L’opera è stata realizzata poco tempo prima del suicidio del pittore olandese. È giudicata dai critici di quel periodo e dai successivi, una sorta di suo testamento spirituale.
Nella tela Campo di grano con volo di corvi emerge lo stato d’animo tormentato e angosciato dell’artista. I toni sono cupi, a partire dal cielo che passa dalle tonalità rassicuranti del blu a quelle più decise e scure del blu scuro e del nero.
Creando un’atmosfera che risulta tutt’altro che confortante, fino ad arrivare ad ammirare il funereo volteggiare dello stormo di corvi neri. La tela risulta quindi essere una testimonianza evidente di uno straziante grido di dolore. Le pennellate sono rabbiose e perfino scomposte.
L’artista non intravede nessun futuro per la sua esistenza, anche se la sua anima continua ad ardere di un fuoco divoratore. Van Gogh mette in luce chiaramente il suo stato d’animo e la sua dimensione di sofferenza sulla realtà circostante.
Una tempesta quasi perfetta sta per colpire un campo di grano attraversato da tre sentieri. Sullo sfondo si intravede uno stormo di corvi neri che si levano in cielo in un basso volo disordinato.
Il campo di grano è devastato dalla forza del vento con intense frustate di colore giallo, mentre il cielo, inizialmente limpido e di colore blu, diventa presto offuscato dall’intenso colore nero delle nubi che si avvicinano sempre più ostili e minacciose. La luminosità del dipinto viene meno grazie all’oscurità del colore nero che, inevitabilmente, prende il sopravvento.
I corvi sono simbolo di brutti presentimenti e oscuri presagi se viene adottata l’interpretazione che considera che i corvi sono in volo verso di sé; al contrario se viene presa in considerazione l’interpretazione per la quale i corvi si stanno allontanando, si percepisce un singolare senso di sollievo.
Nel dipinto si possono notare tre sentieri:
Il viottolo al centro invece consiste in una strada senza via d’uscita, percorsa da una persona, probabilmente lo stesso artista, che non ha una meta ben precisa e non sa dove andare e nemmeno cosa cercare.
Proprio per questo motivo la strada senza uscita simboleggia, senza dubbio, la forte angoscia esistenziale che attanaglia il pittore.
Van Gogh assiste impotente all’evento che si sta verificando sotto i suoi stessi occhi.
Paragonato ad un uccellino in gabbia, descrive in una lettera rivolta a suo fratello Theo nel 1880:
a guardare fuori il cielo turgido, carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità.
“Campo di grano con volo di corvi” fu realizzato da Vincent Van Gogh nel luglio del 1890, due settimane prima di suicidarsi.
Per questo motivo e per l’atmosfera cupa che rappresenta, il dipinto viene considerato l’ultima opera di Van Gogh.
In realtà non è mai stato stabilito con certezza che sia stato l’ultimo dipinto di Van Gogh. Né tanto meno che rappresenti una sorta di saluto alla vita da parte del pittore.
Sappiamo, invece, che venne realizzato fra l’8 e il 9 luglio, dopo che aveva visitato a Parigi il fratello Theo, il quale stava attraversando un momento difficile.
Non sappiamo altro.
Ovviamente, le scarse informazioni hanno alimentato diverse congetture. E’ indubbio, però, che il dipinto sprigioni un’energia che schianta.
Il colore travolge la vista e il campo di grano sembra che si animi come fosse un mare in tempesta. Il centro del dipinto è l’apice di questo terremoto di colore, dove l’angoscia e la rabbia sconvolgono tutta l’immagine.
Uno stormo di corvi vola basso sul campo. Come vuole l’interpretazione più comune dei dipinti di Van Gogh, la presenza dei corvi e l’assenza di fiori e di uomini, simboli di speranza, determina un senso di soffocamento e di inquietudine.
