Opere di Giuseppe Verdi Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 29 Sep 2023 13:05:50 +0000 it-IT hourly 1 Macbeth, opera di Giuseppe Verdi. Storia e trama. https://cultura.biografieonline.it/macbeth-giuseppe-verdi/ https://cultura.biografieonline.it/macbeth-giuseppe-verdi/#comments Tue, 07 Dec 2021 14:33:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7080 Il Macbeth verdiano è un dramma lirico che si compone di quattro atti. Il libretto è di Francesco Maria Piave. La prima rappresentazione andò in scena il giorno 14 marzo 1847 presso il Teatro la Pergola di Firenze. Macbeth è uno tra i più noti drammi scritti da William Shakespeare; è inoltre la sua tragedia più breve. Nel corso dei secoli essa è stata frequentemente riadattata e rappresentata. La versione operistica di Giuseppe Verdi – la sua decima – viene qui riassunta e analizzata.

La prolusione è curata e redatta dal Maestro Pietro Busolini.

Macbeth, di Giuseppe Verdi
L’opera di Verdi andò in scena la prima volta il 14 marzo 1847

La genesi di Macbeth, fu lunga e difficile per Francesco Maria Piave e per Giuseppe Verdi. Il dramma psicologico Shakespeariano ha inciso non poco sull’armonia e sul contrappunto di Verdi, due versioni, quella originaria che debuttò Firenze nel teatro la Pergola, e quella definitiva di Parigi rappresentata al Théàtre Lyrique il 21 aprile 1865, lavoro dell’operazione revisionistica dal Maestro dopo il 1860, cioè dopo gli anni giovanili.

Trama del Macbeth

Atto primo

Scena prima

Nella foresta, “Preludio”. Alcune streghe, riunite per festeggiare le malvagità commesse, incontrano Macbeth e Banco, due generali dell’esercito scozzese di re Duncan. Le streghe salutano in Macbeth il futuro re di Scozia: il giovane soldato è turbato dalla profezia. Arrivano dei messaggeri annunciando a Macbeth che il re Duncan lo ha nominato signore di Cawdor.

Scena seconda

Castello di Macbeth. Lady Macbeth sta leggendo una lettera del marito che le narra del suo incontro con le streghe e delle loro profezie: “Nel dì della vittoria”. Ella decide di infondergli il coraggio per uccidere Duncan: “Vieni! T’affretta!”. Egli così accederà al trono. Un servo annuncia che il re passerà la notte nel castello: “Al cader della sera…”. In una cabaletta: “Or tutti sorgete”, la donna invoca l’aiuto dei signori delle tenebre. Giunge Macbeth: la moglie lo sprona a compiere il tentativo quella notte stessa. Entra il re, scortato da Banco, Malcolm e Macduff.

Ricevuto il benvenuto dei padroni di casa, viene condotto alle proprie stanze. Dopo molti tentennamenti, Macbeth entra nella stanza in cui dorme il sovrano e lo uccide. In preda al panico, esce dalla stanza e descrive alla moglie l’orribile scena: “Fatal mia donna!”. Ella esorta il marito a riportare il pugnale dal re per accusare del delitto gli stallieri. Ma l’uomo è troppo terrorizzato. Ella afferra allora il pugnale ed entra nella stanza di Duncan. Bussano alla porta: mentre la coppia si ritira, entrano Banco e Macduff che hanno l’ordine di svegliare il re: “Di destarlo per tempo”. Scoperto l’assassinio, i due danno l’allarme al castello. Tutti i personaggi riuniti nel salone invocano la punizione divina per l’uccisore: “Schiudi, inferno, la bocca”.

Macbeth: una scena
Scena tratta da una rappresentazione operistica

Atto secondo

Scena prima

Stessa scena. Una camera del castello. Lady Macbeth rimprovera il marito, ora re, di evitarla, “Perché mi sfuggi”. Lui non riesce a dimenticare le streghe e decide, incoraggiato dalla moglie, di far assassinare Banco e suo figlio Fleance, possibili futuri avversar!. Rimasta sola, Lady Macbeth esulta alla prospettiva di togliere ogni ostacolo al trono: “La luce langue”.

