poeti Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 21 Jun 2023 08:11:55 +0000 it-IT hourly 1 Lavandare, analisi, parafrasi e commento alla poesia di Pascoli https://cultura.biografieonline.it/lavandare-pascoli/ https://cultura.biografieonline.it/lavandare-pascoli/#comments Wed, 24 May 2023 07:14:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18565 Il componimento “Lavandare” viene inserito da Giovanni Pascoli solo nella terza edizione di Myricae (1894) e fa parte della sezione L’ultima passeggiataMyricae è stata la prima raccolta del poeta ed ha avuto una vicenda editoriale piuttosto complessa. Una prima edizione, composta da sole 22 liriche, venne pubblicata nel 1891 in occasione del matrimonio di un amico. Negli anni successivi il poeta ampliò il corpus delle liriche fino ad un totale di 156 e l’edizione definitiva fu quella del 1900.

Lavandare - testo della poesia di Giovanni Pascoli

Il titolo è in latino ed indica la pianta delle tamerici (piccoli arbusti della macchia mediterranea): il poeta lo ha ricavato da un verso delle Bucoliche di Virgilio che recita:

non omnes iuvant arbusta humilesque myricae
(non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici).

Pascoli rovescia però questa negazione e dedica la sua raccolta di poesie proprio ad una pianta umile e semplice perché vuole dare spazio alla descrizione delle piccole cose di campagna. La raccolta comprende 15 sezioni e prevalgono i testi brevi, come Lavandare. Per quanto riguarda i temi, Myricae può considerarsi una sorta di diario ricco delle impressioni del poeta e quindi un romanzo autobiografico: predominano quindi il tema della morte del padre, del paesaggio che diventa il simbolo della condizione interiore.

Lavandare: il testo

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.

Parafrasi

Nel campo che è per metà arato per metà no
c’è un aratro senza buoi che sembra
dimenticato, in mezzo alla nebbia.

E scandito dalla riva del fiume si sente
il rumore delle lavandaie che lavano i panni,
sbattendoli, e lunghe cantilene:

Il vento soffia e ai rami cadono le foglie,
e tu non sei ancora tornato!
da quando sei partito sono rimasta
come un aratro abbandonato in mezzo al campo.

Analisi della poesia

Lavandare è un madrigale, composto da due terzine e una quartina di endecasillabi con rime ABA CBC DEDE.

La lirica descrive le sensazioni del poeta che, mentre i campi sono avvolti dalla nebbia, sente in lontananza i suoni provenienti dal lavatoio e i lunghi canti delle lavandaie. Nella prima strofa viene descritto un campo immerso nella nebbia su cui spicca un aratro abbandonato. Dominano i colori spenti: il campo viene descritto infatti come mezzo grigio e mezzo nero.

Nella seconda strofa viene descritto il rumore dei panni che vengono lavati nell’acqua e il canto delle lavandaie. Qui prevalgono le sensazioni uditive (suono dei panni, il canto triste, il tonfo).

Nella terza strofa viene riportata la canzone cantata dalle lavandaie che parla di una giovane donna abbandonata dall’innamorato e che è rimasta sola come l’aratro in mezzo al campo. La lirica è quindi circolare: si apre e si chiude con l’immagine- simbolo dell’aratro abbandonato che rappresenta la solitudine. Questa scena descritta nella poesia serve proprio a trasmettere la sensazione di abbandono e malinconia che rinvia proprio al poeta stesso: egli si sente abbandonato dai suoi cari perché è rimasto orfano del padre e la sua vita è stata funestata da una serie di lutti. Il paesaggio diventa quindi un simbolo per raccontare il proprio stato d’animo.

La poesia Lavandare si caratterizza per il ritmo lento, quasi da cantilena, l’utilizzo di molte allitterazioni (v. 8 tu non torni, v. 10 in mezzo alla maggese) di rime interne (v. 5 sciabordare-lavandare).  Importante l’utilizzo transitivo del verbo nevicare al verso 7: il ramo fa cadere le foglie come fossero fiocchi di neve.

Giovanni Pascoli
Una foto di Giovanni Pascoli

È presente anche una similitudine al verso 10 come paragone tra la ragazza abbandonata e l’aratro in mezzo al campo.  Questa rappresentazione della natura in una delle liriche più lette del Pascoli aiuta il lettore a percepire la sensazione di vuoto e abbandono, sempre presente nell’animo del poeta, come una ferita mai sanata.

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Amai, poesia di Saba: analisi, commento e parafrasi https://cultura.biografieonline.it/amai-poesia-saba/ https://cultura.biografieonline.it/amai-poesia-saba/#respond Wed, 10 May 2023 09:05:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18149 La poesia “Amai” rappresenta il manifesto della poetica del suo autore, Umberto Saba. Questa poesia fa parte della sezione Mediterranee (1946) del Canzoniere di Saba, opera che racchiude tutti i suoi componimenti poetici. L’autore scelse questo titolo proprio per ricollegarsi alla poetica degli autori classici della letteratura (in primis Petrarca) e prendere le distanze dalla poesia ermetica e difficile da comprendere che si stava diffondendo in quegli anni.

Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo. Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Amo te che mi ascolti e la mia buona carta lasciata al fine del mio gioco.
Amai

Canzoniere

Il Canzoniere venne pubblicato nel 1961 nell’edizione definitiva, diviso in tre volumi. Il tema centrale è la scissione dell’io, la divisione in due parti della personalità del poeta, che trova le sue origini proprio nell’infanzia (altro tema centrale della raccolta insieme all’eros – passione amorosa e l’amore per la moglie Lina).

