poesia Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 06 Nov 2024 07:57:22 +0000 it-IT hourly 1 In morte del fratello Giovanni: testo, parafrasi, analisi e commento alla poesia di Foscolo https://cultura.biografieonline.it/in-morte-del-fratello-giovanni/ https://cultura.biografieonline.it/in-morte-del-fratello-giovanni/#comments Wed, 06 Nov 2024 05:45:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21576 La poesia In morte del fratello Giovanni è uno dei sonetti più famosi di tutta la produzione di Ugo Foscolo. Il sonetto è stato composto sicuramente dopo la primavera del 1803 ed è dedicato alla morte del fratello del poeta, Gian Dionisio detto Giovanni. Questi si tolse la vita con un pugnale l’8 dicembre 1801 mentre era soldato a Venezia. Giovanni Foscolo, fratello maggiore (nato a Zante il 27 febbraio 1781) di Ugo, scelse di suicidarsi perché aveva pagato un debito di gioco con del denaro sottratto alla cassa dell’esercito. Questo fu un avvenimento molto doloroso per il poeta, che – oltre alla poesia In morte del fratello Giovanni – affronta l’argomento soprattutto nel suo epistolario.

Ugo Foscolo - Poesie

La raccolta Poesie

La lirica fa parte della raccolta di poesie dell’autore, che sono state pubblicate in un’edizione definitiva nel 1803.

Le Poesie raccolgono dodici sonetti e due odi, composte tra il 1798 e il 1803, e restituiscono ai lettori un ritratto dell’autore.

Tra i componimenti più noti vi sono:

I sonetti sono notevolmente autobiografici, mentre le due odi neoclassiche (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata) si discostano dalla vena personale.

Una parte importante della raccolta è rappresentata dai 12 sonetti, che mettono in luce l’animo tormentato dell’autore e i suoi pensieri.

Ugo Foscolo rinnova completamente la forma del sonetto, inserendovi tematiche lontane dalla tradizione metrica e stilistica precedente.

Nella lirica in esame l’autore inserisce il tema dell’esilio e della morte, vista nei suoi risvolti più tristi.

In morte del fratello Giovanni è un sonetto di endecasillabi, che segue lo schema di rime:

ABAB ABAB CDC DCD

In morte del fratello Giovanni, testo completo

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente, mi vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
Il fior de’ tuoi gentili anni caduto:

La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo;
E se da lunge i miei tetti saluto,

Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta;
E prego anch’io nel tuo porto quiete:

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
Allora al petto della madre mesta.

Parafrasi

Un giorno, se non andrò sempre vagando
di popolo in popolo,
mi vedrai seduto sulla tua tomba,
o fratello mio, piangendo il fiore reciso della tua giovinezza.

Solo adesso la madre, portando con sé i giorni della sua vecchiaia (suo dì tardo),
parla di me con il tuo corpo silenzioso,
ma io tendo invano verso di voi le mie mani
e solo da lontano saluto la mia patria.

Sento le avversità del destino e i travagli dell’animo
che hanno provocato la tempesta nella tua vita,
e anche io prego di poter raggiungere la quiete del tuo porto (la morte).

Solo questo mi rimane oggi di tutta speranza!
O genti straniere, restituite al cuore di mia madre triste
almeno le mie ossa.

Analisi

La struttura del sonetto è ben definita. Nella prima quartina vengono introdotti subito i due temi principali: l’esilio e la morte dell’amato fratello.

Nella seconda quartina viene introdotto il terzo personaggio della lirica: la madre che piange per la morte del figlio.

Nella prima terzina il poeta esprime tutti i suoi affanni e le pene del suo animo.

Nella seconda terzina egli rovescia la visione negativa della morte, che diventa così un luogo di pace, che il poeta vuole raggiungere.

Il modello a cui si ispira Foscolo è il Carme 101 di Catullo. I primi versi corrispondono ad una perfetta traduzione dei versi del poeta latino (traduzione del carme di Catullo: “Condotto per molte genti e molti mari, sono giunto a queste tue tristi spoglie, o fratello“). Foscolo, però, non si limita a copiare o citare i versi di Catullo, ma li reinterpreta in chiave moderna, aggiungendovi maggiore pathos e sentimento, perché dubita che possa mai tornare sulla tomba del fratello.

Dal punto di vista stilistico, bisogna ricordare: i numerosi enjambements che spezzano i versi (v. 1-2, v. 2-3., v. 3-4 etc.) sia nelle due quartine che nelle due terzine, la rima in gerundio (fuggendo-gemendo v. 1-3) e l’utilizzo di questo modo verbale anche in altri versi della poesia (v.5).

È presente, inoltre, il latinismo “cenere” al verso 6 e un utilizzo accentuato dei pronomi personali.

Foto di Ugo Foscolo, In morte del Fratello Giovanni
Ugo Foscolo

Commento

Il sonetto In morte del fratello Giovanni è uno dei più intensi della produzione dell’autore.

Qui Ugo Foscolo mette in evidenza il tema dell’esilio, che provocherà sempre un dolore in lui. Evidenzia anche il valore della tomba, che sarà poi approfondito nel carme Dei sepolcri.

Spicca però l’importanza della famiglia: questo è il valore che consola il poeta, in particolare la figura della madre, che crea una connessione tra lui e il fratello morto.

Si tratta di un sonetto intenso e struggente, nel quale Foscolo utilizza il tema della morte del fratello Giovanni per esprimere il dolore per il suo esilio e i suoi affanni.

Questa poesia rappresenta non solo un lamento funebre per la morte del fratello, ma anche una riflessione più ampia sulla condizione umana e sull’esilio. La distanza fisica dalla tomba del fratello diventa metafora della distanza esistenziale che separa i vivi dai morti.

Dal punto di vista letterario vi sono 3 elementi innovativi:

  1. La fusione tra elemento autobiografico e riflessione universale.
  2. L’intreccio tra dolore personale e condizione storica.
  3. La modernità della riflessione sulla solitudine dell’individuo.

La perfezione formale del sonetto si fonde con l’intensità emotiva del contenuto, creando un equilibrio magistrale tra forma e sostanza.