Scena seconda

Nel parco del castello. I sicari ingaggiati da Macbeth sono in attesa di Banco e di suo figlio, che arrivano per recarsi ad un banchetto che si terrà nel castello. Mentre Banco viene attaccato e ucciso: “Come dal ciel precipita”, Fleance riesce a fuggire.

Scena terza

La sala dei banchetti del castello. Entrano i coniugi, salutati dagli invitati. Lady Macbeth propone un cordiale brindisi: “Si colmi il calice”, al quale si uniscono tutti. Arriva intanto uno dei sicari che riferisce a Macbeth della morte di Banco e della la fuga di Fleance. Il re si volta per sedersi e trova la poltrona occupata dal fantasma di Banco che nessun altro vede all’infuori di lui: egli è sopraffatto dal terrore. Riavutosi, decide di consultare le streghe per sapere di più sul suo futuro.

Atto terzo

La spelonca della delle streghe. Le streghe stanno eseguendo uno dei loro macabri riti [13] (Tre volte miagola). Entra Macbeth ed interroga le streghe. Esse invocano i signori delle tenebre per far conoscere al re il proprio destino. La prima profezia lo avverte di fare attenzione a Macduff, poi un fanciullo profetizza che Macbeth sarà invincibile fino a quando la foresta di Birnam non si muoverà contro di lui. Sviene. Le streghe convocano gli spiriti dell’aria per farlo riprendere.

Atto quarto

Scena prima

Al confine tra Scozia e Inghilterra. Un gruppo di profughi scozzesi piange la patria, schiacciata e commossi essi vogliono una morte cruente per Macbeth “Patria oppressa”. Del gruppo fa parte anche Macduff, straziato dalla notizia che moglie e figli sono stati massacrati: “O figli”, “Ah! La paterna mano”. Arriva l’esercito inglese di Malcolm. L’erede al trono di Scozia sprona gli esuli a unirsi a lui, e ordina ad ognuno di tagliare un ramo d’albero dalla foresta di Birnam per cogliere il nemico di sorpresa.

Scena seconda

Nella sala del castello di Macbeth. Un medico e una dama del seguito di Lady Macbeth attendono la regina che è stata vista aggirarsi di notte in stato di sonnambulismo: “Vegliammo invan due notti”. Lady Macbeth appare con in mano una candela. Ossessionata dall’assassinio di Duncan ella cerca invano di ripulirsi dal sangue che immagina di vedersi sulle mani: “Una macchia”.

Scena terza

In una stanza del castello. Macbeth medita sulla battaglia che dovrà sostenere contro Malcolm, Macduff ed i loro alleati: “Perfidi”. Piange ciò che ha perso per cieca ambizione:”Pietà, rispetto, amore”. Il soliloquio è interrotto dalla dama del seguito che viene a comunicargli la morte di Lady Macbeth, ma egli ha in testa più urgenti problemi: alcuni soldati riferiscono che la foresta di Birnam si sta muovendo. Macbeth allora comprende il significato della profezia delle streghe e si prepara alla lotta finale.

Scena quarta

In una pianura circondata da foreste e colline. Le truppe di Malcolm avanzano finché non arriva l’ordine di deporre i rami serviti da schermo. Nello scontro che segue Macbeth viene messo alle strette da Macduff. Ormai perduto, Macbeth viene ucciso da quest’ultimo in duello. Ritorna Malcolm, che dichiara vittoria sulle forze di Macbeth: “Vittoria!”

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La traviata, di Giuseppe Verdi: riassunto e storia https://cultura.biografieonline.it/la-traviata-di-verdi-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/la-traviata-di-verdi-riassunto/#comments Tue, 06 Apr 2021 18:29:46 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7661 La traviata è una delle opere più famose, note e belle di Giuseppe Verdi. Scritta su libretto di Francesco Maria Piave, si compone di tre atti ed è tratto dalla pièce teatrale “La signora delle camelie”, scritta dall’autore francese Alexandre Dumas (figlio); quest’opera verdiana, assieme a “Il trovatore” e a “Rigoletto“, fa parte della cosiddetta “trilogia popolare“.

La traviata, di Giuseppe Verdi
La traviata: una scena tratta da una rappresentazione teatrale

In parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, nella splendida cornice del lago di Como, la prima rappresentazione teatrale de La traviata, avvenne al Teatro La Fenice di Venezia, nel giorno 6 marzo 1853; in tale occasione, tuttavia, a causa soprattutto di interpreti non di adeguato livello e a causa della scabrosità dei temi, la rappresentazione si rivelò un fiasco totale. Venne ripresa comunque il 15 maggio 1854 quando ottenne il meritato successo.