In quest’opera Saba rifiutò la poesia troppo artificiosa e ricercata, per questo scelse di praticare una poesia fatta di chiarezza e soprattutto di onestà, parola chiave della sua poetica.

Il testo in esame, la poesia “Amai“,  è infatti la dichiarazione nella quale il poeta afferma i caratteri della sua poesia: sceglie un lessico apparentemente banale e semplice ma, proprio per questo, adatto a descrivere la vita degli uomini, con i suoi turbamenti.

Amai : testo della poesia

Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

Parafrasi

Amai parole consuete, convenzionali e consunte, che nessun poeta
osava più utilizzare. Mi piacque particolarmente
la rima “fiore – amore”,
la più antica e difficile al mondo.
Amai la verità che si trova in fondo all’animo umano,
quasi un sogno dimenticato, che – tuttavia – il dolore
riscopre essergli amica. Il cuore con timore
le si accosta, ma una volta scoperta non l’abbandona più.
Amo te che mi ascolti e amo la mia poesia,
lasciata come una carta vincente alla fine del mio gioco.

Analisi e commento

Il componimento è costituito da tre strofe di diversa lunghezza (due quartine e un distico) formate per la maggior parte da versi endecasillabi (tranne al verso 3: amore, un trisillabo). Sono presenti molte rime baciate : fiore- amore, mondo- fondo, dolore-cuore, abbandona-buona.

La prima strofa inizia proprio con la parola amai, che diventa il titolo della poesia e introduce gli argomenti che il poeta vuole utilizzare per i suoi componimenti (trite parole che non uno osava, ossia le parole già utilizzate dalla tradizione poetica). Importante è il ruolo della parola amore, che viene messa in evidenza perché rappresenta il centro della poesia stessa: la rima fiore-amore viene definita dal poeta la più difficile da usare ma anche la più antica di tutte. Egli infatti sceglie di utilizzare un lessico già ampiamente sfruttato dai poeti precedenti ma non vuole correre il rischio di banalizzare i suoi componimenti.

All’inizio della seconda strofa torna la parola amai, in anafora: il poeta dichiara di amare la verità che si trova a fondo delle cose umane e viene spesso dimenticata come un sogno. Il cuore le si accosta con paura perché la verità, una volta scoperta, non lo abbandonerà più.  La poesia svolge quasi una funzione terapeutica nei confronti del dolore: è meglio scoprire ciò che a volte si cerca di non vedere perché troppo doloroso, piuttosto che vivere nell’oblio.

L’ultimo distico è un appello al lettore: amo te, lettore, e la mia buona poesia lasciata alla fine del mio gioco. Per Saba è come se il destino fornisse agli uomini delle carte e bisogna saper giocare la propria fino alla fine. Il suggerimento del poeta è quindi quello di vivere la vita fino in fondo, nonostante la verità riemersa e il dolore.

Saba dichiara quindi il proprio amore verso il lettore e soprattutto la soddisfazione di essere riuscito a creare una poesia onesta. La conclusione è quindi tutta improntata a ristabilire il valore della propria poetica e soprattutto a credere fortemente nella comunicazione con i suoi lettori.

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Ulisse, poesia di Saba: spiegazione, testo e commento https://cultura.biografieonline.it/ulisse-saba/ https://cultura.biografieonline.it/ulisse-saba/#comments Mon, 08 May 2023 08:33:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20414 La poesia Ulisse è l’ultima della sezione Mediterranee, presente nel Canzoniere, la raccolta completa di liriche di Umberto SabaUlisse è stata composta tra il 1945 e il 1946 e pubblicata nel 1948. Con essa, Saba si ricollega al tema del viaggio, rivisto in chiave unica e personale, lasciando ai lettori una sorta di testamento spirituale.

Ulisse Saba poesia - Nella mia giovinezza ho navigato

Con il Canzoniere Saba decise di unificare tutta la sua produzione per lasciare ai lettori una sua autobiografia in versi. Un esperimento lontano dalla nuova poetica ermetica, che si collega invece direttamente alla tradizione letteraria italiana. Il Canzoniere è stato pubblicato per la prima volta nel 1921, per un totale di cinque edizioni. L’ultima, quella postuma, è del 1961.

È diviso in tre volumi di 26 sezioni: la poesia Ulisse si trova nel terzo volume, che comprende i testi dell’edizione postuma scritti tra il 1933 e il 1954 ed è divisa in quattro sezioni (Parole, Ultime cose, Mediterranee, Quasi un racconto). Il Canzoniere include sia tematiche familiari sia soprattutto l’analisi del proprio io rappresentata nel rapporto del poeta con la realtà. Inoltre, il poeta ritorna all’utilizzo di una metrica tradizionale, rifiutando le sperimentazioni e scegliendo di pubblicare una poesia onesta.

Umberto Saba - Il canzoniere
Umberto Saba – Il canzoniere

Ulisse: analisi della poesia

La lirica in esame è formata da una strofa di 13 endecasillabi sciolti. È intitolata all’eroe dell’Odissea, Ulisse. Il personaggio della mitologia greca diventa l’espediente per raccontare la giovinezza del poeta, trascorsa sugli isolotti delle coste dalmate, lavorando come mozzo in un mercantile.  L’elemento autobiografico viene subito trasfigurato e diventa il simbolo di considerazioni più generali riferite alla vita.

Nei primi nove versi il poeta racconta della sua navigazione per le coste della Dalmazia (regione della Croazia). Gli isolotti vengono descritti con molti dettagli. Su di essi sostavano gli uccelli, erano coperti di alghe e scivolosi al tatto, il verde conferiva loro il colore degli smeraldi. Quando erano coperti dalla marea, le navi si muovevano dalla parte opposta proprio per sfuggire dal pericolo di urtarci contro.

