rock'n'roll Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Sun, 18 Aug 2024 14:53:23 +0000 it-IT hourly 1 I più grandi successi di Elvis Presley https://cultura.biografieonline.it/i-piu-grandi-successi-di-elvis-presley/ https://cultura.biografieonline.it/i-piu-grandi-successi-di-elvis-presley/#comments Wed, 06 Sep 2023 13:11:33 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1235 La musica ha suonato un ritmo tutto nuovo, grazie a Elvis Presley. Il cantante, nato a Tupelo l’8 gennaio 1935, è la star del rock’n’roll. Prima di Elvis, nessuno era riuscito a sedurre il pubblico con così tanta forza, merito sicuramente di una voce incredibile, ma anche della sua capacità di stare sul palco e ipnotizzare lo spettatore.

Elvis Presley
Elvis Presley

Il contesto storico: gli anni ’50

Elvis Presley è diventato famoso in un momento estremamente produttivo della musica.  Negli anni Cinquanta tutto doveva ancora essere sperimentato. A ben vedere i limiti di quel periodo storico, soprattutto negli Usa, erano di carattere culturale: le radio dell’epoca facevano distinzioni tra ritmi bianchi e neri. Per Elvis la musica non aveva colore, proprio come la sua voce. Probabilmente è stata proprio quest’apertura mentale a permettergli di andare oltre, di osare e di esprimere il suo talento senza inibizioni.

L’esordio e la carriera

La sua carriera iniziò nel 1954, collaborando con la Sun Records: il 7 luglio la radio WHBQ trasmise per la prima volta That’s all right, nel programma Red, Hot & Blue di Dewey Phillips. E’ qui che il mondo conobbe la sua stella. Lo dimostra la leggenda che racconta che Phillips dovette far suonare quella canzone per 14 volte di seguito, perché fu sommerso da 47 chiamate. Oggi sembrano poche, ma nel 1954 erano tantissime.  Questo singolo ha venduto oltre 20.000 copie e ha raggiunto il 4° posto nella classifica di Memphis.

Con la Sun Records, Elvis incise numerosi dischi, tutti di successo. Oltre a That’s All Right (Mama), ricordiamo Blue Moon of Kentucky, Good Rockin’ Tonight e Baby Let’s Play House. Questa è solo l’inizio della sua carriera, nel 1955 dalla radio Elvis approda in televisione, grazie al suo manager il Colonnello Tom Parker.  Il rock’n’roll entrò nelle case degli americani e fu una rivoluzione culturale. Per l’epoca era una musica forte, nuova, accompagnata da movimenti definiti scabrosi.

The Pelvis

Non a caso Presley fu chiamato The Pelvis, proprio per l’ondeggiare del suo bacino. Le canzoni di quel periodo furono molto discusse, ma raggiunsero sempre le vette delle classifiche. Ricordiamo alcuni successi, come Hound Dog (13 milioni di copie), Jailhouse Rock (il  singolo ha venduto più di 9 milioni di copie), All Shook Up (7 milioni di copie) e Love Me Tender (5 milioni di copie). Ma c’è di più, perché questi singoli ancora oggi sono tra i più venduti nella storia della musica.

Ma la forza di Elvis non era solo quella di interprete, il suo successo fu tale che da semplice cantante divenne anche attore, complice il suo bell’aspetto. Il 15 novembre 1956, Al Paramount Theater di New York viene proiettata la prima del film “Love Me Tender”, il lungometraggio di debutto di Elvis Presley.

Il melodramma, ambientato durante la Guerra Civile, nel Sud dell’America, raccoglie un buon consenso di pubblico e anche di critica, che elogia l’interpretazione di Elvis. È ancora agli inizi della sua carriera, ma da qui al il 1958, Presley interpreta 4 pellicole ed è diretto da veri maghi della cinepresa, come Robert Wise e Michael Curtiz. Questo fu solo l’inizio, perché negli anni Sessanta prese parte a più di 29 film, molti però furono dei veri flop.

The King

I grandi numeri di The King non erano solo legati alle canzoni e ai film. Secondo una stima del 1956 del The Wall Street Journal, il business del cantante aveva prodotto in un paio d’anni di carriera un guadagno in vendite pari a 22 milioni di dollari. Una cifra folle!

Nel 1958 Elvis visse uno dei periodi più dolorosi: morì sua mamma Gladys, ammalata di epatite acuta a soli 46 anni. Il cantante probabilmente da questo lutto non è più stato in grado di riprendersi e la sua carriera fece davvero fatica a mantenersi sulla cresta dell’onda. Tom Parker fece di tutto per promuoverlo, trovargli ingaggi e spronarlo.

Gli anni ’60

Elvis dovette fare i conti, in questo decennio, con i problemi personali, ma anche con un mercato in cambiamento: gli anni Sessanta furono anche gli anni dei Beatles (che incontrò nel 1965) e dei Rolling Stones che conquistarono una fetta enorme del mercato. Nel 1960, Elvis tornò finalmente in sala di registrazione (dopo il servizio militare): il suo album GI Blues entrò nella classifica e ci restò 111 settimane. Il pubblico non l’aveva dimenticato, ma il suo senso di frustrazione continuò a crescere e nella seconda metà degli anni Sessanta iniziarono i flop, soprattutto cinematografici. È qui che i primi segni di depressione furono evidenti, nonostante una vita privata soddisfacente: si sposò con Priscilla e insieme comprarono un enorme ranch nel Mississipi.