La prolusione che segue è stata redatta per Biografieonline dal Maestro Pietro Busolini di Trieste.

La traviata: genesi dell’opera

Nella mente di Verdi prende corpo questa nuova fatica, dopo aver visto a teatro “La signora delle camelie” a Parigi, accompagnato da Giuseppina Strepponi, nel febbraio del 1852. Elabora questo dramma – opera di Dumas figlio – e ne ricava un intenso melodramma dal valore emotivo e di un esasperato romanticismo. Giuseppe Verdi ha donato al mondo un’opera di estremo lirismo. Il maestro scriveva, come riportato da giornali dell’epoca, al presidente del teatro alla fenice signor Marzari: “Ho volutamente cercato un soggetto pronto, certamente di sicuro effetto“, con questa frase di fatto, presentava e promuoveva la nuova opera da mettere in scena per il Carnevale del 1853. La sua fatica fu condivisa da Francesco Maria Piave che ne scrisse il libretto nel novembre di quell’anno, per un un compenso di 1.000 lire austriache.

Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Un fiasco

Il lavoro per Giuseppe Verdi fu sicuramente grande: la scrisse in 40 giorni, da fine gennaio ai primi di marzo del 1853. Consideriamo anche che “Il trovatore” andò in scena il 19 gennaio del 1853, al teatro Apollo di Roma, cioè solo due mesi prima. La traviata fu rappresentata il 6 marzo 1853 a Venezia, al teatro La Fenice: fu un totale insuccesso, e come disse lo stesso Maestro “un fiasco“.

Leggendo le cronache di allora, si evince che comunque il maestro non si turbò molto, e leggendo le varie lettere da lui spedite da Venezia nei giorni successivi circa il “fiasco”, lo troviamo quasi impassibile. In una sua corrispondenza con casa Ricordi si legge

“non indaghiamo sulle cause, la storia è così. Colpa mia o dei cantanti? […] Il tempo giudicherà”. Al suo corrispondente da Genova rispose in questo modo: “La traviata ha fatto un fiascone e – peggio – ne hanno riso. […] Eppure che vuoi […] Non son turbato. Ho torto io o hanno torto loro? Ma io credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella di jeri sera, la rivedranno e vedremo!”.

Un successo

Effettivamente il maestro conosceva e sapeva quello che scriveva, attese sino alla sera del 15 maggio 1854, quattordici mesi dopo l’insuccesso alla Fenice, e sempre a Venezia, al teatro San Benedetto il popolo veneziano, ne decretò il successo, ottenendo un completo trionfo ed un completo consenso di stampa. Quella sera non fu altro che il ”preludio”, del percorso che, La traviata, ha fatto nei suoi oltre 160 anni di vita, raccogliendo trionfi e consensi in tutti i teatri del mondo, ponendosi al vertice di tutta la produzione verdiana.

La traviata, locandina del 6 Marzo 1853
Prima de La traviata: locandina del 6 Marzo 1853

Personaggi dell’opera

  • Violetta: soprano
  • Alfredo Germont: tenore
  • Annina: soprano
  • Flora Bervoix: mezzosoprano
  • Giorgio Germont: baritono
  • Gastone, Visconte de Letotieres: tenore
  • Il dottor Grenvil: basso
  • Il marchese Douphol: baritono
  • Il marchese d’Obigny: basso
  • Coro degli amici, bimbi, zingare, domestici, gente del popolo

La traviata: riassunto e trama dell’opera

Atto I

Nel salotto di casa Valery si coglie l’atmosfera di una imminente festa, vista la preparazione e la disposizione di fiori, piante e divani. Violetta sta preparando tutto questo per i suoi amici: sappiamo che la giovane donna è colpita dal mal sottile, ma ella è comunque contenta di come scorre la sua esistenza, diciamo un po’ “leggera” o quantomeno dai modi frivoli per quanto riguarda l’altro sesso. Tra gli invitati notiamo anche Gastone che, arrivando alla festa, presenta Alfredo Germont, segreto ammiratore di Violetta. Si comincia a brindare ed egli è invitato a unirsi all’allegra compagnia.