Non c’è, quindi, più speranza e non c’è più nemmeno quella passione per la vita che aveva portato Van Gogh a superare il confine, il limite per poi precipitarlo nella pazzia.
E infatti, tutto sembra precipitare. La percezione è quella di un crollo immediato del cielo e di un’esplosione del terreno. Le pennellate spesse e agitate, che si intersecano fra loro, fanno intuire uno sfogo e un desiderio che tutto esploda.
Anche la prospettiva, che si ingrandisce sempre più, sembra porre in movimento il dipinto. Si ha la sensazione che debba esplodere da un momento all’altro. La sua pittura ha raggiunto un nuovo livello interpretativo. E’ pura azione sulla tela.
Van Gogh cerca con sempre maggiore forza e intensità di interpretare la realtà.
Non solo le sue sensazioni trovano vita attraverso il colore. Vi è anche la ricerca disperata di racchiudere in un’opera la realtà stessa come appare al di là di ciò che vediamo. Per questo motivo, la sua pittura influenzerà gli espressionisti e il movimento fauve.
Per me, non è un testamento ma solo la dimostrazione del livello altissimo al quale il pittore era arrivato. La consapevolezza di ciò che vede e di ciò che è non ha uguali. Per questo motivo, molti dei suoi dipinti non smettono di ossessionare.
]]>È la sua seconda notte stellata, la prima è stata dipinta ad Arles nel 1888. Sono due quadri impressionanti per la forza espressiva e per l’utilizzo dei colori che sembrano esplodere davanti allo spettatore. Nella Notte stellata di Arles, le stelle sono immobili ma sembrano vivere e respirare mentre in quella di Saint-Remy le stelle si muovono, immerse in un torrente celeste e non si fermano mai.
Il dipinto del 1888 viene indicato con il nome Notte stellata sul Rodano.
L’interpretazione, unica e bellissima, ha molti padri ma rimane un dato di fatto, il movimento e l’originalità di un legame infinito fra stelle, cosmo e il cipresso in basso a sinistra mostra la profonda analisi e conoscenza della natura che aveva Vincent van Gogh.
Molti ritengono che fosse pazzo quando dipinse questo quadro.
È una follia considerarlo tale.
Aveva, invece, visto qualcosa e questo qualcosa avrebbe potuto distruggerlo. In parte lo ha rapito ed è tornato con un assoluto capolavoro. Attualmente il dipinto è conservato presso il Museum of Modern Art di New York.
Questo quadro è una vera e propria icona della pittura occidentale.
È facile trovare la sua riproduzione su diversi oggetti di diffuso uso comune, come ad esempio tazze, magliette o stampe di ogni genere.
]]>Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori.
Vincent van Gogh, Arles, 3 settembre 1888
Giovanni Pascoli è stato uno dei poeti decadenti più importanti insieme a Gabriele D’Annunzio. La sua vita fu funestata da numerosi lutti che lo segnarono per sempre.
Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855, quarto di dieci figli. Il 10 agosto 1867 il padre venne assassinato in circostanze misteriose; morì poi la madre e altri tre tra fratelli e sorelle. Egli continuò a studiare grazie a borse di studio. Si laureò in Letteratura, che insegnò poi all’università di Bologna.
Insieme alle sorelle cercò di riformare un piccolo nido, rifugiandosi insieme come nuovo nucleo familiare nelle campagne vicino Bologna fino alla morte, avvenuta nel 1912.
Tra le sue raccolte poetiche più importanti ricordiamo:
Myricae fu la prima raccolta poetica vera e propria dell’autore. Conteneva inizialmente solo 22 componimenti, ampliati poi nell’edizione definitiva a 116. Il titolo deriva da una citazione virgiliana:
non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici
Pascoli intende utilizzare queste piante come simbolo delle piccole cose che vuole inserire nelle sue poesie.
I componimenti sono molto brevi e, all’apparenza, sembrano quadretti di vita di campagna: in realtà essi sono carichi di senso misterioso e diventano il simbolo di qualcos’altro: sentimenti e sensazioni.