Elvis Presley
Elvis Presley

Gli anni ’70

Si scorse una luce alla fine del tunnel a Natale del 1968, quando andò in onda sulla NBC, uno speciale dedicato a Presley, 68 Comeback Special: l’enorme successo di pubblico segnò  ufficialmente il suo grande ritorno.

Dal 1970 al 1976, in splendida forma, si esibì in quasi un migliaio di concerti (ne tenne uno ogni due giorni). Ormai il fenomeno The Pelvis sembrava aver conquistato il mondo, tanto che il 21 dicembre 1970 si recò alla Casa Bianca per incontrare il presidente Richard Nixon.

I singoli di maggior successo di questo decennio furono: Kentucky Rain (1970), The Wonder of You (1970), There Goes My Everything (1971), Burning Love (1972), Steamroller Blues (1973), Promised Land (1974), My Boy (1975), T-R-O-U-B-L-E (1975) e Moody Blue (1977).

Inoltre è fondamentale ricordare il suo primo show satellitare, trasmesso da Honolulu, Elvis: Aloha From Hawaii. Lo show televisivo fu seguito da oltre un miliardo di telespettatori in 40 Paesi.  Da questo programma, è stato anche ricavato il primo disco quadrifonico, diventato million seller, intitolato Aloha From Hawaii: Via Satellite (1973).

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Rolling Stones: breve storia https://cultura.biografieonline.it/rolling-stones/ https://cultura.biografieonline.it/rolling-stones/#comments Tue, 21 Jun 2022 06:55:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13398 I Rolling Stones sono uno dei gruppi rock più famosi del pianeta e uno dei più importanti dell’intera storia del rock. Di origine britannica, sono formati da Mick Jagger (voce, armonica, chitarra), Keith Richards (chitarra, voce), Ronnie Wood (chitarra, cori), Charlie Watts (batteria, percussioni). Quest’ultimo è scomparso nell’agosto 2021, all’età di 80 anni.

Rolling Stones
The Rolling Stones nel 2012. Da sinistra: Charlie Watts, Mick Jagger, Keith Richards e Ron Wood

Insieme sono diventati una leggenda del rock mondiale, punto di riferimento per tutti gli artisti in questo campo e soprattutto idoli per diverse generazioni di giovani e non solo. La loro musica può definirsi il perfetto mix di rock e blues, evolvendosi proprio dai ritmi del rock and roll degli anni ’50.

Sesso, droga e rock ‘n’ roll

I Rolling Stones (spesso indicati solo come Stones) sono diventati famosi oltre che per la loro musica anche per la loro trasgressione: furono tra i primi a fare riferimento nelle loro canzoni alla droga, al sesso, all’alcool e molto spesso passarono dal testo alla realtà, trasgredendo anche nella vita e diventando icone degli eccessi. Furono infatti chiamati “brutti, sporchi e cattivi” proprio per la loro vita borderline, in contrapposizione ai Beatles, l’altro gruppo inglese entrato nella storia della musica, ma universalmente riconosciuto come quello dei bravi ragazzi.

In realtà tra i due gruppi non c’erano grosse rivalità ma rapporti di stima e di amicizia. I Rolling Stones però premevano molto su questa contrapposizione, proprio per proporsi come una band fuori dal coro e dagli schemi.

La fondazione degli Stones

Le “pietre rotolanti” erano originariamente cinque ragazzi inglesi appassionati di rhythm & blues, che adoravano suonare la chitarra e soprattutto la buona musica. I cinque erano molto diversi per estrazione sociale e infanzia; alcuni di loro nacquero da genitori insegnanti (Lewis Brian Jones), altri invece da famiglie operaie (Keith Richards), altri ancora di estrazione sociale più elevata (Charles Watts era figlio di un pilota della RAF).

Mick Jagger
Mick Jagger

I ragazzi si conobbero sui banchi di scuola e la musica ebbe sempre un posto importante nelle loro vite: iniziarono a suonare prima da soli e poi nei gruppi parrocchiali, intraprendendo la strada della musica.

L’unione ufficiale e la nascita dei Rolling Stones avvenne il 12 luglio 1962 quando negli studi della BBC il musicista Alexis Corner chiese al gruppo di sostituirli nella registrazione televisiva: suonarono così insieme Brian Jones, Mick Jagger, Keith Richards, Mick Taylor e Ian Stewart.

L’esordio ufficiale avvenne nel tempio del rock di Londra, il Marquee e il successo fu presto enorme.

Nel gennaio del 1963 Charlie Watts entrò ufficialmente nel gruppo sostituendo Tony Chapman alla batteria.

Gli esordi

Gli anni dell’esordio (1962-1963) li vide associarsi all’etichetta Decca Records e contrapporsi ai Beatles come immagine e target. Famoso fu lo slogan pubblicitario: “Lascereste andare vostra figlia con un Rolling Stones?”.

Nel 1965 per la prima volta ottennero un enorme successo con il brano “Satisfaction”. Proprio in questo periodo Jones e Richard introdussero la tecnica della tessitura di chitarra (guitar weaving): i due chitarristi suonano la parte ritmica e solistica nello stesso momento. Richard dichiarò che ascoltando alcuni lavori di gruppo gli venne in mente questa tecnica per far assomigliare il suono di due chitarre a quello di quattro o cinque.