Il tema dell’esilio, così centrale nella vita di Foscolo, si intreccia qui con il dolore per la perdita del fratello, creando un doppio livello di separazione: quella fisica dalla patria e quella esistenziale dalla persona amata.

Il componimento rappresenta uno dei momenti più alti della lirica foscoliana, dove l’esperienza personale si trasforma in poesia universale.

Foscolo riesce di fatto a trasformare un evento tragico personale in una riflessione universale sulla condizione umana.

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X Agosto: analisi della poesia di Giovanni Pascoli https://cultura.biografieonline.it/x-agosto-san-lorenzo-parafrasi/ https://cultura.biografieonline.it/x-agosto-san-lorenzo-parafrasi/#comments Thu, 10 Aug 2023 08:58:17 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8989 10 agosto

Il X Agosto di Pascoli è una poesia dedicata al padre del poeta, morto nel 1867, il 10 agosto. Giorno questo in cui si festeggia San Lorenzo ed è quello in cui si verifica il fenomeno delle stelle cadenti. In questa poesia Giovanni Pascoli descrive oltre al fenomeno delle stelle cadenti, anche l’uccisione di una rondine, che stava per portare il cibo al nido.

X Agosto, San Lorenzo
Il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, è il momento dell’anno in cui più è probabile osservare nitidamente le stelle cadenti

E l’uccisione del padre, che stava portando due bambole a casa. Conclude prendendosela con il cielo che non dà alcun aiuto all’uomo, non una lue che illumini il suo doloroso cammino.

Testo completo della poesia

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

Parafrasi e analisi

San Lorenzo, io lo so il perché di quel pianto di stelle sfavilla nel cielo. Questa è la trasposizione di un fenomeno naturale che ha un significato più profondo: la legge di sofferenza, d’ingiustizia e di morte. Ritornava una rondine al suo nido e l’uccisero: cadde tra gli spini: aveva nel becco la cena per le sue rondini. La morte della rondine prefigura quella dell’uomo.

Rondine
Una rondine: come spiegato nella parafrasi, questo uccello è usato simbolicamente nella poesia di Giovanni Pascoli

La rondine abbattuta ha le ali aperte come se fosse in croce; e sembra richiamare il sacrificio di Cristo. La rondine uccisa tende quel verme al cielo inaccessibile; e il suo nido è nell’ombra della sera e il pigolio dei rondinini diminuisce lentamente nel languore dell’agonia.

Anche un uomo tornava a casa (il padre del poeta, ma Pascoli non lo nomina): l’uccisero; disse:Perdono; resta negli occhi sbarrati un grido: portava due bambole in regalo…

Ora là nella casa solitaria, lo aspettano invano: egli è immobile, attonito, e anch’egli, come la rondine, ha quel gesto di disperata protesta verso il cielo lontano e impassibile. E tu, cielo infinito, immortale, inondi la terra, atomo sperduto e dominato dal male, di un pianto di stelle.

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Ed è subito sera: analisi e commento alla poesia di Quasimodo https://cultura.biografieonline.it/subito-sera/ https://cultura.biografieonline.it/subito-sera/#comments Wed, 21 Jun 2023 07:13:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17290 Il poeta italiano Salvatore Quasimodo (1901-1968) appartiene al filone dei cosiddetti “poeti ermetici”. Le sue liriche sono infatti caratterizzate dalla tendenza a racchiudere in pochi versi spesso oscuri grandi principi e temi cari all’essere umano (ad esempio, uno degli argomenti preferiti dagli appartenenti alla corrente dell’Ermetismo è la solitudine dell’uomo moderno, che ha perso ogni punto di riferimento e proprio per questo rischia di cadere nella disperazione).

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.
Ognuno sta solo sul cuor della terra | trafitto da un raggio di sole: | ed è subito sera. • Semplice, breve ed intenso è il testo della celebre poesia di Salvatore Quasimodo. È uno dei più celebri esempi di poesia ermetica.

Quasimodo e l’Ermetismo

La poesia ermetica, di cui Quasimodo è uno dei massimi esponenti italiani, è chiamata anche neosimbolista, ed è una poesia per lo più libera dalle forme metriche tradizionali, che rifiuta gli schemi classici del Romanticismo ed è avulsa da qualunque finalità celebrativa. Secondo Quasimodo e tutti i poeti ermetici anche il poeta, in quanto uomo, non ha più certezze e non può ancorarsi ai miti del passato, in quanto la società sta cambiando rapidamente.

Gli autori di liriche che si collegano al filone ermetico vanno piuttosto alla ricerca di parole e termini scarni, essenziali, che possano descrivere le emozioni e gli stati d’animo senza fronzoli o inutili ridondanze. Un tema che ricorre spesso nelle poesie ermetiche è il confronto tra la realtà (che delude e provoca frustrazione) e i sogni che fanno vivere l’uomo nell’illusione. Una delle poesie più note di Quasimodo si intitola “Ed è subito sera” ed è composta da tre versi soltanto.

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

In realtà inizialmente la lirica era più lunga e si intitolava “Solitudini” (sul sito Aforismi.meglio.it il testo completo), poi il poeta l’ha resa più ermetica possibile riducendola in tre versi. La poesia è una istantanea sulla condizione esistenziale che accomuna ogni uomo che vive sulla Terra: ognuno è solo e deve faticare a vivere essendo consapevole della brevità dell’esistenza.

Ed è subito sera: analisi e commento alla poesia

Nel primo verso il poeta introduce la frase “nel cuor della terra” per esaltare lo stato d’animo dell’uomo che si sente smarrito e incapace di affrontare le difficoltà della vita. Ciò che più gli pesa è l’incapacità di comunicare con i suoi simili, che lo condanna all’ isolamento rendendo l’esistenza ancora più triste e penosa.

Nel secondo verso è come se il poeta voglia dare un segno di speranza introducendo l’immagine di un individuo che viene “trafitto da un raggio di sole”.

