registi Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Tue, 07 May 2024 10:28:33 +0000 it-IT hourly 1 I fratelli Coen, film celebri e biografie artistiche https://cultura.biografieonline.it/fratelli-coen/ https://cultura.biografieonline.it/fratelli-coen/#comments Tue, 07 May 2024 07:46:16 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7242 Joel David Coen nasce il 29 novembre del 1954 ed Ethan Jesse Coen nasce il 21 settembre del 1957 da una famiglia di origine ebraica: loro padre è un economista dell’Università del Minnesota, mentre la madre insegna storia dell’arte alla St. Cloud State University.

Cresciuti in Minnesota a St. Louis Park, un sobborgo di Minneapolis, vivono sin da bambini la passione per il cinema: Joel risparmia denaro per comprare una videocamera Vivitar Super 8, e in seguito entrambi riproducono i film che vedono in televisione insieme con un vicino di casa.

I Fratelli Coen
Joel Coen (a sinistra) e Ethan Coen (a destra)

Formazione e studi

Dopo essersi laureati nel 1973 e nel 1976 alla St. Louis Park High School, i fratelli Coen frequentano il Bard College at Simon’s Rock nel Massachusetts, a Great Barrington. Joel, in seguito, prende parte ad alcuni corsi dell’Università di New York, dove realizza un filmato di trenta minuti, valido come tesi, intitolato “Soundings”; Ethan, invece, frequenta lezioni di filosofia all’Università di Princeton, realizzando una tesi su Wittgenstein.

Joel, dopo la laurea di New York, lavora come assistente di produzione per numerosi film industriali e video musicali: ha l’opportunità di sviluppare il proprio talento per il montaggio, e di conoscere Sam Raimi, in cerca di un assistente montatore per “The evil dead”.

L’esordio negli anni ’80

Nel 1984, i fratelli Coen scrivono e dirigono “Blood simple”, il loro primo film realizzato in coppia. Ambientata in Texas, la pellicola racconta la storia del proprietario di un bar che assolda un investigatore privato per uccidere sua moglie e il suo amante; il film contiene numerosi elementi che verranno sviluppati in futuro dai due cineasti: omaggi a diversi generi cinematografici (horror e noir), humor nero e mise en scene.

“Blood simple”, che vede nel cast Frances McDormand (futura protagonista di molti loro film e futura moglie di Joel), ottiene premi al Sundance Festival e all’Independent Spirit.

Ethan e Joel: i fratelli Coen
Ethan e Joel Coen ad un evento cinematografico

Nel 1985 esce, invece, “Crimewave”, scritto dai fratelli Coen insieme con Raimi. Al 1987 risale “Raising Arizona”, storia di una improbabile coppia, composta da Holly Hunter e Nicolas Cage, che non riesce ad avere un bambino. Gli anni Novanta si aprono con “Miller’s Crossing”, con John Turturro, Gabriel Byrne e Albert Finney, ispirato ai racconti “Red Harvest” e “The Glass Key” di Dashiell Hammett.

Gli anni ’90

Nel 1991 i fratelli Coen dirigono “Barton Fink”, pellicola ambientata nella Los Angeles degli anni Quaranta: il film si rivela un successo di critica, ottenendo candidature agli Oscar e ben tre premi al Festival del Cinema di Cannes, inclusa la Palma d’Oro.

Nel 1994 la coppia di cineasti torna a lavorare con Raimi, con il quale scrive “The hudsucker proxy”; decisamente più popolare è, due anni dopo, “Fargo”, thriller criminale ambientate nel Minnesota, con William H. Macy nei panni di un uomo con seri problemi finanziari che fa rapire la moglie per ottenere i soldi dell’assicurazione. Anche in questo caso, una pioggia di premi, incluso un Bafta e due Oscar: quello per la migliore attrice, a Frances McDormand, e quello per la migliore sceneggiatura originale.

I registi Ethan e Joel Coen
Una foto dei due fratelli Coen

Anche il film successivo dei fratelli Coen, “Il grande Lebowski”, conquista i favori del pubblico e della critica, al punto da essere considerato un cult ancora oggi: esce nei cinema nel 1998, e annovera nel cast Jeff Bridges, John Goodman e Steve Buscemi.

Gli anni 2000

I fratelli Coen inaugurano il Duemila con “Fratello, dove sei?”, storia ispirata all’”Odissea” di Omero ma ambientata nel Mississippi degli anni Trenta, che mette in risalto le doti comiche di George Clooney. L’anno seguente, esce il thriller noir “L’uomo che non c’era”, ambientato nella California degli anni Quaranta: anche in questo caso, caratteristica distintiva è lo humor nero.