Dal verso nove in poi la narrazione si sposta al periodo della vecchiaia del poeta. Il suo regno non è più quello del mare ma è una terra dove nessuno osa avventurarsi perché piena di pericoli.

Ulisse: il testo della poesia

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

I temi e lo stile della poesia

Come si è potuto notare, la lirica può essere divisa in due parti, che si riconoscono anche dall’utilizzo dei tempi verbali. Il passato per la prima parte; il presente per la seconda.

Nella prima parte il poeta paragona le sue avventure giovanili a quelle di Ulisse, eroe mitologico protagonista dell’Odissea che però non viene mai nominato apertamente.

Nella seconda parte, introdotta dall’avverbio “oggi” al verso 9, il poeta è ormai vecchio e non si accontenta più di raggiungere il porto ma vorrebbe viaggiare ancora. Vorrebbe spingersi al largo proprio come fa l’Ulisse dantesco (nel XXVI canto dell’Inferno) che parte per l’ultimo viaggio senza fare più ritorno.

Umberto Saba con la moglie Lina
Umberto Saba con la moglie Lina

Il tema dominante della poesia è quello del viaggio come metafora della vita. Gli isolotti verde smeraldo rappresentano anche delle insidie di notte: sono i pericoli della vita. L’arrivo al porto rappresenta una quiete che però non interessa al poeta. Egli invece vorrebbe spingersi a conoscere nuove sponde. Si ricollega quindi sia alla tradizionale visione dell’Ulisse omerico, che ritorna ad Itaca alla fine del travagliato viaggio di ritorno a casa, sia all’Ulisse dantesco che decide di sfidare gli dei per oltrepassare le colonne d’Ercole senza fare mai più ritorno.

Si può notare anche un altro rimando letterario al verso 12 con l’accenno al “non domato spirito”. Esso richiama alcuni versi di Ugo Foscolo (Alla sera e A Zacinto).

Lo stile della poesia è classico. Sono presenti molti enjambements (v. 2, v. 5, v. 6, v. 7, v. 9, v. 10, v. 11) ma vi sono poche rime, bilanciate con le molte assonanze e rime interne. Il lessico è quotidiano, fatta eccezione per alcuni arcaismi, come il termine “giovanezza” al v. 1.

Nel complesso la lirica Ulisse è l’espressione dello spirito vitale del poeta Umberto Saba che, sebbene sia ormai anziano, continua a provare un grande amore per la vita, nonostante tutte le sofferenze che ha vissuto nel corso della sua esistenza.

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Desolazione del povero poeta sentimentale: poesia di Corazzini https://cultura.biografieonline.it/desolazione-poeta-sentimentale-corazzini/ https://cultura.biografieonline.it/desolazione-poeta-sentimentale-corazzini/#respond Sun, 08 Jan 2023 17:46:33 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40849 In questo articolo analizziamo la poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale”, di Sergio Corazzini. Egli fa parte del gruppo dei poeti crepuscolari (come Guido Gozzano e Marino Moretti), attivi in Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Essi praticavano una poesia molto diversa rispetto a quella del poeta-vate di D’Annunzio e al fanciullino di Pascoli (si vedano: le opere di D’Annunzio e la poetica di Pascoli). I crepuscolari mettevano al centro  le piccole cose quotidiane, non volevano più trasformarle in cose sublimi; vivevano la vita con distacco e ironia fino a definirsi “non poeti”.

Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta (Desolazione del povero poeta sentimentale)
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta.

L’autore: Sergio Corazzini

Corazzini nacque a Roma il 6 febbraio 1886 da una agiata famiglia borghese. Fu il primo di tre fratelli, tutti morti giovanissimi.

Visse la sua infanzia in giro per l’Italia ma fu costretto ad abbandonare gli studi nel 1904 per trovare un impiego.

Nel frattempo però continuò a scrivere e nel 1902 pubblicò le sue prime poesie in dialetto romanesco.

Sergio Corazzini divenne un punto di riferimento nel gruppo degli intellettuali romani; trascorreva con loro le serate discutendo spesso di poesia insieme a Govoni, Folgore e Martini.

Nel 1905 fondò insieme agli amici la rivista «Cronache latine» che però non ebbe molto successo. Nel 1906 venne ricoverato per tubercolosi, provò a curarsi ma purtroppo senza successo, morì infatti giovanissimo a Roma il 17 giugno 1907, all’età di soli 21 anni.

Tra le sue opere ricordiamo le raccolte poetiche:

  • Dolcezze (1904 – composta da 17 liriche);
  • L’amaro calice (1905 – 10 liriche);
  • Piccolo libro inutile (1906 – 8 liriche): è la raccolta più famosa che comprendeva anche alcuni componimenti dell’amico Alberto Tarchiani.

Tutta la sua produzione fu poi ristampata postuma col titolo Liriche (1922).

Sergio Corazzini
Sergio Corazzini

La poetica di Corazzini

Sergio Corazzini fa parte dei poeti crepuscolari in quanto la sua poesia è concentrata sulle piccole cose della vita. Inoltre anche lui nega il fatto di essere un poeta. Egli si descrive come un fanciullo malato che non può essere chiamato poeta, che purtroppo non riesce a godere delle cose della vita perché non ha prospettive future.

I suoi versi esprimono tanta malinconia, si articolano poi liberi cioè senza rime, in linea con la nuova tradizione del Novecento.