In un altro salone si uniscono anche altri invitati e si dà inizio a questa gaia serata di ballo. Violetta soddisfatta però ha un momentaneo mancamento: escono gli invitati trasferendosi in altri salotti. Ella quindi chiede di rimaner da sola, Alfredo però rimane con lei per manifestarle la sua ammirazione ed il suo amore. Violetta colpita ed intimamente sorpresa gli fa dono di una camelia dicendogli di riportarla quando sarà appassita.

Atto II

Nella casa di campagna, dove si sono ritirati a vivere Violetta ed Alfredo, essi stanno consumando il loro sogno d’amore vivendolo intensamente. Ad Alfredo però giunge notizia da Annina che la “signora” si era recata a Parigi per vendere i suoi gioielli ed altri beni, questo per prolungare, in maniera più piacevole la loro vita distanti da Parigi. Alfredo si sente offeso e decide all’istante la sua partenza per la capitale, cercando con la sua presenza di aggiustare queste spiacevoli questioni di danaro.

Nello chalet di campagna sopraggiunge il padre di Alfredo, Giorgio Germont, e trova Violetta appena rientrata da Parigi. Germont padre comincia con il chiedere in nome delle convenzioni e del buon nome di rinunciare ad Alfredo, anche per la felicità della figlia e che così facendo, non troverà ostacoli nello sposare un giovane del suo rango. Violetta, per la prima volta, “rinuncia al suo amore per un uomo contro la sua volonta”. Partirà subito lasciando un biglietto ad Alfredo, che lo troverà, al rientro da Parigi. Ma mentre scrive il biglietto di saluti e di congedo arriva Alfredo. Egli nota nella giovane un turbamento e la interroga, mentre Violetta intona la famosa romanza: “Amami Alfredo”, frase che cambierà in una nuova forma, tutta la concezione psicologica dell’opera come per l’appunto la voleva Giuseppe Verdi.

Un domestico si avvicina ad Alfredo e porge un vassoio con un biglietto, in quel biglietto c’è la frase di congedo, con cui Violetta annuncia la sua partenza con Annina; Alfredo legge e, come folgorato, chiede al domestico che confermi. Nell’azione entra immediatamente papà Germont che comincia a concionare sul perché ha lasciato la famiglia e la Provenza, ed a considerare quanti problemi son venuti a crearsi con la sua partenza.

La scena cambia

Ora siamo nella sala da ballo e da gioco in casa dell’amica di Violetta, Flora Bervoix, dove si sta svolgendo un ballo mascherato. Violetta entra nel salone al braccio del barone Douphol, vedendo Alfredo al tavolo da gioco si sente smarrita. Stranamente in quella serata Alfredo ha una fortuna sfacciata al tavolo verde; anch’egli vede Violetta e tutta la scena viene monopolizzata dal gioco e dalle provocazioni che Alfredo ha nei confronto del barone. Ma l’invito della padrona di casa ad andare a tavola smorza quella voglia.

Escono tutti ma Violetta chiama Alfredo per un colloquio chiarificatore. Nel suo spiegare lo prega di capire che il suo amante Douphol le ha chiesto di lasciare Alfredo per amore suo. Alfredo come rapito dà un momento di follia richiama gli invitati e apostrofa Violetta in forma molto triviale e volgare lanciando una borsa con dentro del denaro ai suoi piedi. Entra in scena anche suo padre Giorgio Germont, che allontana Alfredo, mentre il barone le lancia il suo guanto di sfida.

Scena teatrale tratta da La traviata, di G. Verdi
Una scena teatrale tratta da La traviata

Atto III

L’azione si svolge nella camera di Violetta Valery: lei è coricata su di un grande letto con grandi cuscini di seta e merletti. E’ assistita dalla buona Annina: si nota lo sforzo e l’affanno con cui respira. Violetta è stremata dal suo male, e dal segreto ancora più doloroso che ha nel suo cuore. Giunge il medico che la conforta. E’ mattina: chiede di bere; il medico parlando sottovoce con Annina però le annuncia che alla povera Violetta, la vita non le concede che poche ore di vita!