I Coen tornano a lavorare con Clooney nel 2003, quando dirigono “Prima ti sposo, poi ti rovino” (Intolerable cruelty), con Catherine Zeta-Jones, ispirato alle commedie romantiche degli anni Quaranta. Il film divide la critica, tra chi applaude agli elementi comici e chi invece si mostra decisamente perplesso. Ancora più tiepide sono le reazioni per “Ladykillers”, con Tom Hanks, uscito nel 2004.

I Coen, comunque, si rifaranno nel 2007 con “Non è un paese per vecchi” (No country for old men), basato sul racconto omonimo pubblicato nel 2005 da Cormac McCarthy, che mette in scena un veterano del Vietnam, Josh Brolin, che si imbatte in due milioni di dollari derivanti dal commercio di droga.

Complice il cast di alto lignaggio (Javier Bardem e Tommy Lee Jones sono gli altri protagonisti), il film ottiene universale apprezzamento dalla critica, vincendo ben quattro Oscar (tra cui quello per la migliore regia) su un totale di cinque nomination.

I fratelli Fratelli Coen con i mano gli Oscar vinti
I fratelli Coen, registi vincitori di quattro premi Oscar

Nel gennaio del 2008 Ethan Coen debutta a teatro con la commedia “Almost an evening”, in scena all’Atlantic Theater Company; a settembre dello stesso anno, torna al cinema, naturalmente in coppia con il fratello, con la commedia “Burn after reading”, con George Clooney e Brad Pitt.

Dopo aver girato anche uno spot pubblicitario, intitolato “Air Freshener”, per Reality Coalition, i Coen nel 2009 tornano sugli schermi con “A serious man”.

Gli anni 2010

Nel 2010 è la volta de “Il Grinta” (True grit), ispirato al racconto di Charles Portis, e girato tra il Nuovo Messico e il Texas con Matt Damon, Jeff Bridges e Hailee Steinfeld.

Mentre la commedia di un atto “Talking cure”, scritta da Ethan, viene prodotta a Broadway all’inizio dell’anno successivo.

Nel 2013 i fratelli Coen tornano al Festival di Cannes con “Inside Llewyn Davis”, film ispirato alla vita del cantante folk Dave Van Ronk.

Due anni più tardi, nel 2015, riprendendo un loro vecchio progetto, realizzano un altro dei loro film in stile demenziale dal titolo “Ave, Cesare!“.

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Lana e Lilly Wachowski. Fratelli, poi sorelle. Biografia https://cultura.biografieonline.it/lana-lilly-wachowski/ https://cultura.biografieonline.it/lana-lilly-wachowski/#comments Wed, 06 Nov 2019 09:28:52 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27425 Lana e Lilly Wachowski, prima Larry (Laurence) e Andy (Andrew Paul), sono una coppia di registi statunitensi. Inizialmente indicati come fratelli, dopo il cambio di sesso sono da definirsi sorelle. La celebre coppia è nota al grande pubblico soprattutto per aver creato la saga di Matrix. La loro creatività ha inoltre prodotto la serie tv Sense8. Eclettiche e stravaganti le sorelle Wachowski amano raccontare storie dal finale inaspettato e scuotere gli spettatori con originalità e colpi di scena.

Lana e Lilly Wachowski - Fratelli Wachowski - Sorelle Wachowski
Lana e Lilly Wachowski – precedentemente Andy e Larry

Lana e Lilly Wachowski, chi sono

Come erano prima del cambio genere?

Ecco tutte le curiosità, le vicende riguardanti la vita privata, gli amori, i successi lavorativi, la passione per i fumetti e tanto altro.

Lana e Lilly Wachowski: le biografie

Un tempo erano fratelli. Ora sono sorelle. Le sorelle Wachowski: registe, sceneggiatrici e produttrici cinematografiche di fama internazionale.

Laurence, classe 1965, ed Andrew Paul, appena due anni più piccolo (1967), nascono a Chicago da una madre infermiera e da un padre imprenditore di origine polacche. I due fratelli cominciano gli studi insieme, dapprima frequentando la Kellogg Elementary School; successivamente conseguendo il diploma presso la Whitney Young High School.

Laurence ed Andrew Paul non brillano, non sono studenti modello. Tuttavia già in età precoce, in questi anni, mostrano un profondo interesse per i fumetti e per il cinema, partecipando a diverse iniziative e agli spettacoli scolastici.

L’idea di Matrix

Dopo aver lasciato il college, i due iniziano a sviluppare le idee per mettere a punto la trilogia di Matrix, occupando il tempo libero per continuare a creare fumetti. Il primo film “Matrix” è del 1999, i successivi “Matrix Reloaded” e “Matrix Revolutions” sono entrambe del 2003.