I poeti crepuscolari rappresentano la malattia e il crepuscolo, cioè il tramonto della poesia che si rivela inutile di fronte alla mutevolezza della vita; non riesce più a dare insegnamenti o messaggi al prossimo come accadeva nel passato. Si pone in antitesi rispetto a quella dannunziana che era bella ma secondo loro “inutile”.

Il testo: Desolazione del povero poeta sentimentale

I

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII

Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

Spiegazione e commento

Questa lirica da parte della raccolta Piccolo libro inutile, pubblicata nel 1906: è la più famosa dell’autore. Essa rappresenta il momento più significativo della sua poesia perché racchiude tutte le tematiche più importanti. I versi sono liberi e divisi in 8 strofe.

Tra le tematiche più importanti c’è la rinuncia ad essere poeta, che viene espressa direttamente già nel verso 2: la poesia non regala più insegnamenti e l’artista non è più un eroe, è semplicemente una persona che si ritira nel suo mondo.

Poi si passa alla tematica del voler rimanere fanciullo: il poeta è come un bambino che soffre per la sua pena e non riesce a trovare una soluzione per essa.

Infine la tematica della malattia: egli non intende solo la malattia fisica, ma soprattutto quella mentale. Si sente infatti inadatto e inadeguato a vivere il presente.

La poesia Desolazione del povero poeta sentimentale è strutturata in forma di dialogo con un tu immaginario, che in realtà è il poeta stesso.

I versi sono molto lunghi, quasi vicini alla prosa.

L’autore spesso si rivolge a Dio con delle invocazioni e la poesia diventa una sorta di preghiera.

In conclusione: gli autori crepuscolari dovrebbero essere maggiormente studiati perché segnano la fase di passaggio dalla poesia ottocentesca a quella novecentesca introducendo molte tematiche che saranno sviluppate dai poeti successivi.

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Non gridate più, poesia di Ungaretti https://cultura.biografieonline.it/non-gridate-piu-ungaretti/ https://cultura.biografieonline.it/non-gridate-piu-ungaretti/#comments Thu, 15 Jul 2021 06:59:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20195 La lirica Non gridate più è stata composta da Giuseppe Ungaretti nel 1945 e appartiene alla raccolta Il dolore. Per la composizione, l’autore prese spunto da un fatto di cronaca. La notizia del bombardamento da parte delle forze alleate del cimitero romano del Verano il 19 luglio 1943. Ungaretti pose l’accento sulla violenza della guerra che non si fermava neanche difronte ai morti.

Non gridate più - Cessate d’uccidere i morti, Non gridate più, non gridate Se li volete ancora udire, Se sperate di non perire. Hanno l’impercettibile sussurro, Non fanno più rumore Del crescere dell’erba, Lieta dove non passa l’uomo.

Il dolore

La raccolta Il dolore venne pubblicata nel 1947. Seguì la prima raccolta L’Allegria (1931) e la seconda Sentimento del tempo (1933). Il titolo di questa terza raccolta è riferibile sia alla tragedia della Seconda Guerra mondiale allora in corso, sia alle vicende personali del poeta. Nel 1937 morì il fratello Costantino; nel 1939 il figlio Antonietto a soli nove anni.
Egli decise di esprimere in questa raccolta tutto il suo dolore, sperimentato così duramente come mai prima.

Il dolore è formata da 16 composizioni divise in sei sezioni. Una è dedicata al fratello morto (Tutto ho perduto). Un’altra è dedicata alle poesie scritte per la morte di Antonietto (Giorno per giorno). Altre sezioni sono dedicate alla guerra. L’ultima sezioni I ricordi (1942-1946) comprende la poesia che andiamo ad analizzare: Non gridate più.

Non gridate più: testo della poesia

Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.

Parafrasi

Smettetela di uccidere (ancora) i morti,
non gridate più, non gridate,
se volete ancora ascoltare il loro messaggio di pace,
se sperate di non morire e di salvare i valori della civiltà umana.

(I morti) hanno una voce debole;
essi non fanno più rumore dell’erba che cresce,
che riposa silenziosa dove l’uomo non passa.

Analisi della poesia

La poesia Non gridate più è un esplicito invito al silenzio. Ungaretti lancia questo invito contro la disumanità della guerra, che non si ferma neanche difronte al bombardamento di un cimitero. Il silenzio diventa così lo strumento che permette di mantenere la dignità agli uomini.

La lirica è composta da due quartine di novenari sciolti, per un totale di otto versi. Può essere divisa in due parti, che corrispondono alle due strofe.

  1. Nella prima si esorta a sospendere la violenza e, con una provocazione, a porsi in ascolto dei morti. Ma soprattutto a cercare di non morire invece di uccidere chi è già passato a miglior vita.
  2. Nella seconda strofa è presente un parallelismo tra l’erba che cresce e il sussurro dei morti. L’erba viene definita lieta nei punti in cui non passa l’uomo perché esso sta commettendo troppe barbarie.

Dal punto di vista stilistico, la poesia è ricca di rime interne. La prima strofa si contraddistingue per la presenza di tre imperativi in posizione forte nei primi due versi. Qui troviamo un ritmo molto più incalzante. La seconda strofa, invece, è meno violenta, proprio per l’utilizzo di termini meno forti. Essa ha quasi il ritmo di una cantilena.

Commento

Il tema principale della poesia è il rispetto dei morti, che sembra dimenticato nel corso di questa guerra senza fine. Per il poeta, infatti, il legame col mondo dei morti è molto importante, come spesso sottolineato anche nelle sue raccolte precedenti, perché ricorda a tutti la propria identità.

Il ruolo che il poeta assume è quello di difensore dell’umanità e, soprattutto, di uomo in grado di cogliere l’aspetto più profondo delle cose.