Ora Violetta con tanta fatica si alza e continua a leggere la missiva giuntale da Giorgio Germont, che la continua a ringraziare per il segreto mantenuto, e le annuncia il ferimento del barone ad opera di Alfredo. Germont padre, infine, sentendosi colpevole di quell’atto spregevole, arriverrà a chiederle con la dovuta umiltà il suo perdono.

Violetta è angosciata; e solo il ricordo del “passato”, con il suo Alfredo la conforta. Intanto nella strada sottostante si ode il Carnevale con le sue musiche ed i suoi rumori, con tutta la gente che canta e che balla. In quel momento entra Annina per preparla a ricevere una visita: è Alfredo che ritorna e si getta tra le braccia di Violetta chiedendole perdono; i due innamorati finalmente riuniti continuano a pensare ad un futuro “ancora felice“, ma una nuova crisi aggredisce la giovane. Arriva anche Giorgio Germont, ma è troppo tardi; egli voleva stringerla come una figlia. Violetta è morente e dopo un estremo sussulto, spira tra le braccia di Alfredo.

Analisi musicale

Giuseppe Verdi con la partitura de La traviata, aderisce di fatto al Manzoni ed alla sua esortazione nel favorire la “vraie poesie”, e quindi ad uscire dal “langage de convention”, seguendo dunque la linea romantica dettata in quel preciso momento storico. Il personaggio di Violetta Valery viene rafforzato e la sua figura di donna con nuove implicazioni psicologiche ne sono la riprova; un tema così italiano come il “sacrificio d’amore”, è molto più vero ed attendibile nel personaggio creato da Francesco Maria Piave, che nel personaggio di Margherita Gautier, descritto da Dumas nella sua “Dame aux camelias“.

Seguendo anche la forma tripartita di Traviata osserviamo che, qualchessia la sua lettura, “è imposta” dalla sua stessa struttura musicale. Quest’opera è di fatto innovativa, e lo si nota nella frattura tonale fra il Primo ed il Secondo atto, ed alla corona che ne conclude il Primo atto; notiamo quasi la necessità di eseguire di seguito il primo ed il secondo quadro del Secondo atto, mentre questo arriva da una relazione tonale, ovviamente una relazione molto espressiva che si identifica tra i due quadri, nonchè dalla chiusura del primo e dall’apertura del secondo che, battendo lo stesso tempo chiude al 1° quadro con una corona misurata.

Si osservano delle varianti tra il primo preludio ed il preludio all’atto terzo, il primo in maggiore ed il secondo in minore, tutto molto significativo nella complessità espressiva dell’opera. Il primo preludio è il tema dell’idillio, il secondo della rinuncia, che il “preludio di apertura”, aveva già identificato. ma la svolta psicologica dell’opera, il punto focale, lo troviamo nella romanza “Amami Alfredo“.

Il significato

Il vero significato de La traviata, risiede nella consapevolezza e nella sua capacità di “dare amore”; l’amore di Violetta sta proprio nel suo realizzarsi in questo puro e sublimato sentimento, passato attraverso la passione e la rinuncia. Dunque l’“Amami Alfredo”, esposto al preludio è quindi connesso musicalmente e psicologicamente al concretizzarsi degli eventi, in momenti straordinariamente particolari per la loro univocità.

L’importanza del Terzo Atto

Nel terzo atto si nota la ripresa della forma tradizionale, in “Addio del passato” ed in “Prendi – quest’è l’immagine”, stanno tra il recitativo e la romanza. La traviata ha poi un altro aspetto molto importante nell’opera verdiana, assieme alle precedenti opere, Rigoletto e Trovatore; il maestro ha individuato e cercato i suoi tenori, baritoni, soprano e mezzosoprano, voci particolari con diversi accenti e dalle diverse colorature. Queste sono voci vocalmente innovative, portate ad interpretare i ruoli del Duca di Mantova, di Manrico e di Alfredo, le cosidette “voci verdiane“. Questo proprio per la pienezza e la profondità della voce, coniugata e legata alla conoscenza dell’anima umana, studiata e scrutata nel suo intimo. voci che si aprono a nuove esperienze interpretative, dando quindi una maggiore consapevolezza agli interpreti; ruoli che Verdi cercava e voleva.