In realtà, con questa stupenda analogia, Quasimodo vuole evocare l’esistenza umana che oscilla continuamente tra l’attesa della felicità e il dolore. Il raggio di sole trafigge l’uomo, in quanto la speranza di essere felice cede subito il posto alla cocente delusione.

Il terzo versoed è subito sera” è la metafora della morte, contro cui si infrangono tutte le illusioni degli uomini.
La stessa metafora ricorda la celebre frase di San Giovanni della Croce:

Alla sera della vita ciò che conta è aver amato.

Il tema

Il tema principale affrontato da Quasimodo in questa lirica brevissima ma densa di significato è la brevità della vita: l’esistenza umana si rivela troppo esigua rispetto a quello che un individuo potrebbe realizzare. L’argomento è molto attuale, soprattutto lo è nel periodo storico in cui l’autore scrive questi versi, caratterizzato dal progressivo avanzare delle macchine che si sostituiscono al lavoro dell’uomo. “Ed è subito sera” è la poesia di Quasimodo che apre la raccolta che porta lo stesso titolo, ed è stata pubblicata nel 1943.

La solitudine

Nella lirica in questione esiste una correlazione tra la solitudine del singolo e quella dell’umanità intera: per Quasimodo l’uomo è solo quando è privo di amore, così come è sola l’umanità quando non ha l’amore di Dio. Il linguaggio utilizzato nella lirica è semplice e diretto, arriva dritto al cuore di chi legge, senza inutili giri di parole o l’utilizzo di aggettivi, il tono è malinconico e intriso di pessimismo.

Come spiegano alcuni commentatori letterari, nel giro di soli tre versi Salvatore Quasimodo riesce a spiegare la parabola della vita umana. Il dolore di vivere, la solitudine, la precarietà dell’esistenza sono sapientemente sintetizzati nei tre versi della poesia come soltanto un esperto poeta ermetico saprebbe fare.

La guerra e il dolore

È probabile che questa lirica sia stata scritta per evocare gli orrori del Secondo Conflitto Mondiale. Lo stesso Quasimodo, in un’opera pubblicata nel 1946, ha dato un’interpretazione di questo tipo ai versi della breve poesia.

L’uso di immagini scarne e crude serve al poeta per trasmettere la sua visione di un mondo che va lentamente verso il declino, e la guerra non è che una dolorosa conseguenza di ciò. L’esperienza individuale riesce a fondersi con quella collettiva, con lo sradicamento dell’io che diventa un noi. Il dolore, la sofferenza e la morte sono momenti condivisi dall’intero genere umano.

La sensazione del dolore comune rende questi versi ancora più forti e diretti: ognuno può riconoscersi nelle parole di Quasimodo e confrontarsi con il male di vivere, che purtroppo rappresenta l’altra faccia del progresso.

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Lavandare, analisi, parafrasi e commento alla poesia di Pascoli https://cultura.biografieonline.it/lavandare-pascoli/ https://cultura.biografieonline.it/lavandare-pascoli/#comments Wed, 24 May 2023 07:14:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18565 Il componimento “Lavandare” viene inserito da Giovanni Pascoli solo nella terza edizione di Myricae (1894) e fa parte della sezione L’ultima passeggiataMyricae è stata la prima raccolta del poeta ed ha avuto una vicenda editoriale piuttosto complessa. Una prima edizione, composta da sole 22 liriche, venne pubblicata nel 1891 in occasione del matrimonio di un amico. Negli anni successivi il poeta ampliò il corpus delle liriche fino ad un totale di 156 e l’edizione definitiva fu quella del 1900.

Lavandare - testo della poesia di Giovanni Pascoli

Il titolo è in latino ed indica la pianta delle tamerici (piccoli arbusti della macchia mediterranea): il poeta lo ha ricavato da un verso delle Bucoliche di Virgilio che recita:

non omnes iuvant arbusta humilesque myricae
(non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici).

Pascoli rovescia però questa negazione e dedica la sua raccolta di poesie proprio ad una pianta umile e semplice perché vuole dare spazio alla descrizione delle piccole cose di campagna. La raccolta comprende 15 sezioni e prevalgono i testi brevi, come Lavandare. Per quanto riguarda i temi, Myricae può considerarsi una sorta di diario ricco delle impressioni del poeta e quindi un romanzo autobiografico: predominano quindi il tema della morte del padre, del paesaggio che diventa il simbolo della condizione interiore.

Lavandare: il testo

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.

Parafrasi

Nel campo che è per metà arato per metà no
c’è un aratro senza buoi che sembra
dimenticato, in mezzo alla nebbia.

E scandito dalla riva del fiume si sente
il rumore delle lavandaie che lavano i panni,
sbattendoli, e lunghe cantilene:

Il vento soffia e ai rami cadono le foglie,
e tu non sei ancora tornato!
da quando sei partito sono rimasta
come un aratro abbandonato in mezzo al campo.

Analisi della poesia

Lavandare è un madrigale, composto da due terzine e una quartina di endecasillabi con rime ABA CBC DEDE.

La lirica descrive le sensazioni del poeta che, mentre i campi sono avvolti dalla nebbia, sente in lontananza i suoni provenienti dal lavatoio e i lunghi canti delle lavandaie. Nella prima strofa viene descritto un campo immerso nella nebbia su cui spicca un aratro abbandonato. Dominano i colori spenti: il campo viene descritto infatti come mezzo grigio e mezzo nero.

Nella seconda strofa viene descritto il rumore dei panni che vengono lavati nell’acqua e il canto delle lavandaie. Qui prevalgono le sensazioni uditive (suono dei panni, il canto triste, il tonfo).

Nella terza strofa viene riportata la canzone cantata dalle lavandaie che parla di una giovane donna abbandonata dall’innamorato e che è rimasta sola come l’aratro in mezzo al campo. La lirica è quindi circolare: si apre e si chiude con l’immagine- simbolo dell’aratro abbandonato che rappresenta la solitudine. Questa scena descritta nella poesia serve proprio a trasmettere la sensazione di abbandono e malinconia che rinvia proprio al poeta stesso: egli si sente abbandonato dai suoi cari perché è rimasto orfano del padre e la sua vita è stata funestata da una serie di lutti. Il paesaggio diventa quindi un simbolo per raccontare il proprio stato d’animo.