I temi principali della raccolta poetica sono la morte, la realtà enigmatica e i legami spezzati.
Da un punto di vista stilistico, Pascoli compie una vera rivoluzione: inserisce i suoni attraverso le onomatopee, utilizza il linguaggio analogico e la sintassi frantumata, in antitesi rispetto alle poesie degli autori precedenti.
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinnio come d’oro.
Al campo, dove spicca qualche intensa macchia di colore rosso delle foglie di vite (pampano),
e la nebbia del mattino sembra risalire come un fumo dai cespugli, arano (i contadini):
uno di loro spinge le vacche lente con grida altrettanto lente;
altri stanno seminando;
uno ribatte i rialzi di terra fra i solchi con una zappa leggera (marra paziente);
così che il passero esperto già gode nel suo cuore e guarda tutto dai rami ormai spogli del gelso (sa che tra poco potrà mangiare le sementi);
e il pettirosso: nelle siepi si sente il suo verso sottile come il tintinnio dell’oro.
La poesia “Arano” è un madrigale formato da:
con il seguente schema di rime:
ABA CBC DEDE
Apparentemente essa descrive un quadro bozzettistico della campagna emiliana: i contadini stanno arando i campi, alcuni stanno radunando le vacche, altri preparano i solchi per le sementi e vengono tutti descritti oggettivamente.
Ad essi fa da sfondo un paesaggio mattiniero nebbioso che viene inserito nella prima terzina (il colore rosso della vite, la nebbia che sale come se fosse fumo).
Nella seconda terzina sono presenti le descrizioni delle figure umane ovvero i contadini stanno svolgendo i lavori tipici autunnali.
Il verbo “arano” al verso 4 è messo in evidenza poiché si trova ad inizio del verso stesso. Fa parte di un lungo enjambement che ne accentua l’importanza, tanto da dare il titolo alla poesia.
Questo lavoro paziente e lento dei contadini viene descritto con una certa malinconia; essa è data dalla nebbia e dal lessico scelto dall’autore (lente grida, paziente, etc), e da ciò che accade nella terza strofa: gli uccelli già godono del fatto che tra poco potranno mangiare tutti i semi.
La poesia Arano si conclude con la sinestesia del verso 10: il canto del pettirosso viene paragonato al tintinnio dell’oro, al suo luccichio che assume quindi un tono gioioso.
La lirica è di semplice lettura solo apparentemente ma, come tutta la poetica pascoliana, nasconde un significato profondo fatto di suggestioni e sensazioni della vita personale del poeta stesso.
]]>La tela fu dipinta nel 1867, anche se la data non è certa. Rappresenta una strada innevata solcata da un calesse, mentre passa accanto alla fattoria in cui alcuni pittori che frequentavano quella campagna normanna, si riunivano per parlare di pittura, arte, politica e altro ancora che possiamo solo immaginare.
Li vediamo insieme mentre fumano e bevono: sono Courbet, Monet, Daubigny, Corot e Bazille, tutti riuniti vicino al fuoco mentre la campagna viene sommersa dalla neve. Per loro, i luoghi che ritraggono hanno differenti significati.
Monet, infatti, a differenza di Courbet, sceglie come soggetti non gli animali bensì gli uomini o, come in questo caso, un calesse.
Il suo scopo però non è rappresentare un soggetto, ma lavorare sulla luce che si riflette sulla neve, rappresentandola con diverse sfumature di bianco.
Osservare e capire la scelta del colore è un’altra esperienza meravigliosa che ci regala Monet.
Inoltre, l’artista vuole rappresentare il paesaggio in modo originale. Lo fa lavorando su colori semplici per rappresentare il terreno macchiato dalla neve. I colori preferiti sono i marroni e i blu, che si mescolano con il bianco.
In questo modo il dipinto diventa un universo di colori e sfumature che si sporcano con il colore bianco e rendono il paesaggio non completamente immacolato.