Lilly e Lana Wachowski con Keanu Reeves
Lilly e Lana Wachowski con Keanu Reeves nel 2012 alla presentazione di “Cloud Atlas”

Il cambio di sesso

In seguito all’uscita del secondo capitolo, Laurence inizia ad apparire sul grande schermo vestito da donna, utilizzando il nome di Lana Wachowski, dichiarando apertamente la sua tendenza transgender e la volontà di cambiare sesso.

Negli scatti che immortalano Lana in abiti femminili è facile notare un look estroso e i caratteristici capelli viola. Il percorso per cambiare sesso prosegue per circa un decennio e si conclude con l’ufficiale dichiarazione in occasione del trailer del film “Cloud Atlas” (2012).

Lana spiega meglio le ragioni che riguardano il suo cambio di sesso in una intervista rilasciata al periodico americano The New Yorker; definisce la sua decisione una “evoluzione”.

Nel 2015 la coppia lancia il film “Jupiter – Il destino dell’universo“. L’anno successivo anche Lilly Wachowski dichiara ai media il suo processo di transizione.

wachowski fratelli sorriso smile

Lana Wachowski e Lilly Wachowski: gli amori

Lana, prima conosciuta come Larry, è stata sposata con Thea Bloom. Il matrimonio durato nove anni, dal 1992 al 2002, si è concluso con un divorzio e con una richiesta di risarcimento.

In seguito alla separazione Larry ha iniziato una nuova relazione con la dominatrice Ilsa Strix.

Alisa Blasingame è compagna di Andy: i due si sono sposati nel 1991.

Curiosità

Lana e Lilly Wachowski hanno più volte ammesso di voler stupire il grande pubblico con storie dalla trama non scontata. Le due sorelle hanno lavorato per marchi editoriali del calibro di Razorline e Marvel Comics. Hanno anche pubblicato fumetti ispirati alla loro creatura, Matrix.

wachowski primo piano

La coppia è stata più volte citata in giudizio con l’accusa di aver plagiato Matrix e altri lavori. In un’occasione Sophia Stewart ha chiamato le sorelle in tribunale sostenendo che Matrix fosse stato rubato dal suo romanzo a fumetti “Il terzo occhio”. La causa non ha avuto seguito: è stat rigettata per mancanza di prove.

Lana Wachowski e Lilly Wachowski hanno anche partecipato ad altre importanti produzioni cinematografiche come “V per Vendetta” (2005), “Ninja Assassin” (2009) e “Speed Racer” (2008).

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Festival di Cannes https://cultura.biografieonline.it/festival-di-cannes/ https://cultura.biografieonline.it/festival-di-cannes/#comments Mon, 24 Aug 2015 16:13:04 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14824 Il Festival International du film di Cannes si svolge ogni anno a maggio per due settimane nella cittadina francese di Cannes, in Costa Azzurra. Si tratta di uno dei festival del cinema più famosi al mondo, che attira ogni anno registi, attori e celebrities del mondo dello spettacolo.

Cannes
Cannes: una foto della città

In queste due settimane di maggio, la cittadina si trasforma nella sede di innumerevoli sfilate sul tappeto rosso, la passerella dove si mostrano attori e registi chiamata Monteé des Marches. Un’occasione fondamentale per i produttori e i registi che fanno a gara per presentare i loro lavori, esponendosi così ad un pubblico di giudici esperti. Essi partecipano anche per avere maggiore visibilità e vendere i diritti ai distributori di tutto il mondo.

Di seguito andiamo a raccontare la storia del Festival, insieme ad alcuni dettagli sui premi e sulla selezione dei film per il Festival di Cannes.

La storia del Festival di Cannes

La prima edizione del Festival di Cannes fu quella del 1939: nacque come reazione alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, allora guidata dai gerarchi fascisti e nazisti che selezionavano arbitrariamente i film, basandosi esclusivamente su tematiche aderenti ai due regimi.

Il film presentato nel 1937 dai francesi, l’indiscusso capolavoro La grande illusione di Jean Renoir, venne escluso dalla premiazione a Venezia perché accusato di diffondere ideali pacifisti. Si preferì premiare pellicole vicine alle idee dei totalitarismi, quali il documentario Olympia di Leni Riefenstahl e Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini.

In risposta a questa evidente disparità, l’allora Ministro francese della pubblica istruzione e delle belle arti Jean Zay, propose la creazione a Cannes di un festival di risonanza internazionale, volto a fare concorrenza a quello di Venezia. Così nel 1939 si avviò la prima edizione, presieduta eccezionalmente da Louis Lumiere.