La poesia Lavandare si caratterizza per il ritmo lento, quasi da cantilena, l’utilizzo di molte allitterazioni (v. 8 tu non torni, v. 10 in mezzo alla maggese) di rime interne (v. 5 sciabordare-lavandare).  Importante l’utilizzo transitivo del verbo nevicare al verso 7: il ramo fa cadere le foglie come fossero fiocchi di neve.

Giovanni Pascoli
Una foto di Giovanni Pascoli

È presente anche una similitudine al verso 10 come paragone tra la ragazza abbandonata e l’aratro in mezzo al campo.  Questa rappresentazione della natura in una delle liriche più lette del Pascoli aiuta il lettore a percepire la sensazione di vuoto e abbandono, sempre presente nell’animo del poeta, come una ferita mai sanata.

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Amai, poesia di Saba: analisi, commento e parafrasi https://cultura.biografieonline.it/amai-poesia-saba/ https://cultura.biografieonline.it/amai-poesia-saba/#respond Wed, 10 May 2023 09:05:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18149 La poesia “Amai” rappresenta il manifesto della poetica del suo autore, Umberto Saba. Questa poesia fa parte della sezione Mediterranee (1946) del Canzoniere di Saba, opera che racchiude tutti i suoi componimenti poetici. L’autore scelse questo titolo proprio per ricollegarsi alla poetica degli autori classici della letteratura (in primis Petrarca) e prendere le distanze dalla poesia ermetica e difficile da comprendere che si stava diffondendo in quegli anni.

Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo. Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Amo te che mi ascolti e la mia buona carta lasciata al fine del mio gioco.
Amai

Canzoniere

Il Canzoniere venne pubblicato nel 1961 nell’edizione definitiva, diviso in tre volumi. Il tema centrale è la scissione dell’io, la divisione in due parti della personalità del poeta, che trova le sue origini proprio nell’infanzia (altro tema centrale della raccolta insieme all’eros – passione amorosa e l’amore per la moglie Lina).

In quest’opera Saba rifiutò la poesia troppo artificiosa e ricercata, per questo scelse di praticare una poesia fatta di chiarezza e soprattutto di onestà, parola chiave della sua poetica.

Il testo in esame, la poesia “Amai“,  è infatti la dichiarazione nella quale il poeta afferma i caratteri della sua poesia: sceglie un lessico apparentemente banale e semplice ma, proprio per questo, adatto a descrivere la vita degli uomini, con i suoi turbamenti.

Amai : testo della poesia

Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

Parafrasi

Amai parole consuete, convenzionali e consunte, che nessun poeta
osava più utilizzare. Mi piacque particolarmente
la rima “fiore – amore”,
la più antica e difficile al mondo.
Amai la verità che si trova in fondo all’animo umano,
quasi un sogno dimenticato, che – tuttavia – il dolore
riscopre essergli amica. Il cuore con timore
le si accosta, ma una volta scoperta non l’abbandona più.
Amo te che mi ascolti e amo la mia poesia,
lasciata come una carta vincente alla fine del mio gioco.

Analisi e commento

Il componimento è costituito da tre strofe di diversa lunghezza (due quartine e un distico) formate per la maggior parte da versi endecasillabi (tranne al verso 3: amore, un trisillabo). Sono presenti molte rime baciate : fiore- amore, mondo- fondo, dolore-cuore, abbandona-buona.

La prima strofa inizia proprio con la parola amai, che diventa il titolo della poesia e introduce gli argomenti che il poeta vuole utilizzare per i suoi componimenti (trite parole che non uno osava, ossia le parole già utilizzate dalla tradizione poetica). Importante è il ruolo della parola amore, che viene messa in evidenza perché rappresenta il centro della poesia stessa: la rima fiore-amore viene definita dal poeta la più difficile da usare ma anche la più antica di tutte. Egli infatti sceglie di utilizzare un lessico già ampiamente sfruttato dai poeti precedenti ma non vuole correre il rischio di banalizzare i suoi componimenti.

All’inizio della seconda strofa torna la parola amai, in anafora: il poeta dichiara di amare la verità che si trova a fondo delle cose umane e viene spesso dimenticata come un sogno. Il cuore le si accosta con paura perché la verità, una volta scoperta, non lo abbandonerà più.  La poesia svolge quasi una funzione terapeutica nei confronti del dolore: è meglio scoprire ciò che a volte si cerca di non vedere perché troppo doloroso, piuttosto che vivere nell’oblio.

L’ultimo distico è un appello al lettore: amo te, lettore, e la mia buona poesia lasciata alla fine del mio gioco. Per Saba è come se il destino fornisse agli uomini delle carte e bisogna saper giocare la propria fino alla fine. Il suggerimento del poeta è quindi quello di vivere la vita fino in fondo, nonostante la verità riemersa e il dolore.

Saba dichiara quindi il proprio amore verso il lettore e soprattutto la soddisfazione di essere riuscito a creare una poesia onesta. La conclusione è quindi tutta improntata a ristabilire il valore della propria poetica e soprattutto a credere fortemente nella comunicazione con i suoi lettori.

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Ulisse, poesia di Saba: spiegazione, testo e commento https://cultura.biografieonline.it/ulisse-saba/ https://cultura.biografieonline.it/ulisse-saba/#comments Mon, 08 May 2023 08:33:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20414 La poesia Ulisse è l’ultima della sezione Mediterranee, presente nel Canzoniere, la raccolta completa di liriche di Umberto SabaUlisse è stata composta tra il 1945 e il 1946 e pubblicata nel 1948. Con essa, Saba si ricollega al tema del viaggio, rivisto in chiave unica e personale, lasciando ai lettori una sorta di testamento spirituale.

Ulisse Saba poesia - Nella mia giovinezza ho navigato

Con il Canzoniere Saba decise di unificare tutta la sua produzione per lasciare ai lettori una sua autobiografia in versi. Un esperimento lontano dalla nuova poetica ermetica, che si collega invece direttamente alla tradizione letteraria italiana. Il Canzoniere è stato pubblicato per la prima volta nel 1921, per un totale di cinque edizioni. L’ultima, quella postuma, è del 1961.