Nel 1966 uscì il primo disco composto da canzoni esclusivamente scritte da loro “Aftermath”. Seguì un periodo di concerti e un successo mondiale, dal quale però i componenti del gruppo uscirono piuttosto stanchi, anche a causa dell’eccessivo uso di alcool e droga.

La morte di Brian Jones

Nel 1969 Brian Jones morì in circostanze misteriose: venne sostituito nel gruppo da Mick Taylor. Brian sarà però sempre rimpianto per l’immagine che diede al gruppo.

Il periodo di Taylor fu però comunque importante per il riavvicinamento al blues e alla freschezza di nuovi arrangiamenti ma sarà sostituito nel 1974.

Gli anni ’70 e la crisi

Gli anni Settanta trascorsero tra successi in vetta alla classifica, come gli album Black and blue, Love you live e Some girls.

Nel 1974 Mick Taylor decise di abbandonare il gruppo, provocando grandi difficoltà agli Stones. Venne chiamato Ry Cooder che accompagnò la band nel tour di quell’anno; alla fine anche Ry Cooder non seppe gestire la convivenza con la sregolata formazione inglese, così per sostituirlo venne ingaggiato nel 1975 Ron Wood (amico di vecchia data che lavorò in passato con Rod Stewart nel Jeff Beck Group e nei Faces).

Keith Richards e Mick Jagger iniziarono poi ad avere delle divergenze: il primo voleva tornare al rock and roll, il secondo invece avvicinarsi al pop.

Keith Richards
Keith Richards con la sua chitarra, una Fender Telecaster

Si sentì così nell’aria lo scioglimento e la crisi, sancita con la pubblicazione nel 1988 da parte di Keith Richards del suo primo album da solista (Talk is cheap).

La reunion, gli anni ’90 e successivi

Negli anni 90’ i Rolling Stones tornarono a calcare le scene e a produrre un album ogni tre anni, seguito da tour mondiali.

Così dal 2000 in poi proseguirono i mega concertoni che la band tenne in tutto il mondo senza mai perdere spettatori e pubblico. In Italia i Rolling Stones vennero più volte; una delle più recenti esibizioni fu quella del 22 giugno 2014 a Roma, al Circo Massimo, davanti ad un pubblico di 71.000 spettatori.

The Rolling Stones - Il celebre simbolo della bocca con la lingua
The Rolling Stones – Il celebre simbolo della bocca con la lingua

Il mito dei Rolling Stones continua attraverso le generazioni, incarnando l’ideale di musica rock, aggressiva, potente e forte. Il loro simbolo (la lingua con la bocca spalancata) è diventato una delle icone più famose del mondo a dimostrazione che nonostante tutti i cambiamenti, i periodi di crisi e lo scioglimento, i brutti-sporchi e cattivi della musica mondiale non hanno mai mollato.

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Dal Rock & Roll delle piccole sale ai grandi concerti all’aperto https://cultura.biografieonline.it/dal-rock-delle-piccole-sale-ai-grandi-concerti/ https://cultura.biografieonline.it/dal-rock-delle-piccole-sale-ai-grandi-concerti/#respond Fri, 03 Jul 2020 17:37:34 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29906 L’arte preistorica viene studiata dall’archeologo attraverso il riconoscimento di strumenti primordiali reperiti negli scavi, quali semplici strumenti a percussione, sonagli, raschiatoi e flauti in osso. Per mezzo degli strumenti si riusciva a creare solo suoni ritmici di accompagnamento, quindi è ipotizzabile che la parte essenziale della musica ancestrale consistesse in ciò che non può essere ritrovato, cioè la voce . (1)

L’importanza della voce per esprimersi musicalmente si ritrova, ad esempio, nella nascita ed evoluzione del teatro greco, nato come espressione religiosa di gruppo, sostenuta dalle voci dei coreuti, che solo in un secondo tempo ha evoluto le parti singole delle prime voci, divenute poi gli attori dediti al recitativo. (2)

Il passaggio evolutivo da esibizione musicale e corale a “recita” ha inoltre causato un primo allontanamento del pubblico, non più completamente interattivo, dagli esecutori, ormai divenuti artisti. Da un lato questa trasformazione ha prodotto i grandi spettacoli greci e romani, che hanno tenuto banco per secoli, dall’altra ha fatto nascere le professioni di artisti itineranti che, spesso da soli, si esibivano nelle piazze dei mercati, contemporaneamente all’evoluzione della musica cantata di impronta religiosa. (3)

Teatro greco e teatro romano

Tra costoro, chi riusciva a raccogliere maggiori consensi poteva aspirare a esibirsi nelle corti nobiliari, dove il pubblico era numericamente ridotto, più raffinato nella cultura musicale e per ciò consolidava dei canoni estetici standardizzati tipici del periodo.

L’americanizzazione della musica in Europa

A cavallo tra il XIX e il XX secolo giungono in Europa i primi accenni di popular music, direttamente dagli Stati Uniti; un esempio può essere trovato, a metà dell’800, con Louis Moreau Gottschalk, che per alcuni anni spopola presentando musicalità caraibiche e afroamericane. Molti autori europei contribuiscono a diffonderle, come Georges Bizet (1838-1875), che inserisce nella sua Carmen la danza cubana “El Arreglito”. Anche Debussy compone alcuni pezzi a carattere afro-americano, ispirato dalle compagnie di minstrels che iniziano a girare per l’Europa, presentando la novità della musica sincopata. (4)

Un secondo passo nell’americanizzazione lo compie negli anni dieci del novecento l’avvento in Europa del tango, musica da ballo liberatoria dell’espressione corporea e – perché no – degli istinti repressi. (5)

Tango Luego Mario Eduardo Aguilera Merlo

Ad esso segue, negli anni venti, l’avvento del jazz: in realtà all’inizio si tratta di balli riecheggianti la “modernità” della nuova epoca. Solo in un secondo tempo prendono piede le grandi orchestre.