La kermesse avrebbe dovuto svolgersi il 30 settembre ma la dichiarazione di guerra della Francia alla Germania del 3 settembre dello stesso anno mise fine allo spettacolo, che quindi si concluse ancora prima di iniziare. La prima vera edizione del Festival di Cannes si tenne nel 1946, dal 20 settembre al 3 ottobre e si stabilì la cadenza annuale. Il primo luogo scelto come ambientazione fu il Casinò, che venne poi sostituito negli anni con il Palais de la Croisette fino al 1983.

La prima giuria era composta da 18 elementi, tra cui critici, produttori ed esperti, ciascuno proveniente dai 18 paesi partecipanti. Il Festival di Cannes degli anni Quaranta ospitò tutti i grandi attori del tempo senza però dimenticare le macerie della guerra appena conclusa: uno dei Grand Prix della prima edizione venne infatti attribuito a Roma città aperta (1945) film di Roberto Rossellini.

Dagli anni Cinquanta in poi il cinema italiano riuscì ad ottenere importanti riconoscimenti a Cannes; tra i premiati si ricordano: Vittorio de Sica, Eduardo de Filippo, Silvana Mangano, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini.

Da ricordare anche l’edizione del 1968 duramente contestata dai francesi a seguito di una serie di movimenti anti-capitalisti che si diffusero nel paese. Monica Vitti, che faceva parte della giuria, si dimise insieme a molti altri giurati in segno di solidarietà con studenti e operai in sciopero. Il Festival venne sospeso e non fu assegnato nessun premio.

Nel 2012 è stato il regista italiano Nanni Moretti a presiedere la giuria del Festival, grande motivo di vanto per l’Italia. Nel 2013 è toccato al regista americano Steven Spielberg. La 68° edizione del Festival del 2015, che ha avuto luogo dal 13 al 24 maggio, è stata presieduta eccezionalmente da due persone: i registi Joel ed Ethan Coen. Il film francese Dheepan si è aggiudicato la Palma d’oro ed Ingrid Bergman è stata omaggiata con un mega poster ed un documentario a lei dedicato.

Festival Cannes Logo
Il logo del Festival del cinema di Cannes

I premi e la selezione

La selezione dei film del Festival del cinema di Cannes è formata da due sezioni principali: il Concorso e Un Certain Regard, più i film fuori concorso, proiezioni speciali e cortometraggi. Il Concorso è la parte più importante del festival e quella più esposta ai media. La giuria, composta da personalità di spicco del mondo della cinematografia, nel corso della cerimonia di chiusura assegna i premi principali: la Palma d’oro per il miglior film, il Grand Prix, il premio per la miglior regia, i premi per la migliore interpretazione maschile e femminile, il premio per la migliore sceneggiatura e il premio della giuria. Possono essere ammessi sia film di registi famosi che di esordienti.

Cannes Festival - Palma d oro
La Palma d’oro è il premio che viene assegnato al Festival di Cannes

Un Certain Regard è invece una sezione dedicata alle opere più originali, che rappresentano l’avanguardia del cinema di oggi. La premiazione avviene nel teatro Debussy il giorno prima di quella del concorso.

Esistono poi anche un concorso di cortometraggi, in genere una decina; la sezione Cannes Classic che presenta film d’epoca restaurati; lezioni di cinema, di musica e di attori.

Cannes - Tappeto rosso
Il red carpet (tappeto rosso) de La Croisette, dove sfilano moltissime star del cinema. Nella foto: Monica Bellucci e Sophie Marceau (2009)

Il Festival è diventato un appuntamento importante non solo per lo showbusiness mondiale ma soprattutto per l’industria cinematografica, e viene seguito da milioni di persone in tutto il mondo. Da ricordare l’emendamento dell’articolo 1 dello statuto del Festival che riassume lo spirito e l’obiettivo della sua creazione: favorire la valorizzazione delle opere di qualità e lo sviluppo dell’industria del film nel mondo.

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I fratelli Taviani: biografia di Vittorio e Paolo Taviani https://cultura.biografieonline.it/fratelli-taviani/ https://cultura.biografieonline.it/fratelli-taviani/#comments Sat, 11 Apr 2015 13:25:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14034 Vittorio Taviani nasce il 20 settembre del 1929 a San Miniato, in Toscana; poco più di due anni più tardi, l’8 novembre 1931 nasce, sempre a San Miniato, suo fratello Paolo Taviani. La coppia di registi è considerata tra le più importanti del cinema italiano.

