sua fotografia.

Ritengo pertanto lo studio, insieme alla capacità di emozionarsi, il valore fondamentale di ogni fotografo.

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