Il ricordo resta per il poeta uno degli elementi fondamentali della vita dell’uomo: dimenticare i propri morti e gridare non serve a nulla. Questo è il messaggio che Ungaretti vuole lanciare in questa lirica: basta utilizzare la violenza. Il silenzio è l’unica arma che si possiede per poter contrastare la barbarie e che gli uomini dovrebbero utilizzare molto più spesso.

Non gridate più è un’invocazione alla pace. E’ una poesia densa di significato, che in soli pochi versi riesce ad esprimere a pieno i sentimenti del poeta nei confronti di un momento storico così difficile come fu quello della Seconda Guerra Mondiale.

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Alle fronde dei salici, poesia di Quasimodo: testo, parafrasi e analisi https://cultura.biografieonline.it/alle-fronde-dei-salici-quasimodo/ https://cultura.biografieonline.it/alle-fronde-dei-salici-quasimodo/#comments Mon, 10 May 2021 13:11:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20261 La poesia Alle fronde dei salici è una delle più famose di Salvatore Quasimodo. È stata pubblicata nel 1944. E’ poi stata scelta come testo di apertura della raccolta Giorno dopo giorno del 1947. Essa è il simbolo dell’impegno civile dell’autore dopo la tragica esperienza della Seconda Guerra Mondiale.

Salice piangente - Alle fronde dei salici piangenti
Salice piangente

Giorno dopo giorno

Salvatore Quasimodo è stato un grande poeta, attivo negli anni ’40 del Novecento. Dopo un primo periodo ermetico, con la raccolta del 1942 Ed è subito sera (che contiene l’omonima celebre poesia), l’autore si è dedicato all’impegno civile, che ha caratterizzato tutta la sua produzione successiva.

A questa fase appartiene anche la raccolta Giorno dopo giorno (1947) nella quale è presente la poesia in analisi, Alle fronde dei salici. Egli ha fatto uno grande sforzo per uscire dall’isolamento ermetico nel quale si era racchiuso, proprio per riflettere sulla poesia e sulla sua funzione. La poesia doveva diventare uno strumento che permetteva di dare voce alla sofferenza collettiva. In questa raccolta di Quasimodo le descrizioni sono più realistiche e cambia anche il lessico, che diventa più accessibile.

Alle fronde dei salici: il testo della poesia

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

I versi

La lirica Alle fronde dei salici è un modo che sceglie il poeta per testimoniare la condizione di impotenza dell’uomo nel momento doloroso della guerra. La poesia, costretta a confrontarsi col dolore, può solamente fermarsi e lasciare spazio al lamento della sofferenza.

Essa è formata da 10 endecasillabi sciolti racchiusi in un’unica strofa. Il primo verso inizia con una ripresa del Salmo 136 della Bibbia

[…] Sui fiumi di Babilonia/ là ci sedemmo piangendo / al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre […].

Il poeta parla al plurale, ovvero riferendosi a tutti i poeti della sua generazione, poiché tutti si sentono impotenti di fronte agli orrori della guerra.

Nel secondo verso si trova un riferimento all’occupazione tedesca dell’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

Tra il terzo e il quarto verso continuano i rimandi alla guerra, ai bambini che piangono come gli agnelli.

Dal quinto al settimo viene narrata la scena straziante di una madre che piange la morte del figlio crocifisso al palo del telegrafo (i partigiani catturati dai fascisti spesso venivano puniti in questo modo). Indirettamente si fa riferimento alla crocifissione di Gesù Cristo.

La lirica si conclude con l’immagine dei poeti che appendono la cetra – strumento musicale simbolo della poesia. La cetra viene appesa al salice piangente proprio per rappresentare l’inutilità di essa difronte alla violenza.

Cetra
Una cetra

Parafrasi

Come avremmo mai potuto noi cantare e comporre poesie
con l’occupazione tedesca (straniera) che ci pesava sul cuore
in mezzo ai morti e ai caduti abbandonati nelle piazze
sull’erba resa rigida dal ghiaccio, ascoltando i lamenti
dei bambini, innocenti come agnelli, ascoltando il grido funebre
delle mamme che andavano incontro ai propri figli
crocifissi sul palo del telegrafo?
Sui rami dei salici, per un voto,
Anche le nostre cetre stavano appese
e oscillavano dolcemente al vento portatore di tristezza e dolore.

Analisi del testo

Dal punto di vista formale, la lirica è strutturata in un’ampia interrogativa retorica, che si conclude al verso 7. Il poeta, dopo le scelte ermetiche della prima raccolta, ritorna all’utilizzo di una metrica tradizionale e ad una sintassi più piana.

Le immagini rappresentate hanno un tono realistico: si ricordi l’analogia del v. 4-5 (lamento d’agnello dei fanciulli), la sinestesia del v. 5 (urlo nero) utilizzate proprio per dare maggiore realismo ai soggetti rappresentati.

Dopo la devastante esperienza della guerra, Quasimodo cambia modo di fare poesia. Si allontana dall’Ermetismo oscuro per calarsi nella realtà e tentare di denunciare quanto accaduto.

Foto di Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo

La poesia Alle fronde dei salici è esemplificativa di questo cambiamento di poetica dell’autore. In essa il poeta si espone in prima persona. Qual è la giusta risposta della poesia alla violenza dilagante? È quella rappresentata negli ultimi due versi nella malinconica immagine della cetra appesa ai salici.

In realtà ciò che la poesia deve fare non è solo restare immobile come la cetra, ma deve anche denunciare quanto accade per dare testimonianza delle vittime innocenti. Un grido di dolore profondamente sentito dal poeta e trascritto in questa bellissima lirica.