La definitiva conquista del vecchio Continente da parte dell’America avviene, però, nell’immediato dopoguerra: al seguito dei soldati statunitensi è presente la loro musica, quella realmente “popular”, sotto forma delle incisioni di grandi musicisti americani realizzate appositamente per le truppe al fronte.

Una volta terminata la guerra, quei dischi – soprattutto di jazz – divengono merce di scambio con i giovani, soprattutto inglesi, che si trovano a contatto con le forme più aggiornate di musica popolare americana. Grazie anche al cinema, quella musica opererà la trasformazione della musica popolare europea, mentre l’originale inizia a spegnersi in patria (5).

Rock & Roll, Rhythm & Blues

Le influenze americane penetrano nel sentire musicale collettivo dei giovani e nelle forme musicali da loro preferite, fin alla conversione al rock and roll, suonato e vissuto però nell’ottica stilistica tipica del folk britannico.

Intorno alla fine degli anni cinquanta anche in GB il Jazz tradizionale inizia a perdere terreno e non è più musica di tendenza; alcune giovani band inglesi si dedicano al Rhythm & Blues e lo acquisiscono integrandovi il folk tradizionale. È il caso dei Rolling Stones, che iniziano come amici che amano suonare insieme e si ispirano a musicisti che trovano unanimemente di loro gradimento.

In questo periodo storico i gruppi musicali agli esordi, quelli meno conosciuti e le avanguardie si esibiscono in pub e balere, locali a capienza limitata; gli artisti famosi, in parte statunitensi, vengono invitati in teatri e sale concertistiche, davanti a poche centinaia di persone o poco più. Il polo di intrattenimento musicale londinese era il quartiere di Soho: qui prende vita lo skiffle nel 1956 e sul finire del decennio vi fiorisce una serie di famosi locali che offrono concerti di jazz e skiffle.

Il Marquee Club, ad esempio, nasce nel 1958 sulle ceneri di una sala da ballo che già aveva tentato senza successo di trasformarsi in punto di aggregazione musicale; nel 1962 inizia con serate dedicate al rhythm & blues.

Rolling Stones, Beatles e l’hard rock

I Rolling Stones, che hanno trovato i primi ingaggi nei piccoli locali in cui è ancora relegata la nuova forma musicale, nel 1962 vi suonano in pianta stabile come “gruppo spalla” di altre band di rhythm and blues, quali Brian Auger, John Mayall and the Bluesbreakers, gli Yardbird e il bluesman americano Sonny Boy Williamson.

I Rolling Stones già nel 1962 avevano un contratto allo Station Hotel, iniziato come occasionale tappabuchi in una giornata piovosa: davanti a tre soli spettatori riescono ad essere talmente convincenti da moltiplicare in brevissimo tempo il pubblico, che spiega il loro successo affermando che “suonano la nostra musica”.

Durante questo periodo avvenne un fatto significativo che può far comprendere come la musica avvince il pubblico e lo rende partecipe. In quelle sale strapiene e con molti posti a sedere non era immaginabile che gli uditori potessero interagire con gli esecutori esprimendosi attraverso il ballo e quindi il pubblico ascoltava fermo e un po’ silenzioso.

Tale situazione poco si avvicina alle coinvolgenti ritualità ancestrali di forte impatto emotivo, come le danze tribali, perciò i Rolling Stones, benché si impegnassero enormemente e trovassero riscontro nella grande affluenza di fans, sentivano che mancava un’indefinibile completamento dell’evento. A questo ovviò un loro collaboratore, che una sera, nel momento clou dell’esibizione, salì su un tavolo, alzò le braccia in
alto e iniziò ad agitarle. La risposta fu immediata e totale, il pubblico rispose all’invito imitando i gesti dell’uomo. (6)

Negli stessi anni in Gran Bretagna si sta sviluppando la variabile nazionale dell’industria musicale, riadattando a scopi commerciali forme musicali americane, come il beat, il blues e il rhythm and blues, che saranno riesportate negli USA da gruppi come Beatles e Rolling Stones; in pratica, grazie alla estrema vicinanza linguistica, gli inglesi sono parte fondamentale nella creazione della popular music consumistica e nel prosieguo sono proprio le band inglesi le più impegnate nel creare il nuovo genere, l’hard rock. (7)

Il capitalismo nella musica

Con la commistione tra USA e Great Britain il capitalismo trova interesse a entrare con forza nel mondo musicale, attirato dalla possibilità di arricchire e iniziano le azioni di marketing: non sono più basilari le capacità degli interpreti, ma la loro presa sul pubblico, ovvero sul potenziale acquisto di dischi.