È diviso in tre volumi di 26 sezioni: la poesia Ulisse si trova nel terzo volume, che comprende i testi dell’edizione postuma scritti tra il 1933 e il 1954 ed è divisa in quattro sezioni (Parole, Ultime cose, Mediterranee, Quasi un racconto). Il Canzoniere include sia tematiche familiari sia soprattutto l’analisi del proprio io rappresentata nel rapporto del poeta con la realtà. Inoltre, il poeta ritorna all’utilizzo di una metrica tradizionale, rifiutando le sperimentazioni e scegliendo di pubblicare una poesia onesta.

Umberto Saba - Il canzoniere
Umberto Saba – Il canzoniere

Ulisse: analisi della poesia

La lirica in esame è formata da una strofa di 13 endecasillabi sciolti. È intitolata all’eroe dell’Odissea, Ulisse. Il personaggio della mitologia greca diventa l’espediente per raccontare la giovinezza del poeta, trascorsa sugli isolotti delle coste dalmate, lavorando come mozzo in un mercantile.  L’elemento autobiografico viene subito trasfigurato e diventa il simbolo di considerazioni più generali riferite alla vita.

Nei primi nove versi il poeta racconta della sua navigazione per le coste della Dalmazia (regione della Croazia). Gli isolotti vengono descritti con molti dettagli. Su di essi sostavano gli uccelli, erano coperti di alghe e scivolosi al tatto, il verde conferiva loro il colore degli smeraldi. Quando erano coperti dalla marea, le navi si muovevano dalla parte opposta proprio per sfuggire dal pericolo di urtarci contro.

Dal verso nove in poi la narrazione si sposta al periodo della vecchiaia del poeta. Il suo regno non è più quello del mare ma è una terra dove nessuno osa avventurarsi perché piena di pericoli.

Ulisse: il testo della poesia

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

I temi e lo stile della poesia

Come si è potuto notare, la lirica può essere divisa in due parti, che si riconoscono anche dall’utilizzo dei tempi verbali. Il passato per la prima parte; il presente per la seconda.

Nella prima parte il poeta paragona le sue avventure giovanili a quelle di Ulisse, eroe mitologico protagonista dell’Odissea che però non viene mai nominato apertamente.

Nella seconda parte, introdotta dall’avverbio “oggi” al verso 9, il poeta è ormai vecchio e non si accontenta più di raggiungere il porto ma vorrebbe viaggiare ancora. Vorrebbe spingersi al largo proprio come fa l’Ulisse dantesco (nel XXVI canto dell’Inferno) che parte per l’ultimo viaggio senza fare più ritorno.

Umberto Saba con la moglie Lina
Umberto Saba con la moglie Lina

Il tema dominante della poesia è quello del viaggio come metafora della vita. Gli isolotti verde smeraldo rappresentano anche delle insidie di notte: sono i pericoli della vita. L’arrivo al porto rappresenta una quiete che però non interessa al poeta. Egli invece vorrebbe spingersi a conoscere nuove sponde. Si ricollega quindi sia alla tradizionale visione dell’Ulisse omerico, che ritorna ad Itaca alla fine del travagliato viaggio di ritorno a casa, sia all’Ulisse dantesco che decide di sfidare gli dei per oltrepassare le colonne d’Ercole senza fare mai più ritorno.

Si può notare anche un altro rimando letterario al verso 12 con l’accenno al “non domato spirito”. Esso richiama alcuni versi di Ugo Foscolo (Alla sera e A Zacinto).

Lo stile della poesia è classico. Sono presenti molti enjambements (v. 2, v. 5, v. 6, v. 7, v. 9, v. 10, v. 11) ma vi sono poche rime, bilanciate con le molte assonanze e rime interne. Il lessico è quotidiano, fatta eccezione per alcuni arcaismi, come il termine “giovanezza” al v. 1.

Nel complesso la lirica Ulisse è l’espressione dello spirito vitale del poeta Umberto Saba che, sebbene sia ormai anziano, continua a provare un grande amore per la vita, nonostante tutte le sofferenze che ha vissuto nel corso della sua esistenza.

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Desolazione del povero poeta sentimentale: poesia di Corazzini https://cultura.biografieonline.it/desolazione-poeta-sentimentale-corazzini/ https://cultura.biografieonline.it/desolazione-poeta-sentimentale-corazzini/#respond Sun, 08 Jan 2023 17:46:33 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40849 In questo articolo analizziamo la poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale”, di Sergio Corazzini. Egli fa parte del gruppo dei poeti crepuscolari (come Guido Gozzano e Marino Moretti), attivi in Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Essi praticavano una poesia molto diversa rispetto a quella del poeta-vate di D’Annunzio e al fanciullino di Pascoli (si vedano: le opere di D’Annunzio e la poetica di Pascoli). I crepuscolari mettevano al centro  le piccole cose quotidiane, non volevano più trasformarle in cose sublimi; vivevano la vita con distacco e ironia fino a definirsi “non poeti”.

Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta (Desolazione del povero poeta sentimentale)
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta.

L’autore: Sergio Corazzini

Corazzini nacque a Roma il 6 febbraio 1886 da una agiata famiglia borghese. Fu il primo di tre fratelli, tutti morti giovanissimi.

Visse la sua infanzia in giro per l’Italia ma fu costretto ad abbandonare gli studi nel 1904 per trovare un impiego.

Nel frattempo però continuò a scrivere e nel 1902 pubblicò le sue prime poesie in dialetto romanesco.

Sergio Corazzini divenne un punto di riferimento nel gruppo degli intellettuali romani; trascorreva con loro le serate discutendo spesso di poesia insieme a Govoni, Folgore e Martini.

Nel 1905 fondò insieme agli amici la rivista «Cronache latine» che però non ebbe molto successo. Nel 1906 venne ricoverato per tubercolosi, provò a curarsi ma purtroppo senza successo, morì infatti giovanissimo a Roma il 17 giugno 1907, all’età di soli 21 anni.