Paolo e Vittorio Taviani - registi
Paolo Taviani (a sinistra) e Vittorio Taviani (a destra) – fratelli registi

Figli di un avvocato che negli anni del fascismo ha più di un problema con la giustizia e con l’autorità a causa del suo pensiero antifascista, i Taviani sono entrambi appassionati di cinema sin da quando sono ragazzi, e in gioventù animano il Cineclub di Pisa: nel frattempo frequentano l’università di Pisa (Paolo è iscritto alla facoltà di lettere, Vittorio a quella di giurisprudenza) e insieme con il partigiano Valentino Orsini, un loro amico, organizzano proiezioni e spettacoli tra Livorno e Pisa prima di trasferirsi, intorno alla metà degli anni Cinquanta, a Roma, dove lavorano ad alcuni documentari.

Tra questi, anche “San Miniato luglio ’44”, che si avvale del contributo di Cesare Zavattini alla sceneggiatura e che è basato sugli eventi avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale in Toscana.

Gli anni ’60

Nel 1960 insieme con Joris Ivens i fratelli Taviani dirigono un documentario intitolato “L’Italia non è un paese povero”; due anni più tardi firmano con Valentino Orsini il film “Un uomo da bruciare”, cui segue nel 1963 “I fuorilegge del matrimonio”.

Nella seconda metà degli anni Sessanta i fratelli Taviani esordiscono come registi autonomi: è il 1967 quando vede la luce “I sovversivi”, pellicola che anticipa sotto molti punti di vista gli avvenimenti del Sessantotto.

Nel 1969 la coppia di registi toscani dirige Gian Maria Volonté in “Sotto il segno dello scorpione”.

Vittorio Taviani
Vittorio Taviani

Paolo Taviani
Paolo Taviani

Gli anni ’70

Nel 1972 viene realizzato un adattamento di un racconto di Tolstoj chiamato “Il divino e l’umano”: si tratta di “San Michele aveva un gallo”, lungometraggio che ottiene numerosi apprezzamenti della critica. Due anni più tardi è la volta di “Allonsanfan”, film dedicato alla restaurazione con protagonisti Lea Massari, Laura Betti e Marcello Mastroianni.

Nel 1977 i fratelli Taviani vincono la Palma d’Oro al Festival di Cannes grazie a “Padre padrone”, film tratto dal libro omonimo di Gavino Ledda: in esso viene affrontata e narrata la lotta che un pastore sardo deve combattere contro le crudeli norme dell’universo patriarcale di cui fa parte.

Gli anni ’80

Dopo gli echi neorealistici de “Il prato”, nel 1982 i registi di San Miniato sono i padri di “La notte di San Lorenzo”, che narra la fuga di un gruppo di abitanti di un piccolo paese toscano martoriato dalle rappresaglie fasciste e naziste.
La notte di San Lorenzo” viene ampiamente celebrato dalla critica, e si vede assegnato anche il premio della giuria ecumenica e il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes; in Italia, vince due Nastri d’Argento (regia del miglior film e migliore sceneggiatura, oltre a una nomination per il miglior soggetto) e due David di Donatello (miglior film e migliore regia).

Nel 1984 i Taviani si dedicano a un altro adattamento di un’opera letteraria: è “Kaos”, film a episodi ispirato alle “Novelle per un anno” di Luigi Pirandello, che vince il David di Donatello per la migliore sceneggiatura (essendo stato candidato anche per il miglior film e per la migliore regia).

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Due anni più tardi, i Taviani si vedono assegnare il Leone d’oro alla carriera in occasione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, mentre nel 1987 provano a lanciarsi nel mercato internazionale con “Good morning Babilonia“, la storia di due fratelli che lasciano l’Italia in cerca di fortuna e in America iniziano a lavorare nel mondo del cinema.

Ambientato nel passato è anche “Il sole anche di notte”, che ha come location la Napoli del Settecento pur essendo il suo soggetto ispirato a un racconto di Tolstoj, “Padre Sergij”.

Gli anni ’90

Nel 1993 i registi si dedicano a “Fiorile”, una riflessione dedicata al potere del denaro, spesso corruttore, mentre nel 1995 vengono nominati Commendatori Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Un anno più tardi portano sul grande schermo “Tu ridi”, esplicitamente ispirato alle novelle pirandelliane. “Tu ridi” è una pellicola distinta in due episodi: nel primo, un ex baritono (interpretato da Antonio Albanese) obbligato a non cantare più per ragioni di salute sfoga la sua frustrazione con fragorose risate notturne; nel secondo, il rapitore di un ragazzo (interpretato da Lello Arena) uccide il sequestrato.