Il discografico arruola i gruppi esordienti, modifica la formazione per meglio commercializzare l’immagine, vedasi per esempio Jan Stewart, escluso dal manager Andrew Oldham prevalentemente per motivi estetici. Oldham può essere considerato un archetipo di questa nuova figura, trova i Beatles e li lancia, poi li lascia quando non riesce a legarli a contratto con la Decca Record e si rivolge ai Rolling Stones, che invece vengono arruolati.

Un altro fenomeno negativo provocato dal capitalismo nella musica è che, curando il progetto e quindi le vendite, contribuisce a distanziare l’esecutore dal suo pubblico: fisicamente relegando le presenze nelle platee sempre più lontane dal palco e spiritualmente comprimendo i significati musicali, riducendo il musicista a registrare le sue creazioni e spingendo il pubblico ad acquistare il disco per poterlo ascoltare.

A questo cliché sono costretti a sottostare tutti i musicisti che desiderano diventare famosi, anche se hanno un messaggio da offrire; d’altro canto, il musicista stesso ha piacere a vedere ampiamente diffuse le sue opere.

Esistevano già case discografiche specializzate di piccole o medie dimensioni, ma la vera svolta si verifica quando le grandi etichette, compresa la ricerca del nuovo da parte di una larga fetta di pubblico, iniziano a offrire contratti alle band di nuova tendenza.

La moda e la trasgressione

Negli anni sessanta inizia il periodo che può venir definito “della trasgressione”, partendo dalla moda: Mary Quant, che già alla fine degli anni cinquanta aveva iniziato a vestirsi in modo eccentrico, divenuta stilista propone abiti sempre più corti, presentando modelli semplici, colorati e coordinati; lancia la “minigonna” nel 1963, insieme a collant colorati, grandi cinture appoggiate ai fianchi e gli “skinny ribs”, attillati maglioni a costine.

Altri stilisti la seguono, venendo incontro allo stile casual dei giovani, tra cui Barbara Hulanicki, che nel 1964, con un’attentamente studiata operazione commerciale apre Biba, negozietto-bazar di sue creazioni destinato a divenire un punto fermo nella moda. Le attività degli “alternativi” si concentrano a Soho, soprattutto lungo Carnaby Street, e proprio in questa zona alcune band – tra cui i Rolling Stones – stabiliscono la loro base per lavorare.

Nel frattempo si verifica un importante cambiamento culturale nelle giovani generazioni, che prediligono trasgredire anche altre imposizioni estetiche e comportamentali degli stereotipi inglesi, riassumibili in giacca, cravatta e bombetta. Appaiono sempre più spesso ragazzi con i capelli più lunghi del normale e che assumono atteggiamenti volutamente trasgressivi, da “cattivi ragazzi”.

Contemporaneamente, negli Stati Uniti dagli stimoli espressivi della Beat generation si originava un movimento di controcultura formato da persone che, partendo dal rifiuto della guerra in Vietnam e delle convenzioni borghesi, propugnavano e praticavano la rivoluzione sessuale e l’uso di allucinogeni come LSD e cannabis, ascoltando rock psichedelico e musiche di protesta, alla ricerca di un nuovo equilibrio sociale: la cultura hippie. Molti di costoro portavano vestiti colorati e sognavano un mondo impregnato di pace e libertà totale, non solo dalle convenzioni.

La moda e i valori hippie hanno avuto un notevole impatto sulla cultura, influenzando la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura e l’arte in generale e molti suoi aspetti sono diventati di comune dominio, compresa la diversità culturale e religiosa e le filosofie orientali.

È evidente che nel corso degli anni sessanta avviene una commistione tra economie di mercato e preferenze musicali diffuse. Le produzioni che vengono veicolate attraverso canali tipicamente consumistici sono però quelle gradite dalle classi socioeconomiche basse, parlano alle minoranze e invitano gli oppressi ad alzare la testa. (8)

Quindi la domanda che ci si potrebbe porre è la seguente.

Quanto pesa in generale il market sulla diffusione delle musiche e degli stili di vita?

Un diverso approccio, stimolato dallo studio delle tipologie proposte da Merrian, in cui si ricercano collegamenti tra musica e dinamiche culturali, suscita invece l’interesse a indagare su quanto lo stile di vita hippy ha influenzato i cambiamenti sociali degli anni sessanta e settanta. (9)

I festival musicali

Riguardo a ciò, è palese che la voglia di condividere le esperienze quotidiane tipica della cultura hippy e l’istintiva pulsione umana alla concentrazione di grandi masse – come accadde già in preistoria per la nascita delle prime città – porta alla necessità di trovare luoghi molto molto più capienti del pub o del teatro per le esibizioni di artisti con centinaia di migliaia di fans; nella seconda metà degli anni sessanta si inizia a sperimentare concerti in ampie aree pubbliche che non siano tipicamente destinate a manifestazioni: inizia il fenomeno dei festival musicali.

Il primo ad accomunare rivoluzione musicale e stili di vita alternativi fu l’inglese Reading, iniziato nel 1961, che lanciò definitivamente i Rolling Stones nel 1963. Negli USA esisteva dal 1959 il Newport Folk Festival (10).

Dal 1966 il festival rock divenne il palcoscenico della contestazione giovanile, della nascita della cultura hippie e della rivoluzione sessuale. Il Monterey Pop Festival del 1967 fu un grande evento gratuito, con un foltissimo cartellone di musicisti e un pubblico di ben 200.000 persone.