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Alla sera, poesia di Ugo Foscolo https://cultura.biografieonline.it/alla-sera-foscolo/ https://cultura.biografieonline.it/alla-sera-foscolo/#comments Wed, 22 Feb 2017 13:04:26 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21342 Il sonetto in esame, Alla sera, è uno dei più famosi della produzione di Ugo Foscolo. Venne composto tra la fine del 1802 e l’inizio del 1803. Fu scelto per aprire la serie di dodici sonetti, compresi nelle Poesie dell’autore. È uno dei più importanti e struggenti scritti dal Foscolo perché dedicato all’arrivo della sera, un momento della giornata molto caro al poeta che, nel viverlo, riesce a liberarsi dagli affanni della vita.

Alla sera, Ugo Foscolo

La raccolta Poesie, di Ugo Foscolo

La raccolta Poesie è una delle prime opere della maturità stilistica del poeta. Essa include 12 sonetti e 2 odi, composte tra il 1802 e il 1803. Foscolo, con quest’opera, vuole dare un ritratto di sé stesso a modello del Canzoniere di Petrarca e, soprattutto, delle poesie di Alfieri. Nella raccolta quindi si alternano componimenti più autobiografici, come A Zacinto o In morte del fratello Giovanni (dedicato al tema dell’esilio), con alcuni di riflessione poetica (Alla Musa o Alla sera). Altri invece sono ispirati ad eventi precisi, come quello dedicato alla guarigione dell’amica Antonietta Fagnani Arese (All’amica risanata, ode neoclassica).

Il canzoniere di Foscolo, se così più definirsi, è una raccolta molto importante perché rappresenta un momento fondamentale della sua storia letteraria e umana. E’ come se, in essa, egli stilasse un bilancio della prima parte della sua vita. Foscolo è stato uno scrittore importantissimo all’interno del panorama letterario italiano perché ha saputo fondere, nella sua produzione, elementi neoclassici con temi romantici e idee illuministe, andandosi a collocare proprio nella fase di transizione tra queste correnti letterarie.

Alla sera, testo della poesia

La lirica in esame è un sonetto (due quartine e due terzine) di endecasillabi con schema di rime:

ABAB ABAB CDC DCD

 

Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all’universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Parafrasi

Forse perché sei l’immagine della morte, arrivi a me così gradita, o sera.
Sia quando ti accompagnano le nubi estive e in calmi venti tiepidi, sia quando dal cielo invernale, carico di neve, porti le tenebre sull’universo.

In ogni situazione, sempre sei invocata da me e occupi le zone più segrete del mio animo dandomi dolci sensazioni.

Mi fai errare sulle orme che vanno verso la morte e intanto questo tempo malvagio scorre, e con esso vanno via anche i numerosi affanni in cui quest’epoca si sta logorando insieme con me.

E mentre io contemplo la tua quiete, si placa quello spirito guerriero che rugge nel mio cuore.

Analisi

Alla sera è una rielaborazione del sonetto classico petrarchesco. Nelle quartine vi sono le premesse di ciò che verrà detto nelle terzine.

Nelle due quartine (vv. 1-8) vengono presentate tutte le circostanze che accompagnano l’arrivo della sera: sia che essa arrivi in una stagione calma, sia nella stagione invernale. Qui prevalgono quindi le sensazioni descrittive. Il primo verso, inoltre, inizia con forse, come se il poeta volesse continuare in questo componimento un suo ragionamento iniziato precedentemente.

Nelle due terzine (vv. 9-14) prevalgono invece le sensazioni meditative e riflessive: l’autore racconta gli effetti dell’arrivo della sera nel suo animo. In particolare l’arrivo di questo momento della giornata, in cui riesce finalmente a domare il suo spirito di ribelle, che raggiunge un po’ di quiete.

Dal punto di vista stilistico, è importante notare l’utilizzo delle metafore perché in esse vengono espressi i nodi concettuali più importanti (v. 9: la sera lo fa vagare sulle orme che portano al nulla eterno).

Il sonetto è poi caratterizzato dall’utilizzo di molti enjambements, che spezzano il ritmo dell’endecasillabo (v. 2, v. 3, v. 5, v. 6 etc).

Dal punto di vista del lessico, nel sonetto sono presenti sia parole auliche e termini poetici (imago, aere) sia parole comuni (cara, estive, vieni).

Foto di Ugo Foscolo
Ugo Foscolo

Commento

Il tema centrale della lirica è quindi la contemplazione della pace che porta la sera. Finalmente in quest’ora della giornata il poeta riesce a calmare il suo spirito romantico e a riflettere sulla propria vita. La riflessione diventa poi generale e si sposta sulla vita, sul tempo moderno che è pieno di affanni, come viene qui definito.

Il tema della sera e della sua quiete è un topos letterario, perché utilizzato sin dall’antichità da numerosi autori: per definizione, la sera è infatti il momento della giornata in cui ci si più fermare a pensare. Soprattutto, alla sera si cerca un po’ di pace dopo i problemi affrontati durante la giornata.

Foscolo, a causa della sua vita travagliata, esalta in questo sonetto il suo desiderio di ritrovare la pace spirituale. Essa per lui può essere raggiunta in maniera definitiva solo con la morte, il nulla eterno che, però, non lo spaventa.

L’autore ci regala così un capolavoro della letteratura italiana, improntato su un tema classico ma rivisto in chiave moderna, attraverso l’esaltazione degli ideali illuministi che hanno sempre contraddistinto il pensiero foscoliano.