Nel terzo atto, e solo in questo, Alfredo, si apre nell’estensione e alla nuova impostazione vocale con un “agitato”, in mezzo ad una frase come “Parigi o cara“, carica di fremente poesia e di squisita dolcezza: si tratta di un pezzo classico della composizione, ma che conferisce in questo caso uno spessore sentimentale e romantico molto intenso, unico. Ugualmente potremmo dire per Giorgio Germont, quella tonalità, quella qualità di impostazione voluta dal Verdi, è molto pertinente con il suo ruolo, distaccato ed estraneo, senza sentimento, quasi una voce fuori dal coro che le dice giuste, ma che non prende macchia se non alla fine del terzo atto quando intona la romanza ”Malcauto vegliardo!”. Insistendo sul sì naturale – ben settolineato dal disegno cromatico dell’orchestra – finalmente scopriamo che anche papà Germond ha dei sentimenti sebben tardivi, ed un’anima sincera.

Verdi innovatore

Comprendiamo come Giuseppe Verdi, come in precedenza per Rigoletto e Trovatore, trova in questo grande lavoro quella chiave di lettura che lo introduce al nuovo discorso musicale tardo-romantico nel campo della strumentazione operistica; proprio nell’ultimo atto, nel recitativo quasi parlato, egli, fruisce di quella ricercata analisi psicologica musicale. Di fatto La traviata è la riprova di quanto Verdi sia stato un innovatore.

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Aida, di Giuseppe Verdi: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/aida-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/aida-riassunto/#comments Wed, 08 Feb 2017 09:22:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21251 Aida è un’opera di genere drammatico, tra le più celebri di Giuseppe Verdi. Si compone di quattro atti. Il libretto è di Antonio Ghislanzoni. L’opera si basa su un soggetto originale dell’archeologo francese Auguste Mariette. L’analisi che segue è stata realizzata dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Aida - Verdi - riassunto

La prima

La prima rappresentazione avvenne al Teatro khediviale dell’Opera della Città del Cairo il 24 dicembre 1871. Fu diretta da Giovanni Bottesini. Per l’anteprima italiana sotto la sua diretta supervisione, Verdi scrisse una ouverture, che però alla fine non venne eseguita per un ripensamento, considerando il breve preludio più organico ed efficace. Aida fu scritta in onore e gloria per l’apertura del Canale di Suez. La nuova opera del Maestro Giuseppe Verdi, inaugurò nel contempo anche il nuovo teatro della capitale egiziana.

La prima rappresentazione in Italia avviene invece l’8 febbraio 1872, al teatro alla Scala di Milano.

Aida, la genesi dell’opera

Il Maestro Giuseppe Verdi ricevette l’incarico dall’illustre collega Camille du Locle direttore dell’Opera-Comique di Parigi. Dopo una titubanza iniziale, ebbe per quest’opera un interesse particolare. Il lavoro fu eseguito in lingua francese, con la collaborazione dello stesso du Locle per la prosa. L’interesse del Maestro per questa nuova stesura, fu certamente l’esigenza di creare una fantasmagorica grand-opéra, strutturandola nel nuovo contesto musicale dell’epoca.

Aida fu creata scena per scena, per un totale di 4 atti e 7 quadri, sempre con l’aiuto dell’amico du Locle. Per quanto riguarda il libretto italiano, da quanto si evince dai carteggi dell’epoca, Verdi aveva contattato Giuseppe Ghislanzoni, fine letterato e uomo di cultura. Ghislanzoni era molto conosciuto nell’ambito del teatro del tempo.

Potremmo confermare anche che questa storia, fu immaginata dall’egittologo francese Mariette. Verdi però non la diresse al Cairo. Inviò – come da accordi – una persona di sua fiducia: il Maestro Giovanni Bottesini.

Queste erano le clausole che Verdi concordò con il Sovrano dell’Egitto: l’opera doveva essere pronta entro la metà dell’anno 1871, per i mesi di giugno o luglio, per una somma di centocinquantamila franchi.

Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886
Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886

Considerazioni sull’opera

Si tratta di un’opera del Verdi maturo. Essa divenne in breve tempo molto popolare, come lo erano già Rigoletto, Traviata, Trovatore, ed altre ancora.

Voglio ricordare anche che uno strumento musicale, creato il secolo prima da Giovanni Barbieri da Cremona, ossia l’organo a rullo o a cartone – chiamato più semplicemente Organetto di Barberia – veicolò queste opere in tutto il mondo. Dall’Europa alle Americhe, fino all’Asia, tali opere erano cantate in italiano, e conosciute dal popolo. Fu anche grazie a questo strumento che si diffuse la conoscenza e l’amore per la nostra lingua italiana in questi continenti.