In Europa uno dei luoghi – poi divenuti simbolici – può essere identificato in Hyde Park a Londra, dove iniziarono a esibirsi i Pink Floyd. (11)

Il 1969 è un altro anno importante per i grandi eventi all’aperto in Europa: i Rolling Stones perduto tragicamente Brian Jones, sentono la necessità di esprimere i loro umori del momento:

“Il concerto ad Hyde Park fu davvero strano. Per certi versi era come ricominciare tuto d’accapo, ma invece di farlo al Crawdaddy club o da qualche altra parte presentavamo un nuovo membro per la prima volta davanti al più grande pubblico che avessimo mai avuto […] dovevamo affrontare il fatto Brian non aveva sol lasciato il gruppo ma anche questo pianeta. Eravamo preda di emozioni contrastanti, suona r e in quelle condizioni era come camminare su una corda molto sottile” (12)

Il concerto, naturalmente gratuito, si dimostra ricchissimo di emozioni già per i componenti della band, che anni dopo ricorderanno ancora la forte comune commozione, i timori per il debutto di Mick Taylor, le problematiche di amplificazione e la loro mediocre prova dal punto di vista musicale. (13)

Ma per il pubblico si tratta dell’apoteosi, dell’avvenimento unico e irripetibile. Sicuramente giocano un ruolo notevole le emozioni e il totale coinvolgimento emotivo in sinergia tra la massa e gli esecutori. (14)

Molti concerti seguono a Monterey e Hyde Park. Sorge il contrasto a sfondo prettamente economico tra le band che propongono l’ingresso libero e gli imprenditori (discografici, agenti e organizzatori) che, da bravi capitalisti, puntano a massimizzare i profitti. Il risultato è che gli artisti vedono assottigliarsi notevolmente i proventi e il pubblico inizia ad assuefarsi al dover pagare per entrare. È una delle cause – a mio avviso forse la principale – del declino per questo tipo di esibizione.

Pochi mesi dopo Hyde park ecco Woodstock, considerato l’apoteosi del fenomeno hippy e della musica ad esso legata: tre giorni di maxi-concerto con 500.000 presenze fanno credere che davvero il rock possa cambiare il mondo.

Festival di Woodstock 1969
Il Festival di Woodstock si tenne dal 15 al 17 agosto del 1969

La rapidissima disillusione giunge, sempre nel 1969, ad Altamont, un festival gratuito voluto dai Rolling Stones allo scopo di favorire il pubblico della costa orientale , ma organizzato pessimamente, che degenera in risse e nella morte di un ragazzo. Infine il festival (a pagamento) dell’Isola di Wight nel 1970, con Doors, Free, ELP , Taste, Jethro Tull, Who e Jimi Hendrix, pubblicizzato a dismisura dai discografici, evidenzia drammaticamente la divaricazione fra esigenze del marketing e ideali giovanili.

Assodato che la scelta degli ambienti condiziona la musica, l’artista e l’ascoltatore, viene da domandarsi quanto il periodo dei grandi eventi abbia influito, in bene e in male, sulla creatività degli artisti e sull’ascesa della cultura hippy, che sembrava inarrestabile ma che ha subito un duro colpo dalla sua mercificazione.

È giusto che l’etnomusicologia, nello studiare le manifestazioni musicali di un popolo, ponga attenzione alla musica delle classi socioeconomiche basse, degli oppressi e delle minoranze. (15)

Esiste però un’altra categoria che necessita di maggiore attenzione, l’universo femminile.

Le cantanti donne

Per secoli la cultura maschilista interconnessa al concetto di capitale e proprietà ha mantenuto la donna in condizioni di minorità. Negli ultimi due secoli la condizione femminile ha iniziato a trovare riconoscimenti e sbocchi, ma siamo ancora molto lontani da una reale parità. In campo
musicale la rivalutazione è iniziata grazie al melodramma, che ha sdoganato dal settecento la presenza di donne sul palco, ma secondo Reublin e Beil, la scarsa rinomanza delle cantautrici è un’omissione imbarazzante nel patrimonio musicale. (16)

Anche se dalla seconda metà del secolo scorso grandi cantanti hanno ottenuto la fama, esse paiono più casi singoli, artiste di altissima levatura come Aretha Franklin. Certamente la rivoluzione sociale iniziata negli anni sessanta, lo stesso fenomeno hippy e le molteplici manifestazioni femministe hanno contribuito a ridurre il divario tra i sessi, ma resta il fatto che i discografici continuano a puntare su cantanti donne di bell’aspetto senza curarsi delle loro reali doti musicali.

Ma siamo ancora lontani dalle condizioni neolitiche, in cui le donne guidavano a pieno titolo il canto corale intorno al fuoco dell’insediamento.