Monet non si limiterà a dipingere questo paesaggio innevato, ma ne realizzerà altri; uno dei più interessanti è La Gazza che dipingerà due anni dopo, e il dipinto che qui possiamo osservare e che si intitola “Il calesse. Strada coperta di neve a Honfleur“. Entrambi i quadri sono realizzati con colori ad olio e sono attualmente esposti al museo parigino d’Orsay.
]]>Il periodo londinese permette a Monet di studiare tecniche differenti e di imparare dai maestri inglesi una diversa rappresentazione della luce. Un esempio è il modo in cui rappresenta il riflesso tremolante di oggetti e piante sul fiume. Quasi fa sparire la consistenza degli stessi, obliandoli.
Lo studio fatto nei musei della capitale inglese permette a Monet di cambiare in parte la sua pittura. Fa un salto importante, anche nella scelta dei colori. Il cielo, ad esempio, ha lo stesso colore dell’acqua.
Inoltre, Monet evita l’utilizzo di toni forti, preferendo avvalersi di impasti più sfumati e meno accesi. Questa scelta permette all’artista di rappresentare perfettamente il contesto tranquillo e malinconico del luogo.
Osservando il quadro più dettagliatamente, si può notare che il paese di Argenteuil è sulla sinistra. Mentre sulla destra si possono vedere le colline di Orgemont. Nel centro, invece, appaiono alcune barche che si specchiano sull’acqua.
Si può osservare anche come la scelta dei colori aiuti a immaginare un luogo in cui la foschia potrebbe inghiottire tutto il panorama. Gli alberi delle barche che si vedono galleggiare sulla destra sono i protagonisti della tela e ne svelano il mistero, in un certo senso. Perché tutto il dipinto è basato sulle ombre e sul tremolio degli oggetti che, come si è detto, quasi svaniscono alla vista dello spettatore.
La magia del dipinto si mostra proprio di fronte a questa scelta del pittore. Gli alberi delle barche sono inoltre fondamentali per comprendere l’omogeneità dei colori e il modo di rappresentare la luce riflessa sull’acqua.
Per realizzare questo dipinto, Monet utilizzò la sua barca studio. Essa gli permise di muoversi sul fiume e di osservare da diverse angolature il paesaggio. Il dipinto, quando venne presentato al pubblico e alla critica, suscitò, come accadeva spesso agli impressionisti della prima ora, indifferenza e dileggio. Tuttavia, Argenteuil rappresenta uno dei primi dipinti che seguono le regole dell’Impressionismo e operano una svolta, non solo nel percorso artistico di Monet ma, più in generale, nello stile paesaggistico dell’epoca.
Attualmente il dipinto è esposto al Museo d’Orsay. E’ un olio su tela e misura 50×65 cm.
]]>Il pittore olandese ritiene che la notte sia più ricca di colori rispetto al giorno. Passa molte notti insonni ad osservare il cielo.
E forse questa pratica lo avvicina ancora di più ad uno squilibrio psicologico che in seguito peggiorerà rapidamente.
Nel settembre del 1888, sempre ad Arles, dipinge un angolo di cielo notturno mentre si trova sulla terrazza di un caffè, nella piazza centrale della cittadina belga.
Di seguito un’immagine.
Il quadro è un meraviglioso esempio dell’uso dei colori e della luce, si intitola Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles.
E’ un dipinto a olio su tela (81 x 65,5 cm) ed attualmente è conservato al Museo Kroller-Muller di Otterlo.
Poi dipinge La notte stellata sul Rodano (olio su tela che misura 72,5 x 92 cm) attualmente conservato nel museo d’Orsay di Parigi.
Nel quadro “Notte stellata sul Rodano” l’artista riproduce dettagliatamente ciò che vede nell’oscurità.
Le luci della città e le stelle si specchiano nel Rodano.