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Intervista a Stefano Labbia, autore del libro di poesie “Gli orari del cuore” https://cultura.biografieonline.it/stefano-labbia-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/stefano-labbia-intervista/#respond Wed, 28 Sep 2016 09:36:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20052 Stefano Labbia, giovane poeta classe 1984, da poco edito con il suo primo silloge poetico dal titolo “Gli orari del cuore” (Leonida Editrice), è un autore delicato e forte al tempo stesso. I suoi versi graffiano, amano, ruggiscono e colpiscono nel profondo di chi sa coglierli. La sua poesia non ha rime ma ha cuore. E questa sua prima raccolta porta il testimone del suo scrivere, regalando ai lettori momenti di riflessione e di consapevolezza con un’efficacia inaudita, impropria dei poeti contemporanei.

Gli Orari del Cuore - libro di poesie - Stefano Labbia
La copertina del libro “Gli orari del cuore”, raccolta di poesie di Stefano Labbia

Ecco una breve intervista in cui il giovane romano si apre, ci spiega il suo punto di vista sulla poesia e ci dedica un componimento originale sul finale.

Intervista a Stefano Labbia

Grazie per aver accettato questa intervista!

SL: Grazie a Voi!

Cos’è la poesia per Stefano Labbia?

SL: La poesia è vita. E la vita dovrebbe essere fatta tutta di poesia…. Per me è un mezzo, un modo immediato di condivisione, è varia e variabile. Percorre anima e corpo del lettore che la gusta, la assapora, la mormora o la legge in silenzio. Parla di vittorie e sconfitte, è dolce e amara, è seria e satirica. Dà uno schiaffo e porge l’altra guancia. Dà coraggio ed affossa. La poesia è tutto questo e molto altro.

In questo fine millennio, il poeta può dunque ancora avere un ruolo nella società? Ma che cos’è il poeta? Una voce discordante, un profeta del futuro?

SL: Il poeta è un pazzo in un mondo di savi. C’è una splendida battuta, in un vecchio film, densa e che colpisce al cuore perché vera: “Avete bisogno di un pazzo, che vi indichi la strada, che vi dica se state sbagliando!“. Ecco… I poeti sono chiamati a dire sempre la verità, a stimolare con i loro versi i lettori, a sollecitare le coscienze. Ad essere fuori dalla massa. Ad esser “pazzi”. E a metter di fronte alla cruda realtà l’uomo savio ed abituato a ciò che riceve come cibo. Noi siamo gli chef dell’anima, cultori del soul food. La poesia è rinata, dopo anni di buio totale. Buio che era da temere. C’è speranza.

Parlaci della raccolta “Gli Orari del Cuore”.

SL: “Gli Orari del Cuore” è un percorso di vita. Il mio percorso di vita: dall’adolescenza, periodo in cui ho iniziato a comporre e a scrivere liriche e la maturità. Trent’anni. Trent’anni di gioie, vittorie, battaglie, gioie, momenti di riflessione… di certo comuni a tutti. Ho voluto condividerli, ed ho trovato un’ Editore che ha creduto in me come poeta e come persona. Non è facile di questi tempi…

Quali progetti hai in questo momento?

SL: Sto cercando fondi per il mio primo lungometraggio ambientato tra Roma e Milano, una storia molto intima e delicata. C’è già interesse attivo di alcune case di produzione italiane e vorrei accelerare ed entrare in pre produzione entro fine anno. Nel frattempo sto dialogando con alcune produzioni inglesi per una serie tv che ho ideato, un teen drama ambientato a Londra. Ed il mio primo romanzo a breve vedrà la luce.

Ci regali un tuo componimento inedito?

SL: Volentieri!

Amore incondizionato

Se amassi ogni cosa di me,
assaggeresti ciò che ho da darti.
Ignoreresti le mie mancanze,
ameresti le mie incertezze,
adoreresti i miei dubbi.
Le insicurezze, poi,
dovresti solo accarezzarle.
Coccola la parte migliore di me,
bacia la parte peggiore.
Sei felice, nel tuo letto d’odio?
La trapunta di collera che hai tessuto,
ti tiene caldo d’estate e freddo d’inverno?
O il cuore nero
che tutte le nubi nel cielo
ha assorbito,
basta da solo
a far di te una strega?

Grazie per la disponibilità!
SL: Prego! Grazie a Voi!

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La ginestra, poesia di Leopardi https://cultura.biografieonline.it/ginestra-leopardi/ https://cultura.biografieonline.it/ginestra-leopardi/#comments Thu, 11 Aug 2016 10:45:07 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19171 La ginestra o Il fiore del deserto è la lirica che chiude i Canti di Giacomo Leopardi, per una precisa scelta in quanto funge da testamento spirituale dell’autore. E’ stata composta a Torre del Greco, in provincia di Napoli, nel 1836. E’ stata poi pubblicata postuma nell’edizione dei Canti del 1845, curata da Antonio Ranieri.

La Ginestra - fiore - poesia
Una foto del fiore che dà il titolo alla poesia di Leopardi: La Ginestra

Un cenno sui Canti

In questa definitiva edizione, i Canti comprendono 41 liriche che sono state ordinate sia secondo criteri cronologici che tematici. L’opera non si pone in continuità con il Canzoniere di Petrarca perché non è unitaria. E’ ugualmente importante perché è la testimonianza dell’evoluzione del pensiero leopardiano. Per brevità, si possono dividere le liriche in tre grandi gruppi che rappresentano le rispettive fasi della produzione dell’autore.

1818-1823 Piccoli idilli

Leopardi vive la fase del pessimismo storico. L’infelicità è infatti dovuta all’evoluzione storica della civiltà perché l’uomo, col passare degli anni, si allontana sempre di più dalla felicità dello stato naturale.