Il Maestro Giuseppe Verdi volle con questo nuovo lavoro di ricerca e di sperimentazione, l’Aida, colmare quel desiderio, quel suo incessante cercare. Ciò che fece fu creare rinnovandosi a nuove tematiche di ordine armonico e orchestrale. Da questo nacque una monumentale scenografia musicale, per scender poi nella struttura psicologica dei singoli interpreti. A parer mio, questo suo trapassare, lo fece cercando e trovando in piena verità teatrale grandi squarci collettivi.

Egli intimisticamente entrò nelle pieghe nell’anima dei personaggi di Aida, Radamès, Amneris e Amonasro, creando quell’impalpabile tessuto connettivo, che colpì lo spettatore dell’epoca decretandone l’assoluto trionfo.

Aida, trama e riassunto

Atto I

Scena Prima. L’azione si svolge nella sala del trono nella reggia di Menfi.

Durante una spedizione militare contro l’Etiopia, i soldati egizi catturano la principessa Aida. Ignorando la sua vera identità, la portano a Menfi e la mettono in schiavitù.

Suo padre – il Re di Etiopia Amonasro – organizza un’incursione per liberarla e ricondurla a casa. Non sa che sua figlia si è innamorata del giovane condottiero Radamès, il quale ricambia questo suo sentimento.

Purtroppo anche Amneris, figlia del Re d’Egitto, si è invaghita del giovane. La principessa Amneris intuisce subito che possa esserci qualcosa tra la giovane schiava e il suo amato. Cerca allora subdolamente di consolare Aida, con lo scopo di scoprire qualcosa in più.

Il Re apprende le ultime notizie dal confine: l’esercito Etiope sta marciando contro l’Egitto. A Radamès viene concesso il rango di Duce dell’esercito egizio, con il compito di fermare l’avanzata dell’esercito di Amonasro.
Aida è contrastata tra l’amore per la Patria e l’amore verso il suo Radamès.

Scena Seconda. Interno del tempio di Vulcano a Menfi.

Avvengono cerimonie solenni e la danza delle sacerdotesse per l’investitura di Radamès come comandante in capo.

Radamès - Aida
Aida, scena tratta da una rappresentazione: Radamès viene nominato capo delle guardie.

Atto II

Scena Prima. Nella camera di Amneris

Amneris riceve nelle sue stanze la schiava Aida. Con malizia finge che Radamès sia morto in battaglia per spingerla a dichiarare il suo amore per lui. L’inganno di Amneris funziona e la reazione involontaria di Aida la tradisce, rivelando i suoi sentimenti.

A questo punto anche Amneris mette le carte in tavola e dichiara il suo amore per Radamès. Come potrebbe un’umile schiava competere con la figlia del Faraone? Mossa da orgoglio Aida svela la sua vera identità di figlia del Re Etiope.

Dal fronte arrivano notizie di vittorie e Amneris costringe Aida ad assistere al trionfo dell’Egitto e alla sconfitta del suo popolo.

Scena Seconda. Nella città di Tebe: la porta è festosamente addobbata. I soldati e il popolo sono festanti.

Una marcia trionfale accoglie il ritorno vittorioso di Radamès. Come ricompensa, il Re gli concede qualsiasi cosa desideri. I prigionieri etiopi sono condotti al cospetto del Re. Tra di loro c’è anche Amonasro. Aida corre a ricongiungersi con il padre, tuttavia le loro vere identità rimangono ancora sconosciute agli egizi. Il Re Etiope è infatti dato per morto in battaglia.

Radamès, per amore di Aida, esprime il desiderio offertogli dal Re, e chiede il rilascio di tutti i prigionieri etiopi.
Il Re Amonasro, pieno di gratitudine verso Radamès, lo dichiara suo successore al trono, offrendogli la mano di Amneris.

Tutti i prigionieri etiopi vengono rilasciati tranne Aida e Amonasro. Essi sono trattenuti su consiglio del sommo sacerdote Ramfis. Ciò per evitare che gli etiopi cerchino la vendetta dopo la cocente sconfitta.