Note bibliografiche

(1) Corso di Storia della Tecnologia del prof. Vittorio Marchis presso il Politecnico di Torino
(2) Aristotele, Poetica, IV secolo a.C.
(3) Raffaele Arnese, Storia della musica del medioevo europeo, Historiae Musicae Cultores, ISBN: 978882223
(4), (5) Weschool, La popular music americana in Europa fino al secondo dopoguerra.
(6) Intervista a Giorgio Gomelsky, 2003
(7) Ira A. Robbins, Encyclopedia Britannica – British Invasion, maggio 2020
(8) Credo, Bruno Nettl (The Study of Ethnomusicology, 2005)
(9) Antropologia della musica, Alan P. Merriam, Sellerio Editore, Palermo, 2000
(10) Alfredo Cristallo, Rock Festival Storie di musici e musica – Gli anni del Festival, in musicastrada.it
(11) Hearn, Marcus (2012). Pink Floyd, Titan Book
(12) Intervista a Keith Richards, According to The Rolling Stones, Weidenfeld & Nicolson, 2003
(13) According to the Rolling Stones, Mondadori, 2003
(14) Sito ukrockfestivals.com
(15) Credo, Bruno Nettl, The Study of Ethnomusicology, 2005
(16) Richard Reublin e Richard Beil, Women in american Song, The parlour Song Academy

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La magia della radio e del rock: intervista a Maurizio Faulisi (Dr. Feelgood) https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-maurizio-faulisi-dr-feelgood/ https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-maurizio-faulisi-dr-feelgood/#comments Fri, 13 Jul 2012 21:25:33 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=3184 Maurizio Faulisi. Milanese, speaker radiofonico, musicista, motociclista, divulgatore di buona musica, teatrante. Ma soprattutto: Doctor Feelgood, com’è conosciuto dagli ascoltatori di Virgin Radio, che lo seguono dal 2009 e lo conoscono essenzialmente con questo nome d’arte, il quale altro non è che il nome della trasmissione radio da lui condotta: Buongiorno Doctor Feelgood, in onda dal lunedì al venerdì a partire dalle 7.00 del mattino.

Maurizio Faulisi, Dr. Feelgood
Maurizio Faulisi, Dr. Feelgood

Maurizio Faulisi è una delle voci radiofoniche più apprezzate a livello nazionale, tra i più importanti all’interno del team di Virgin Radio: l’emittente interamente dedicata al rock, dai classici fino alle novità più recenti, che ha portato una ventata di novità nel panorama nazionale. Curiosità, aneddoti, strane storie: sono i tre punti di riferimento di Doctor Feelgood quando è alle prese con il microfono di Virgin Radio, per condurre la sua appassionante trasmissione.

Prima di arrivare a Virgin ha trascorso un biennio su Radio Popolare (dal 2008 al 2010); precedentemente il dj milanese ha raccontato e lanciato il rock nelle sue mille derivazioni e sfumature sulla storica emittente Rock Fm, esattamente dal 1993 fino al 2008: un lungo periodo di lavoro e ricerca. Ha cominciato invece, nel 1979, giovanissimo, su Radiosupermilano.

All’attività radiofonica, ha sempre accostato quella del divulgatore, collaborando con moltissime riviste di settore e scrivendo articoli incentrati sulla musica e, molto spesso, sul rock e i suoi derivati, materia della quale è ormai un grande esperto. A proposito della sua attività a Virgin Radio, ma soprattutto in merito al suo modo di lavorare, di fare e pensare la musica, Maurizio Faulisi ha risposto ad alcune domande nel corso di una interessante intervista.

Partiamo con un interrogatorio. L’incontro con la musica: dov’eri, quando e con chi. E poi, quale il tuo primo idolo musicale e quale l’ultimo, in ordine di tempo (e perché, ovviamente).

Avevo 12 anni, passavo i pomeriggi con la mia radio alla ricerca di certi suoni, che ho scoperto poi essere americani e rock. Dopo aver sentito alcuni nomi (alcuni soltanto, si tenga conto che era il 1974, le emittenti in FM non esistevano ancora ed erano poche le occasioni di ascoltare rock alla radio) cominciai ad acquistare dischi. Il primo lo comprai tredicenne nel 1975, era l’LP Rock & Roll di John Lennon.

Il primo e unico ‘idolo’ è stato Elvis, ascoltavo i suoi dischi e vivevo nel suo mondo, ero un adolescente e vivevo quel mito da adolescente. Lo ascolto e apprezzo molto ancora oggi, ovviamente in maniera diversa.

Ho amato molti altri artisti durante il mio percorso di approfondimento musicale, su parecchi mi sono concentrato e ho cercato di conoscerli meglio possibile, ma non ho mai avuto ‘idoli’ superata l’età adolescenziale.

In questo periodo sto riscoprendo Bob Dylan, il mio rapporto con la sua musica in passato era limitato ad alcuni dischi fondamentali. E’ un artista eccezionale, ha scritto e registrato una quantità impressionante di canzoni meravigliose.

Dal 1979 ad oggi: quanto è cambiato il ruolo del dj e quanto è cambiato Maurizio Faulisi, dalle prime esperienze rispetto a quelle attuali?

Non so dire quanto sia cambiata la figura del dj, non mi ha mai molto interessato il modo di condurre trasmissioni degli altri. Il dj per me era una figura direi cinematografica, legata a immagini viste in tanti film. Non ho mai ascoltato la radio per il piacere di seguire il dj, anche se devo riconoscere che ne abbiamo di bravissimi. Trovavo l’impostazione del dj negli anni ’80 e ’90 molto omologata e standardizzata e mi interessava poco.

La mia all’inizio era seriosa e dal taglio giornalistico, un’impostazione che ho gettato nel cestino e che ho sostituito con uno stile leggero ma al contempo informativo e stimolante.
Il mio obiettivo non era quello di diventare dj, ma di fare ascoltare la buona musica che la mia inesauribile curiosità mi faceva scoprire. Le ragioni che mi hanno spinto a fare radio sono conseguenti al desiderio di trasmettere cultura musicale, un desiderio che ho sempre sentito, sin da giovanissimo, avevo 17 anni nel 1979 quando iniziai a condurre trasmissioni.