Tra le sue opere ricordiamo le raccolte poetiche:

  • Dolcezze (1904 – composta da 17 liriche);
  • L’amaro calice (1905 – 10 liriche);
  • Piccolo libro inutile (1906 – 8 liriche): è la raccolta più famosa che comprendeva anche alcuni componimenti dell’amico Alberto Tarchiani.

Tutta la sua produzione fu poi ristampata postuma col titolo Liriche (1922).

Sergio Corazzini
Sergio Corazzini

La poetica di Corazzini

Sergio Corazzini fa parte dei poeti crepuscolari in quanto la sua poesia è concentrata sulle piccole cose della vita. Inoltre anche lui nega il fatto di essere un poeta. Egli si descrive come un fanciullo malato che non può essere chiamato poeta, che purtroppo non riesce a godere delle cose della vita perché non ha prospettive future.

I suoi versi esprimono tanta malinconia, si articolano poi liberi cioè senza rime, in linea con la nuova tradizione del Novecento.

I poeti crepuscolari rappresentano la malattia e il crepuscolo, cioè il tramonto della poesia che si rivela inutile di fronte alla mutevolezza della vita; non riesce più a dare insegnamenti o messaggi al prossimo come accadeva nel passato. Si pone in antitesi rispetto a quella dannunziana che era bella ma secondo loro “inutile”.

Il testo: Desolazione del povero poeta sentimentale

I

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII

Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

Spiegazione e commento

Questa lirica da parte della raccolta Piccolo libro inutile, pubblicata nel 1906: è la più famosa dell’autore. Essa rappresenta il momento più significativo della sua poesia perché racchiude tutte le tematiche più importanti. I versi sono liberi e divisi in 8 strofe.

Tra le tematiche più importanti c’è la rinuncia ad essere poeta, che viene espressa direttamente già nel verso 2: la poesia non regala più insegnamenti e l’artista non è più un eroe, è semplicemente una persona che si ritira nel suo mondo.

Poi si passa alla tematica del voler rimanere fanciullo: il poeta è come un bambino che soffre per la sua pena e non riesce a trovare una soluzione per essa.

Infine la tematica della malattia: egli non intende solo la malattia fisica, ma soprattutto quella mentale. Si sente infatti inadatto e inadeguato a vivere il presente.

La poesia Desolazione del povero poeta sentimentale è strutturata in forma di dialogo con un tu immaginario, che in realtà è il poeta stesso.

I versi sono molto lunghi, quasi vicini alla prosa.

L’autore spesso si rivolge a Dio con delle invocazioni e la poesia diventa una sorta di preghiera.

In conclusione: gli autori crepuscolari dovrebbero essere maggiormente studiati perché segnano la fase di passaggio dalla poesia ottocentesca a quella novecentesca introducendo molte tematiche che saranno sviluppate dai poeti successivi.

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Novembre: parafrasi della poesia di Giovanni Pascoli https://cultura.biografieonline.it/novembre-parafrasi/ https://cultura.biografieonline.it/novembre-parafrasi/#respond Sat, 05 Nov 2022 07:02:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8906 La poesia intitolata Novembre di Giovanni Pascoli venne pubblicata nel 1891. In questa opera il Pascoli descrive una giornata d’autunno.

Novembre, la poesia

Dall’incipit gioioso si passa poi a versi di tristezza: c’è l’illusione di una bella giornata primaverile o addirittura estiva, ma poi il poeta tratteggia i particolari di una giornata autunnale: il pruno secco, le foglie che cadono dagli alberi. Parla, infatti, del periodo che va dal 2 novembre, giorno dei morti, alla settimana, cosiddetta estate di San Martino.

Albicocchi in fiore - Van Gogh
Albicocchi in fiore, quadro di Vincent van Gogh

Incipit e testo completo

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

(Continua a leggere il testo completo della poesia)

Parafrasi

L’aria è limpida e fredda come una gemma, il sole è talmente spendente che tu cerchi gli albicocchi in fiore e senti nel cuore il profumo amaro del biancospino.

Il desiderio di primavera svanisce con la visione non del biancospino fiorito ma del pruno secco, il cielo sereno appare ora solcato dai rami nudi e oscuri degli alberi, il terreno è duro, compatto e risuona sotto il piede.

Intorno c’è silenzio: solo, ai soffi del vento, senti lontano, dai giardini e dagli orti, le foglie che cadono dal ramo morte. Rumore che è avvertito più che dai sensi, dall’anima.

È il giorno dei morti: il periodo che va dal 2 novembre all’11, l’estate di San Martino.

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Dei Sepolcri, analisi dell’opera di Ugo Foscolo https://cultura.biografieonline.it/dei-sepolcri/ https://cultura.biografieonline.it/dei-sepolcri/#comments Wed, 26 Oct 2022 11:33:00 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18433 Il poemetto Dei Sepolcri è stato scritto e stampato all’inizio del 1807, a seguito dell’incontro tra Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte avvenuto nell’estate dello stesso anno. Si tratta di una delle opere più compatte e definitivamente concluse dell’autore. L’idea di scrivere questo carme nacque probabilmente a seguito di una discussione avuta con lo stesso Pindemonte e con la contessa Isabella Teotochi Albrizzi sul tema della sepoltura.

Dei Sepolcri
Dei Sepolcri è un carme di Ugo Foscolo del 1807 – Carme: componimento poetico volto a interpretare o esaltare liricamente un fatto, una consuetudine, un costume o una persona.

Contesto storico

In quel tempo, infatti, in Italia era stato esteso l’Editto di Saint Cloud (1804) emanato da Napoleone (così nacque anche l’oggi celebre cimitero di Père-Lachaise di Parigi): esso prevedeva che le sepolture venissero poste al di fuori delle mura della città, per motivi igienici, e che tutte le tombe dovevano essere uguali, per conformarsi all’eguaglianza sociale dominante con l’Illuminismo. Ciò provocò grandi discussioni tra gli intellettuali sul valore della tomba: tra queste si inserisce il carme Dei Sepolcri di Foscolo, sulla scia di uno simile che aveva composto Pindemonte sull’importanza dei cimiteri.