La loro luminosità è rappresentata con un arancione acceso, mentre il blu del cielo è lavorato con il blu di Prussia ed il cobalto.
Le stelle magnifiche risplendono nel cielo.
Intorno vi è un luccichio di luci che brillano nel blu della notte.
In seguito Van Gogh viene internato nell’Ospedale psichiatrico. Appena viene dimesso dipinge un’altra opera analoga “La notte stellata“, (o Il cielo stellato), un dipinto realizzato nel 1889 con olio su tela e conservato al MoMA di New York.
Il secondo dipinto – quello del 1889 – rappresenta la sofferenza del pittore e la trasformazione che la sua psiche sta subendo. Tutto volteggia e si sposta assumendo una visione cosmica del movimento delle stelle e del cielo.
In questo dipinto – del 1888 – invece, tutto sembra più calmo, come la coppia di innamorati che appaiono sereni e tranquilli mentre passeggiano vicino al fiume.
]]>Corre l’anno 1904. Edvard Munch espone al Salon des Indépendants. La sua fama a livello internazionale gli permette di esporre in tutta Europa. E’, infatti, considerato uno dei pittori più interessanti della sua epoca. La critica lo sostiene e lo apprezza. Munch partecipa dunque a molte esposizioni. Proprio quell’anno decide di mostrare uno dei suoi quadri più intensi e violenti. Un paesaggio.
Può sembrare paradossale ma l’utilizzo della profondità e del colore rendono questo paesaggio, dal titolo “Notte d’estate ad Aasgaardstrand“, un quadro fra i più duri e istintivi del pittore.
Il villaggio di Aagaardstrand è uno dei preferiti di Munch che lo frequenta dal 1888. E’, quindi, per lui un luogo famigliare, che conosce molto bene. Qui Munch decide di misurarsi con un nuovo modello formale, sperimentando una diversa composizione del colore. Osservando il paesaggio appare subito chiaro che gli elementi che lo costituiscono: l’albero, la casa e il muro, creano una dimensione inquietante, dura e desolata.
Il muro che attraversa “Notte d’estate ad Aagaardstrand”, ad esempio, sviluppa uno profondità immediata, che appare di colpo allo spettatore, mentre quest’ultimo segue le linee del dipinto.
Non vi sono personaggi né simboli che possano addolcire o distrarre l’attenzione di uno spettatore che viene assorbito dalla solitudine di questo paesaggio nordico.
I colori che cambiano e passano da toni caldi a toni freddi e la pennellata che intensifica e marca ancora di più il disegno, attirano l’attenzione della critica e di molti artisti , soprattutto, gli appartenenti al fauvismo, i quali vedono in questo quadro, realizzato lo stesso anno dell’esposizione, un coraggioso esempio delle loro ricerche cromatiche.
Munch, infatti, non realizza solo un’opera di profonda bellezza, ma sperimenta anche una riuscita evoluzione stilistica. Desolazione, disperazione, solitudine e selvaggia ricerca di un proprio sé, in un contesto in cui la natura mostra sé stessa in modo violento e definitivo, sono temi che accompagneranno Edvard Munch per tutta la sua carriera. Tuttavia, nel quadro Notte d’estate ad Åsgårdstrand emerge anche la bellezza unica del paesaggio nordico, di cui Munch è stato fra i più appassionati cantori.
]]>Il pittore dipinge tronchi di faggio che danno l’impressione di ondeggiare. Ogni fusto è diverso dall’altro per spessore, colore e andamento. Si ha l’impressione che non ci siano punti di riferimento, nonostante l’orizzonte sia segnato sul margine superiore della tela. Il terreno è uno straordinario puzzle di foglie autunnali. Klimt non è solo un pittore simbolista di soggetti femminili ed erotici (ricordiamo: Giuditta I, Nuda Veritas), e non è solo un ritrattista (ricordiamo: Sonja Knips, Emilie Flöge), ma è anche dedito al paesaggio.