I fratelli registi Paolo e Vittorio Taviani
I fratelli registi Paolo e Vittorio Taviani

Gli anni 2000

Negli anni Duemila, i fratelli Taviani ricevono l’onorificenza di Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e si dedicano anche alla televisione: nel 2004, per esempio, vede la luce “Luisa Sanfelice”, con protagonisti Adriano Giannini e Laetitia Casta, che vestono i panni di due ragazzi che vivono una grande storia d’amore sullo scenario di un conflitto bellico.

Nel 2007 i registi tornano al cinema con “La masseria delle allodole”, che tratta del genocidio compiuto dai turchi nei confronti della popolazione armena durante gli anni della Prima Guerra Mondiale: l’opera viene presentata nella sezione Berlinale Special al Festival di Berlino e riceve il riconoscimento dell’Efebo d’Oro.

L’anno successivo, i cineasti ricevono dall’Università di Pisa (facoltà di Lettere e Filosofia) la laurea honoris causa in cinema, teatro e produzione multimediale. Nel 2009 si vedono assegnare il Premio Camillo Marino alla carriera e il Premio Monsignor Torello Pierazzi; due anni dopo, invece, vengono onorati al Bif&st di Bari con il Premio Federico Fellini 8 ½.

Vittorio e Paolo Taviani nel 2012
Vittorio e Paolo Taviani nel 2012

Nel 2012 i Taviani tornano a Berlino, dove viene proposto in concorso e consacrato “Cesare deve morire”, pellicola in cui i detenuti del carcere laziale di Rebibbia mettono in scena la tragedia shakespeariana che dà il titolo al film: “Cesare deve morire” si aggiudica l’Orso d’Oro nella rassegna tedesca, ma vince anche il David di Donatello per la migliore regia e quello per il miglior film.

Nel 2015 i registi toscani portano sul grande schermo, per l’ennesima volta, un’opera letteraria: questa volta si tratta addirittura del “Decameron” di Giovanni Boccaccio, rappresentato nel film “Maraviglioso Boccaccio”, con Kasia Smutniak e Riccardo Scamarcio.

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Intervista a Giuseppe Sansonna https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-giuseppe-sansonna/ https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-giuseppe-sansonna/#respond Wed, 18 Jan 2012 17:53:09 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=167 Giuseppe Sansonna. Regista, pugliese di Conversano, in provincia di Bari, ma da una vita ormai a Roma. Specializzato in documentari d’autore, ha dedicato gli ultimi tre anni della sua carriera professionale all’allenatore di calcio più discusso dell’ultimo ventennio, Zdenek Zeman. Nel suo obiettivo, per la precisione, sono finite le due stagioni vissute dal mister boemo sulla panchina a lui più cara, che lo ha consegnato agli annali: quella del Foggia. Due stagioni distanti circa vent’anni tra loro, la prima, cara ai tifosi rossoneri e agli amanti del calcio spettacolo, andata in scena nel triennio 1991-1994, con quello che è passato alla storia come “Il Foggia dei miracoli”, spavaldo e vincente in serie A. La seconda, durata appena un anno calcistico, quello 2010/2011, che ha segnato il ritorno di Zeman nel calcio che conta, sempre in sella al suo Foggia, questa volta però dalla terza serie professionistica del campionato di Lega Pro. Il risultato di questa avventura firmata da Giuseppe Sansonna è un cofanetto, pubblicato a fine 2011 dalla casa editrice Minimum Fax, il quale mette insieme entrambi i lavori: “Zemanlandia” e “Due o tre cose che so di lui”, con un libretto-reportage a firma sempre del regista pugliese. Tuttavia, come emerge nell’intervista di seguito, l’autore Sansonna non è solo un appassionato di calcio in generale e dell’allenatore praghese in particolare. Ma un regista di nicchia, appassionato di documentari e di ritratti d’autore.

Zeman con il regista Giuseppe Sansonna
Zeman con il regista Giuseppe Sansonna

Dopo “A perdifiato”, dedicato a Michele Lacerenza, il trombettista dei western di Sergio Leone, arriva il lavoro su Rodolfo Valentino, ne “Lo sceicco di Castellaneta”. E, per ultimo, il doppio su Mister Zeman. Più che una passione per il documentario classico, con l’accento posto soprattutto sui fatti narrati, Sansonna sembra avere una predilezione per il ritratto d’autore, è così? Meglio la personalità (o il personaggio) da narrare, per dirla alla Sorrentino, piuttosto che la trama in sé?

Perennemente disorientato dalle derive della mia esistenza, provo a rintracciare senso e percorsi nelle vite altrui. Privilegiando quelle impervie e articolate, che lambiscano il mito, la persistenza nell’immaginario collettivo. Ho sempre in mente il cartello “No trespassing”, inquadrato all’inizio di “Quarto potere”. Cerco di individuare, nei percorsi biografici altrui, situazioni rivelatrici- senza definire identità aprioristiche, lapidarie. I miei lavori sono ibridi che triturano linguaggi disparati, calibrati sull’oggetto in questione.