1828-1830 Grandi idilli

Oppure Canti pisano-recanatesi. E’ questa la fase del pessimismo cosmico. L’infelicità investe tutto e la natura diventa matrigna perché spinge gli uomini a desiderare cose che non possono ottenere (illusioni).

1831-1836 Ciclo di Aspasia e ultime liriche

(Tra cui La ginestra) Sono in polemica con il facile ottimismo e sono ricchi di pensiero filosofico.

La ginestra: il testo

La ginestra o fiore del deserto è quindi il testamento poetico dell’autore. L’unico modo per contrastare il destino così maligno verso gli uomini è quello di comportarsi come la ginestra. Attorno al fiore ruota tutto il componimento. Tale pianta si trova alle pendici del Vesuvio. Essa resiste a tutto e diventa il simbolo di una nuova poesia che auspica la fratellanza tra gli uomini (pessimismo sociale).

Leggi il testo completo della poesia La ginestra.

La canzone è composta da strofe libere di endecasillabi e settenari. Essa si apre con un verso del Vangelo di Giovanni (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce“).

Leopardi polemizza con quelle persone che scelgono di vivere in uno stato di ignoranza (nelle tenebre), non tenendo conto dei mali del mondo. La luce rappresenta quindi la consapevolezza dell’esistenza di tali mali e non va inquadrata dal punto di vista religioso.

Analisi delle strofe

La prima strofa si apre con la descrizione di un paesaggio desolato, quello del Vesuvio. In questo contesto cresce la ginestra con i suoi fiori profumati. Leopardi ricorda che anche tra le rovine dell’antica Roma è possibile sentire l’odore di questa pianta. Con grande sarcasmo, il poeta invita gli ottimisti (coloro che di solito esaltano la condizione degli uomini) a visitare questo paesaggio desolato per capire come la natura non si cura degli uomini.

La strofa termina con un famosissimo verso: “le magnifiche sorti e progressive“. La citazione è chiaramente sarcastica verso chi pensa che gli uomini vivano sereni sulla terra.

Nella seconda strofa il poeta accusa il XIX secolo di aver abbandonato il razionalismo dell’Illuminismo. Per essere invece tornato a credenze religiose ed irrazionali che portano l’uomo verso un gravissimo regresso culturale. Continua inoltre la polemica verso coloro che si illudono che questa sia la migliore epoca che gli uomini abbiano mai vissuto.

Le strofe centrali

Nella terza strofa, il poeta invita gli uomini a prendere atto della triste condizione di infelicità in cui si trovano e soprattutto esalta la solidarietà tra loro. Bisogna infatti stringersi insieme in una social catena (v. 149). Serve lottare contro la natura perché essa è la principale responsabile dei desideri non soddisfatti dell’uomo e della condizione di infelicità nella quale essi si trovano.

La quarta strofa si apre con la contemplazione della volta celeste. Guardando questi spazi immensi, secondo Leopardi, l’uomo sbaglia a credersi al centro dell’universo e quindi pecca di superbia. Egli polemizza quindi anche con la religione (vv. 190-195) che ha creato delle illusioni perché ha spinto l’uomo a pensare che esso sia al centro dell’universo.

La quinta strofa comincia con una similitudine. Il poeta paragona la distruzione del vulcano con la mela caduta dall’albero che uccide un intero popolo di formiche in un solo istante. In tal modo simboleggia l’assoluto disinteresse della natura nei confronti dello stato umano.

Strofe finali

Questa riflessione sulla natura termina nella sesta strofa. Qui viene descritta l’eruzione del Vesuvio di notte con particolari cupi proprio per dimostrare che la vita dell’uomo è molto breve mentre la natura è eterna e minacciosa.

La poesia termina con una strofa finale dedicata alla ginestra. La struttura quindi è perfettamente circolare. Il fiore viene esaltato perché è capace di sottostare al proprio destino senza alzare il capo. E quindi è capace di diventare superbo, senza supplicare il vulcano di risparmiarla. Gli uomini dovrebbero quindi evitare sia la viltà che l’orgoglio e diventare umili ma tenaci come la ginestra per continuare a vivere la loro esistenza in maniera degna.

Commento

Dal punto di vista formale, il poeta abbandona le suggestioni indefinite per adottare una poesia più filosofica e razionale e soprattutto preferisce utilizzare strofe ampie per sviluppare il suo discorso.

La sintassi diventa complessa e articolata con periodi ricchi di subordinate, lo stile diventa quasi quello di una prosa. Prevale anche l’utilizzo di suoni aspri perché il paesaggio rappresentato desolato ed arido e l’utilizzo di pronomi deittici (or, qui, questo etc.). Sono presenti inoltre molte sentenze morali.

La ginestra diventa quindi un modello morale da seguire perché accetta il suo destino senza essere superba e neppure vigliacca: nella sua semplicità sa essere molto più coraggiosa dell’uomo. Leopardi vuole così lasciare il suo messaggio all’umanità.

Egli infatti non è un poeta pienamente pessimista come si può pensare, ma crede fortemente nella solidarietà tra gli uomini, che diventa così il valore più importante per contrastare i mali della vita.

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La ginestra, testo completo della poesia https://cultura.biografieonline.it/ginestra-testo-poesia/ https://cultura.biografieonline.it/ginestra-testo-poesia/#comments Thu, 11 Aug 2016 10:34:15 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19408 Quello che segue è il testo completo della poesia La ginestra, composta da Giacomo Leopardi.

Ginestra
Ginestra: una foto del fiore

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

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