Le sue tele, come questa o come La fattoria della betulle (descritta in un precedente articolo), sono di formato quadrato. Un formato che riduce l’ampiezza degli spazi: si assiste all’assenza dell’umanità, ma al contempo rivela una molteplicità di stati d’animo.
Klimt non dipinge in studio ma si dedica alle sue opere lavorando en plein air, proprio come gli impressionisti. Gira con una piccola cornice di avorio in tasca: è attraverso questa che ammira il paesaggio allo scopo di provare e riprovare le inquadrature. Una caratteristica di queste sue opere è che hanno come risultato quella sensazione di “tutto a fuoco”. Così l’immagine è più statica.
È dal 1900 al 1916 che Gustav Klimt trascorre le vacanze estive sul lago Attersee, a est di Salisburgo, in compagnia della sua compagna Emilie Flöge. È un ambiente lacustre congeniale al pittore che gli permette spesso di riprendere appunto il tema dell’acqua che appare nei suoi quadri di figura. Proprio nel corso dei suoi soggiorni, l’artista dipinge cinquanta paesaggi: gli occhi dell’artista puntano sugli specchi d’acqua o sulle fitte boscaglie.
Qui la figura umana è assente e la sua bellezza è sostituita dagli elementi armoniosi del creato. A differenza tuttavia degli impressionisti degli anni Settanta dell’Ottocento, i paesaggi di Klimt non rappresentano trascrizioni spontanee di ciò che vede l’occhio del pittore; esiste invece prepotente nei suoi paesaggi un forte elemento astratto.
Insomma in “Faggeto I” l’artista austriaco dipinge una sorta di schermo di tronchi tagliati in alto e in basso rispetto la tela. Forse si ispira in questo dipinto alla serie di Pioppi di Claude Monet. Lo stile di Klimt è un’audace fusione di elementi naturalistici dall’estrema eleganza decorativa che raggiunge il limite dell’astrazione. Cattura l’osservatore rendendolo parte della sua opera, aldilà del tempo e dello spazio.
]]>Malgrado il periodo non fosse favorevole alla pittura en plein air, Vincent van Gogh andò avanti diverse settimane sperimentando in frutteti e oliveti la realizzazione del suo dipinto. In giugno dipinse l’opera, che possiamo ammirare in questo articolo, e che conferma il suo modo di vedere la natura.
Il lavoro lo aveva portato ad affrontare mille difficoltà. Il suo principale scopo era rappresentare la natura come la vedeva. Tuttavia, in fondo al suo lavoro, c’era sempre la certezza di non creare nulla di nuovo. Il suo operato era semplicemente quello di sbrogliare, di sciogliere, fra colori e forma, la natura. Natura che era già implicita con la sua forza trascinante, dentro al dipinto prima ancora che questo venisse ultimato.
In una lettera al fratello Theo van Gogh, il pittore spiega il motivo per il quale dipinge la natura.
Racconta che lui esagera, stravolge ciò che vede. Ritorna sui suoi passi ma, alla fine, si rende conto di non aver creato nulla di nuovo.
In questo dipinto, che rappresenta gli ulivi di un oliveto, il pittore, benché porti la rappresentazione formale in alcuni casi ai limiti, riesce a conservare comunque l’essenza di ciò che vede. I tronchi e i rami degli oliveti contorti fino allo spasimo. Le radici che quasi saltano fuori dal terreno. La terra che sembra tremare in uno sconvolgimento costante. Sono tutti elementi che tirano la realtà fino quasi al confine di ciò che può essere vero. Essi però non diventano mai altro. Rimangono sempre all’interno di un concetto della realtà che possiamo capire e vedere.