In generale, quello attuale, che momento è per il documentario d’autore a livello nazionale? E per quale ragione in America questo genere gode di ben altra attenzione rispetto all’Italia? Solo un problema economico?

Credo che in Italia, salvate le solite eccezioni, sia in atto da decenni un impoverimento del linguaggio filmico. Ormai indistinguibile dal deperibile linguaggio catodico. Le fiction sono un grande collettore fognario di prodotti seriali e anonimi, che non si incidono mai nella memoria collettiva. Fanno ribrezzo in primis ai propri artefici. Oggetti anomali come i documentari sono quasi esclusi dal mercato. In America il cinema è, invece, un’industria ancora fiorente. In quanto tale ha bisogno di coltivare prodotti indipendenti, ai suoi margini. Da copiare, patinando e disinnescando, per renderli fruibili alle grandi masse. Ma intanto lasciano vivere e sperimentare chi ha autentiche necessità espressive.

Entrando nel merito: raccontare il calcio, quale che sia il modo, è sempre un rischio grosso, al cinema. La stessa storia cinematografica è densa di fallimenti, più o meno clamorosi. Alla luce della tua doppia esperienza, cosa non si deve mai fare in un documentario-reportage calcistico? Quali, i rischi più grossi?

Il calcio, per sua natura, tende all’ irrappresentabilità. Puoi solo coglierlo nel suo farsi. Evitando la cosmesi alla Matrix delle pay tv, quell’arsenale di carrelli, dolly, zoomoni improvvisi, atti a enfatizzare il nulla. Omologando tutte le partite. I fuoriclasse e la grandi azioni vengono esaltati dal campo lungo, a camera fissa. Mettere in scena il calcio al cinema conduce poi a esiti pacchiani. Penso alla rovesciata di Pelé in “Fuga per la vittoria”. Compiuti i sei anni, ha smesso di affascinarmi. “Ultimo minuto”, di Pupi Avati, non mostra mai la partita. Filma la panchina. Un’idea che ho ripreso e calato nella realtà, in “Due o tre cose che so di lui”. La panchina è un microcosmo cangiante, una zattera sospesa tra il boato della folla e il campo, animata da improvvise urla belluine alternate a silenzi carichi di tensione.

Quali differenze sostanziali tra quest’ultimo lavoro, “Zemanlandia” e “Due o tre cose che so di lui”, e i tuoi precedenti?

“A perdifiato” e “Lo sceicco di Castellaneta” sono le storie di due defunti, Michele Lacerenza e Rodolfo Valentino. Uno anonimo, l’altro celeberrimo. Il primo, sputando sangue e anima nella sua tromba, ha colorato la sonorità del western leoniano, intridendolo di quel fatalismo mistico, tipico del sud Italia. Il secondo, pioniere del divismo, ha lasciato una Castellaneta che sembrava Aci Trezza, per trasformare Hollywood nella capitale della debordiana società dello spettacolo. Una sproporzione che deflagra ancora oggi, nella memoria orale dei compaesani.
Zeman è vivo, per sua e nostra fortuna. Il problema era indurlo a raccontarsi.

A bruciapelo: perché proprio Zeman?

Ho sempre percepito il volto di Zeman come un’anomalia seducente, una scheggia di cinemascope fluttuante nel piatto flusso catodico delle trasmissioni sportive. Quel ciuffo biondo spento, lo sguardo gelido, la mascella serrata. Le sue pause stranianti, che spiazzavano puntuali la vacua concitazione della stampa. Lo stoicismo rigoroso, immutato negli anni. Inventore di un gioco folgorante e innovativo, riproposto ossessivamente. Una monotonia vitale e sfaccettata, da artista puro. Elementi sufficienti per dedicargli un ritratto approfondito.

Quanto ti ha concesso, secondo te, del suo vero modo di essere? È stato sempre Zeman davanti la telecamera, o a volte ti è sembrato “fare Zeman”?

Cominciando le riprese di Zemanlandia, decisi di rinunciare all’intervista classica e collocai il boemo e il patron Casillo su di un divano. La formula funzionò, creando un clima autentico. Esibirono le opposte prospettive esistenziali , con tempi comici perfetti, da coppia consumata Casillo tracimava, in ogni senso possibile. Zeman ne congelava le emorragie verbali con frasi lapidarie. “Due o tre cose che so di lui” è stato un pedinamento discreto, basato sulla fiducia reciproca, finalizzato a cogliere Zeman nella sua quotidianità lavorativa. Diventando trasparenti, nel corso del tempo. Osservandolo stemperare tensione e noia in infinite partite a carte, circondato dagli amici di una vita. Scandendo il tempo, con un sincretico flusso di coscienza canoro, che tritura e ritesse schegge di immaginario musicale anni sessanta.