Le anguste case e i bassi e freddi letti
Ove il raggio del sol mai non penètra…
I cimiteri, INCIPIT

Ippolito Pindemonte
Ippolito Pindemonte

Ugo Foscolo, pur avendo appoggiato inizialmente le teorie meccanicistiche dell’Illuminismo, ribadisce in quest’opera il valore della tomba, accostandosi così al Preromanticismo e contestando violentemente l’editto in questione.

Dei Sepolcri: analisi

Ciò che contraddistingue il carme non è tanto il tema, comune ai movimenti preromantici che si stavano diffondendo in Europa in quel tempo, quanto piuttosto la struttura: Foscolo segue argomentazioni serrate e attualizza l’opera.

Dei Sepolcri è un’opera costituita da 295 endecasillabi sciolti e possono essere suddivisi in quattro parti, come indicato dallo stesso autore. In un altro articolo su questo sito è possibile trovare il testo completo “Dei Sepolcri”.

Prima parte

La prima parte (vv. 1-90) affronta il tema dell’utilità della tomba e dei riti funebri. La tomba, da un punto di vista materialista, non è importante ma diventa una corrispondenza di amorosi sensi. Essa ha un forte valore affettivo per le persone care che ricordano il defunto. Quando i vivi si recano sulla tomba dei loro cari avvertono ancora un collegamento con essi. Per questo trovano un momento di pace per l’animo.

Il tema della tomba e della corrispondenza tra vivi e morti era già stato affrontato da Foscolo nei Sonetti. In particolare In morte del fratello Giovanni, nel quale ricorda il fratello e immagina di parlare con lui e visitare la sua tomba. Il sepolcro quindi è fondamentale per la sopravvivenza dei vivi, che possono trovare conforto al proprio dolore.

Seconda parte

La seconda parte (vv 91-150) è dedicata ad una ricognizione di tutte le concezioni della morte nel corso del tempo. Il modello di sepoltura cattolico viene considerato sorpassato, mentre viene osannato il modello classico.

La tomba viene considerata quindi da un punto di vista storico come espressione della civiltà del mondo.

Terza parte

La terza parte (vv. 151-212) indaga sul significato pubblico della morte: vengono infatti ricordate le tombe dei grandi  personaggi, tra cui Machiavelli e Alfieri, sepolti nella chiesa di Santa Croce a Firenze.

Foscolo insiste in particolare sul fatto che le tombe dei grandi stimolano i caratteri più virtuosi a continuare la loro opera. Visitando le sepolture di personaggi illustri si tende ad imitare il loro buon esempio. L’invito dell’autore è quindi a ritrovare la dignità dei grandi ideali trasmessi dalle personalità del passato grazie al valore della tomba.

Quarta parte

La quarta parte (vv. 213-295) ribadisce quindi il valore morale della morte: essa ricompensa tutte le ingiustizie subite in vita. Questa conclusione è fondamentale perché, a partire da questa tematica, l’autore afferma il concetto di poesia eternatrice. Anche la tomba è soggetta all’usura del tempo. Per questo soltanto la poesia può conservare la memoria di una persona per sempre.

Per fare ciò, cita l’autore per eccellenza, Omero, che ha cantato la guerra di Troia e ha permesso di ricordare il valore di tutti i personaggi, vincitori e vinti. La poesia quindi assume lo stesso significato delle tombe. Quello di preservare il ricordo. Ma è molto più potente di esse perché è in grado di durare per sempre e resistere al trascorrere del tempo.

Ugo Foscolo
Ugo Foscolo

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Breve commento

Nonostante Foscolo neghi la sopravvivenza dell’anima oltre la morte, con l’opera “Dei Sepolcri” afferma però il valore essenziale della sepoltura. Nonostante le sue teorie materialiste, ciò che si salva e che va oltre la morte viene garantito proprio grazie al potere della poesia.

Ugo Foscolo, infatti, era un intellettuale che si sentiva spesso fuori posto, in contrasto con le teorie dominanti, esule. Grazie a questo carme però, afferma comunque l’importanza dell’illusione positiva creata dal valore della tomba e della poesia. Esiste quindi un modo per essere ricordati dopo la morte.

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La signorina Felicita ovvero la felicità: analisi della poesia di Gozzano https://cultura.biografieonline.it/signorina-felicita-analisi-poesia/ https://cultura.biografieonline.it/signorina-felicita-analisi-poesia/#respond Mon, 27 Jun 2022 08:31:47 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40046 Questa poesia è una delle più famose composizioni di Guido Gozzano; si intitola La signorina Felicita ovvero la felicità. Essa rappresenta il mondo provinciale semplice e tranquillo, in cui il poeta sente il bisogno di immergersi per godere dei piccoli piaceri della vita e della quiete.

Struttura e metrica

Si tratta di un poemetto di endecasillabi con rime ABBAAB suddivisi in otto sezioni.

Fa parte della raccolta I colloqui (1911).

L’autore: Guido Gozzano

Il poeta Guido Gozzano è considerato il massimo esponente del Crepuscolarismo. Nacque a Torino nel 1883 e morì a soli trentatré anni, nel 1916, a causa della tubercolosi, malattia di cui soffriva da molti anni.

Con la speranza di poter guarire, si recò anche in India nel 1912 e durante questo viaggio scrisse una serie di articoli, poi usciti postumi nell’opera Verso la cuna del mondo.

Sono molto più famose le sue raccolte di poesie:

  • La via del rifugio (1907)
  • I colloqui (1911)

In questi lavori Gozzano descrive il mondo piccolo-borghese con amore, e anche con una certa ironia.

Gozzano - libro Colloqui - poesie
I Colloqui (Gozzano)

La signorina Felicita ovvero la felicità: riassunto e breve analisi

La signorina Felicità è una ragazza conosciuta dal poeta durante una sua villeggiatura nella campagna piemontese. È il ricordo di lei che lo spinge a raccontare nel componimento il tempo passato in sua compagnia.