La dinamicità de Gli Ulivi di Van Gogh è un’altra chiave interpretativa, in cui i piani visivi si intersecano e rendono viva la scena. Non si tratta, comunque, solo di una rappresentazione di come Van Gogh vede e vuole vedere un oliveto. La sua è anche la ricerca, attraverso la pittura e il colore, di se stesso e, in questo caso, della sofferenza umana, benché speciale, di Gesù nell’oliveto e di un uomo da solo, mentre attraversa l’esperienza della vita terrena. L’oliveto che possiamo ammirare è tipico del sud della Francia dove all’epoca stava dimorando Van Gogh.
All’epoca la sua situazione mentale stava peggiorando. La consapevolezza di come la sfortuna e la sofferenza lo stessero perseguitando iniziava ad accentuare il suo pessimismo e il suo sconforto. Gli Ulivi di Van Gogh rappresentano anche ciò che il pittore stava vivendo, ma è in un certo senso secondario allo scopo che il pittore stesso si era prefissato. Il dipinto infatti vuole essere anche la dimostrazione di come il formalismo non serva a nulla, ma solo un’interpretazione profonda del rapporto fra uomo e natura abbia senso e sia compito dell’artista mostrarlo.
]]>Van Gogh era attratto dal luogo e dallo scenario che ogni giorno poteva ammirare indisturbato e decise di conoscerlo attraverso la sua arte. Il ponte attraversava un vecchio canale situato nella periferia di Arles e collegava la cittadina con Port-de-Bouc.
Il pittore olandese realizzò diversi disegni e tre dipinti di questo luogo. La sua attrazione per il ponte e per il contesto naturalistico che lo circondava era dovuto alla somiglianza di alcuni paesaggi olandesi con l’idea che il pittore, all’epoca, aveva del Giappone.
Il Giappone è una terra che Van Gogh non aveva mai visitato. La immaginava come una terra sublime. Un luogo in cui la limpidezza dei colori era per lui un esempio magnifico di ciò che stava cercando di realizzare.
La sua conoscenza del Giappone si basava sulle stampe di artisti come Katsushika Hokusai e Ichiryusai Hiroshige. Van Gogh aveva visto a Parigi le opere di questi artisti ed era rimasto profondamente colpito. Il lavoro di Hiroshige, in particolare, aveva permesso a Van Gogh di sperimentare un nuovo modo di utilizzare i colori. Con “Il ponte di Langlois” realizzò la prima di una lunga serie di nuovi paesaggi. In particolare, Acquazzone Improvviso Sul Ponte Ōhashi Ad Atake e Nagabuko sono i due dipinti che Vincent conosceva meglio del maestro giapponese. Del primo aveva realizzato anche una copia quando viveva a Parigi.
“Il ponte di Langlois” è stato realizzato in cinque copie diverse fra loro. In ognuna, Van Gogh ha cambiato alcune cose: i personaggi ritratti, il suo punto di vista, alcuni colori. Per questo il quadro, nel tempo, ha assunto un’importanza notevole nell’opera di Van Gogh.
Questa rappresenta la sperimentazione, soprattutto nel colore, che il pittore stava affrontando in quel periodo. Inoltre, il dipinto è uno dei più importanti del periodo provenzale di Van Gogh. Durante tale periodo il pittore olandese produsse una notevole quantità di opere.
Le opere realizzate in questo periodo sono composte da colori molto vivaci, ampie pennellate e l’uso abbondante del colore. Inoltre, la profondità e la fuga degli elementi creano un’ampiezza asimmetrica del dipinto.
In questo, come in altre opere di quel periodo, possiamo notare le tracce degli impressionisti sul modo in cui Van Gogh distribuisce il colore. Ad esempio, lo specchio d’acqua quasi appare privo dei riflessi di luce. E’ come una massa compatta che sembra inglobare il resto del dipinto. La forma è aiutata anche dal punto di fuga oltre il ponte, su cui sta passando un carretto.
Van Gogh, con quest’opera, cambia il modo di dipingere che lo aveva contraddistinto durante il periodo parigino e assume una pittura più sintetica ed essenziale, conseguenza del suo amore per l’arte giapponese.