“Due o tre cose che so di lui” racconta, in sintesi, la storia di un ritorno , di una rinascita, almeno calcistica, la quale poi non è riuscita, almeno stando ai numeri. Più romantico così, nel caso di Zeman? O sarebbe stato molto meglio se fosse finita diversamente?

Una promozione in serie B avrebbe reso la trama più avvincente. Tuttavia, a me le trame interessano relativamente. Mi allettava la chance di raccontare il ritorno di Zeman nel suo habitat naturale. Alle prese con l’odore dell’erba e la ripetitività ossessiva degli schemi, nel silenzio monastico dei campi d’allenamento. Gli amici riuniti dalla voglia di riscatto, il tentativo di cancellare il tempo trascorso. L’impatto con lo Zaccheria adorante, quindici anni dopo. La cruda realtà ha imposto al finale un retrogusto malinconico, chiaroscurale. La nota lieta è il carisma intatto di Zeman, un sessantenne in grado di comunicare nel profondo con i ventenni di oggi. Il suo calcio è ancora vivo e il presente lo dimostra.

Quale aneddoto ricordi con maggiore affetto, di quelli che hanno riguardato il tuo lavoro con il boemo?

Ritiro di Termoli, settembre, Hotel Meridiano, vigila di Foggia-Foligno. Zeman fumava addossato al muro, lo sguardo rivolto al mare in tempesta. Io, seduto a fianco a lui, ascoltavo Franco Altamura, eterno Sancho del boemo, perplesso sulla remuneratività del cinema.”Troppa fatica per pochi soldi”, l’ardua sentenza. Zeman, senza staccare gli occhi dai flutti termolesi, sibilò: “Lui non lo fa per soldi. Queste cose si fanno per pubblico, non per soldi”. Poche parole, con la solita cavernosa atonia, istituendo una commovente analogia fra il suo calcio e il mio cinema.

Scegliendo liberamente tra personaggi di film e attori, al cinema, Zeman, chi potrebbe essere? E Pasquale Casillo?

Zeman è fin troppo aderente al Clint Eastwood di Million Dollar baby e di Gran Torino. Trincerato dietro un’apparente durezza, dotato di grande sensibilità e di una sana smania didattica. A suo agio nei silenzi e nelle surreali sospensioni di Kaurismaki. Casillo è la condensazione estrema dei noir di Scorsese, Abel Ferrara e di tanto hard boiled americano. E’ il sosia sputato di Big Boy Caprice, l’Al Pacino espressionista, nemico giurato del Dick Tracy di Warren Beatty. Un talento attoriale folgorante, una maschera atellana che buca lo schermo.

Ma alla fine è proprio vero questo: o lo ami o lo odi, Zeman? Oppure c’è un’altra possibilità?

Detesto la mitopoiesi di chicchessia. Il mito ha perso il senso profondo che aveva nel mondo greco. Non insegna più nulla. E’ diventato il guscio vuoto e sfavillante, in cui ciascuno sversa il liquame della propria immaginazione. Un’icona deresponsabilizzante, da adorare acriticamente. Io credo che Zeman ambisca ad essere un esempio, più che un mito. Da seguire, ognuno nel suo campo da gioco. Animato da un’utopia semplice, molto concreta, vive il calcio come uno sport da giocare con lealtà, dando l’anima fino al fischio finale ed esaltando il pubblico sugli spalti.

E in ogni caso, dopo il doppio lavoro sul boemo e sul suo Foggia, Sansonna è pronto a lavorare ad un seguito? O sei già proiettato su altre storie, altri ritratti? Qualche cenno?

Mi interessava raccontare lo Zeman foggiano, in omaggio a un’adolescenza spensierata, ultimoperiodo davvero sereno della mia vita. Vivevo la mia intima aventura solitaria a Foggia, partendo da Bari col treno. Mescolandomi anonimo alla folla, come certi personaggi pirandelliani, che si liberano del peso dell’identità. Osservavo la città in visibilio, estasiata e urlante, sedotta dal suo sacerdote afono in trench chiaro. Penso di aver assediato Zeman a sufficienza. Rimane un rapporto d’amicizia, che non ha bisogno di telecamere. Al momento sto lavorando a un nuovo ritratto. Di chi? E’ancora un segreto. Una personalità sulfurea e complessa, da maneggiare con precauzione.

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