[ Il testo completo della poesia è in fondo all’articolo ]

Nella seconda strofa il poeta dichiara che inizia a scrivere il giorno dell’onomastico della signorina Felicita, ovvero il 10 luglio (curiosità: guarda qui cosa avvenne in data 10 luglio).

Subito il tono si fa colloquiale: egli si definisce “avvocato” e chiede alla ragazza se lo stia pensando.

Nella terza strofa egli ricorda i giorni trascorsi a Villa Amarena, la casa abitata da Felicita, che un tempo apparteneva ad una Marchesa. Ma il paesaggio diventa lugubre e cupo con la presenza dell’odore del busso, un arbusto utilizzato per le siepi dei cimiteri.

Gozzano introduce poi la figura del padre di Felicita, un borghese arricchito che lo costringe ad ascoltare la lettura di documenti notarili.

L’autore però è stanco di questa situazione e si sente insoddisfatto.

Nella terza strofa c’è anche il ritratto della signorina Felicita: ella viene definita “quasi brutta”, priva di fascino, vestita con abiti di campagna ma con il viso buono, casalingo, i capelli biondi raccolti in trecce che la fanno assomigliare alle ragazze dipinte dai pittori fiamminghi.

La sua bocca è di colore rosso vivo, il viso è di forma quadrata ricoperto da tante lentiggini; gli occhi sono sinceri e di color azzurro.

Donna rossa con camicia bianca, dettaglio
Dettaglio del quadro Donna rossa con camicia bianca (1889, Henri de Toulouse-Lautrec)

Il poeta racconta che fu il farmacista a presentarli, e che egli trascorreva quasi tutti i pomeriggi a casa di lei, ma non amava giocare con gli altri poiché era un giocatore distratto; piuttosto adorava stare in cucina ad ammirare la bellezza di Felicita.

Il loro idillio si consuma poi nel solaio, che viene quasi paragonato ad una tomba (sezione IV e V).

Il poeta chiede alla signorina Felicita se lo accetterebbe come sposo nel caso in cui lui guarisse, ma Felicita risponde che un bravo avvocato come lui non potrà certo sposare una donna bruttina come lei.

Nella sezione VI il poeta scrive che vorrebbe trascorrere tutta la sua vita con lei, perché Felicita non è come tutte le altre donne: lei è una ragazza semplice, che gli potrebbe donare tanta serenità, al contrario della letteratura che invece lo rende sempre inquieto.

Il poeta nella sezione VIII decide di congedarsi da Felicita; ciò avviene quando capisce che la guarigione sperata non è arrivata. Le promette tuttavia la fedeltà.

Gozzano si sente molto diverso dal superuomo dannunziano (ne abbiamo parlato qui: Le opere di Gabriele D’Annunzio) perché capisce che la sua malattia lo rende molto debole.

Commento

La poesia La signorina Felicita ovvero la felicità si caratterizza per il suo stile colloquiale. Spesso l’autore fa ricorso addirittura al discorso diretto.

È inoltre ricca di ironia: il poeta non è pessimista, ma riesce con sottili battute di spirito (es. la rima camicie / Nietzsche vv.308-311) a rendere meno amara la sua condizione.

Al tempo stesso però il componimento è un inno del Crepuscolarismo: egli sa che la sua esistenza accanto alla ragazza è solo una mera illusione poiché la malattia sta prendendo il sopravvento.

C’è sempre un cenno alla morte imminente, anche nella descrizione delle ambientazioni.

Nonostante il tono sia lieto, il poeta è consapevole che non può vivere una vita semplice e felice accanto alla ragazza.

Ciò che trasmette è un messaggio importante: è inutile voler cambiare la propria condizione, bisogna vivere per ciò che si è.

Il poeta incarna così l’uomo crepuscolare: vive alla fine della Belle Époque ed è consapevole che ormai il mondo sta cambiando definitivamente.

Testo completo

Parte I

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
la gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore….

Penso l’arredo – che malinconia! –
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente…. Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

Parte II

Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato….» E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto….
«…. la Marchesa fuggì…. Le spese cieche….»
da quel parato a ghirlandette, a greche….
«dell’ottocento e dieci, ma il catasto….»
da quel tic-tac dell’orologio guasto….
«….l’ipotecario è morto, e l’ipoteche….»

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario
è morto, allora….» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!»

Parte III

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poichè trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina….

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse….) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio, e il mio destino….

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

Parte IV

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno…. E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…. L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….»

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, perchè su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei «cosi
con due gambe» che fanno tanta pena….

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere….

Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro….

L’alloro…. Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui….

«Avvocato, non parla: che cos’ha?»
«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…»
«Qui, nel solaio?…» – «Per l’eternità!»
«Per sempre? accetterebbe?…» – «Accetterei!»

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

«Che ronzo triste!» – «È la Marchesa in pianto….
La Dannata sarà, che porta pena….»
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena….

Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:
«È Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo: è l’ora della cena!» – «Guardi,
guardi il tramonto, là…. Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!» – «Andiamo, è tardi!»
«Signorina, restiamo ancora un poco!…»

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana….

«Una stella!…» – «Tre stelle!…» – «Quattro stelle!…»
«Cinque stelle!» – «Non sembra di sognare?…»
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
«Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle….»

Parte V

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei Marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi….
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore….»

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
«Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?»

«Perchè mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…»
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
«Non mi ten….ga mai più…. tali dis…. corsi!»

«Piange?» E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

Parte VI

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi…. E non mediti Nietzsche….
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda….

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….

Ed io non voglio più essere io!

Parte VII

Il farmacista nella farmacia
m’elogïava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.

«Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca….
E la dote…. la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno….»

«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla….»
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla….»

«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano…. Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo….»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana….»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra un i gigante».

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno….
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà….

Parte VIII

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Vïaggio con le rondini stamane….»
«Dove andrà?» – «Dove andrò! Non so…. Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti….
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole….

«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite….» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine….

M’apparisti così, come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico….

Quello che fingo d’essere e non sono!

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