Quello di condividere con altri il piacere della scoperta di certa musica è stato ciò che mi ha motivato per 30 anni, ho sempre condotto trasmissioni musicali di approfondimento, rock and roll, country, blues, folk, rock. Posseggo migliaia di dischi, riviste e video, e diverse centinaia di libri. Nei miei primi 30 anni di radio ho utilizzato i miei dischi per trasmissioni tematiche in fascia oraria serale.

Poi il cambiamento, dal 2010 conduco il morning show, una trasmissione di intrattenimento nella fascia oraria 07.00/10.00 su Virgin Radio, una radio importante, l’ottava a livello nazionale per numero di ascoltatori, l’unica emittente in Italia che tratta solo rock. Rivolgersi a un pubblico di 2.300.000 persone implica un approccio, un modo di porsi differente, che faccia certamente tesoro dell’esperienza e del bagaglio culturale acquisito, ma differente.

Molti ricordano la tua esperienza a Rock FM ed è nota la tua perizia in materia. Ebbene, alcuni esperti, negli ultimi anni, hanno definito proprio il rock come “la musica classica” del Novecento, secolarizzandolo una volta e per sempre. Ritieni che sia una definizione adeguata, questa? O c’è il rischio, in un certo senso, di dichiararlo per sempre come un’esperienza conclusa, appartenente ad un secolo che ormai è finito e a cui bisogna guardare con un’ottica lontana (com’è stato fatto, forse,  con la musica classica vera e propria e, anche, con il jazz)?

Amo ascoltare anche musica classica (il Barocco in particolare), ma non ne conosco bene la storia, quindi non posso esprimermi sulla sua crisi o presunta morte. Posso farlo con il rock, e non concordo con chi ne teorizza la fine. E’ musica popolare, nata dal basso e per qualche tempo espressione libera. E’ stata subito controllata dall’establishment e dall’industria, i margini di libertà artistica di cui si può godere volendone fare una professione sono limitati, come in qualsiasi altro settore di questa società.

E’ in crisi il rock? Sì, nella misura in cui lo è la società stessa: la malattia si chiama ‘appiattimento’, la causa il marketing, che da strumento utilizzato per capire come migliorare il business è diventato manuale d’uso e metodo unico.

RockFM era una radio priva di controllo editoriale, la sua linea editoriale era di fatto l’autonomia, la libertà d’azione dei suoi conduttori. Era la sua forza, ma anche il suo limite. Un sogno destinato inevitabilmente a concludersi.

La tua esperienza a Virgin Radio: un po’ di innovazione, un buon rispetto per la tradizione e tanta, tanta gioventù e vivacità. È sempre questa la ricetta giusta, soprattutto quando si parla di radio e di radio di qualità? Quale la tua esperienza (o la tua idea, se ne hai una differente)?

La selezione discografica operata da Virgin Radio mi pare la ponga in una posizione di perfetto equilibrio, il suono è attentamente bilanciato tra classici del passato (dalla metà degli anni ’60 in poi) e proposte attuali. Essere l’unica radio rock le consente di poter abbracciare liberamente l’intero panorama senza doversi necessariamente concentrare su settori specifici. Questo la rende ‘generalista’, quindi di facile fruizione, all’interno di un enorme bacino di ascolto.

Se mi chiedi come farei io una radio rock, rispondo che la radio perfetta non esiste, la radio perfetta è quella che ognuno di noi creerebbe a proprio gusto e piacere. Una radio che si rivolge a milioni di persone non può che essere un compromesso, e in quanto tale farà sempre fatica a farsi accettare da tutti, normalmente le estremità soffrono, ma il grande pubblico medio gode.

Ancora una domanda sulla “cara vecchia”: doveva spegnersi già con l’avvento della Tv, poi ha resistito e molto, tra radio libere e quant’altro, rigenerandosi alla grande. È arrivato internet  e secondo molti l’apocalisse era dietro l’angolo. Invece, tra web radio e social network che rilanciano il vostro lavoro in studio, la barca ha continuato a galleggiare e anzi, sembra tenere bene.  Non è che alla fine ci seppellirà tutti?

La radio è un media ‘caldo’, che non rende passivo chi lo segue, non subirà mai crisi preoccupanti, potrà trasformarsi, evolversi e modificarsi, ma la magia della radio vivrà per sempre.

Non sei mai veramente finito finché hai una buona storia da raccontare”. Da “Novecento”, il monologo di Alessandro Baricco. Un citazione che ben si confà con la grande storia del rock e con il modo di lavorare di Dr. Feelgood. È così? Quanto contano le storie in radio, in musica, nel rock?

Adoro raccontare storie, a tal punto che il microfono radiofonico non mi basta più, ho ripreso a scrivere di musica per la carta stampata (Chop’n’Roll e Suono) e internet (sulla mia pagina Facebook e per il sito The Long Journey) e sono anche tornato a suonare la chitarra seriamente, con l’idea di esibirmi (in duo con un noto musicista) in spettacoli cultural-musicali dedicati alle radici del rock and roll, particolarmente quelle country old time, raccontando storie che aiutino a conoscere e capire le condizioni della società e degli artisti che hanno dato vita al rock and roll.


Per la foto di Maurizio Faulisi si ringrazia Achille Jachetti: jachetti.me

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