Atto III

La scena si sposta sulle rive del Nilo. E’ notte: si scorge sullo sfondo il tempio di Iside.

Mentre Ramfis conduce Amneris al Tempio per propiziare la dea alla vigilia delle nozze, Aida attende nascosta Radamès. Ma giunge prima suo Padre, che cerca di convincere la figlia a farsi dire dall’amato, quale via seguiranno le truppe egizie per invadere l’Etiopia.

Nonostante che il padre le rammenti con patetici accenti la patria lontana, Aida si ribella a lui (Rivredrai le foreste imbalsamate).

Giunge Radamès. Amonasro si nasconde. Aida propone all’amato di fuggire dall’Egitto. Radamès conosce un sentiero per arrivare in Etiopia: non sapendo di essere sentito egli indica le gole di Napatà. Appare Amonasro, si fa riconoscere, e Radamès capisce d’aver rivelato un segreto tradendo la sua patria.

Contemporaneamente sbuca Amneris proveniente dal Tempio, che sentendo anch’essa la parole di Radamès, grida al tradimento. Amonasro la vuole uccidere, ma Radamès lo ferma. Consegna poi la spada a Ramfis facendosi prendere prigioniero, mentre Amonasro fugge con Aida.

Atto IV

Scena Prima. Nella fastosa sala del palazzo del Faraone.

Amneris, sapendo che Radamès è innocente, lo supplica di discolparsi. Ma egli si rifiuta, condannandosi per l’incauto gesto. Durante il processo, egli tace, non pronunciando una sola parola in propria difesa.

Amneris si appella alla pietà dei Sacerdoti, ma nonostante il suo accorato appello, Radamès viene condannato a morte per alto tradimento. Viene portato nelle prigioni del Faraone.

Scena Seconda. L’interno del tempio di Vulcano e la tomba di Radamès. La scena è divisa in due piani: il piano superiore rappresenta l’interno del tempio splendente d’oro e di luce; il piano inferiore, un sotterraneo.

La condanna prevede che Radamès sia sepolto vivo. Radamès crede di essere solo nella sua cripta, ma poco dopo si accorge che Aida si è nascosta lì per poter morire insieme a lui. I due amanti confermano l’amore reciproco e accettano il loro triste destino. Mentre questi attendono che l’alba porti via le loro pene, Amneris piange e prega sopra la loro tomba.

Analisi musicale

Dopo il preludio, che già regala una tonale intimità drammatica, la successiva introduzione con l’aria: “Celeste Aida“, coniugano un Giuseppe Verdi essenziale e popolare piuttosto che emotivo, e di effetto. E’ una perfetta ed impressionante orchestrazione, che crea un continuo rapporto dinamico, distribuendolo sapientemente nella sua scelta timbrica e di colore, come scriveva Eduard Hanslick.

Nel procedere nella conoscenza dell’opera incontriamo uno struggente “allegro – giusto poco agitato”, che precede il “Numi, Pietà“, di Aida. E’ il vero diamante della produzione verdiana.

Quindi vi è la scena della consacrazione ed il finale che chiude il primo atto. Questo passaggio colorisce timbricamente l’orchestra, accelerandone armonicamente tutto l’impianto scenico e di canto, facendoci così capire cosa intendeva Verdi per Grand-Opéra.

Nel secondo atto

L’impatto che avvertiamo immediatamente nel secondo atto, con la sua introduzione, è quello di stabilire un nuovo modo stilistico. Impressionista nel proporre lo spartito e condividerne i fatti – sino alla danza dei piccoli mori.

Segue la scena tra Amneris e Aida nel suo drammatismo più letterale. Furore, pietà, dolore sono coniugati in maniera apertamente falsa e bugiarda. Cogliamo nell’arco musicale una calma fantastica nell’intonare: “Numi, pietà“, di Aida. Esso è immediatamente squarciato dal gran finale del secondo atto, con l’inno, la marcia trionfale e le danze. Grande spazio a quest’ultime, per il meraviglioso contributo sinfonico, l’ampiezza e la molteplice varietà dei loro inserti esotici.

Il gran finale con cui Giuseppe Verdi termina l’atto, lo porta a toccare vette altissime, come vero ed unico mito di questo periodo storico musicale. Popolare? …Anche! Ma unico nell’interpretare un rapporto così stretto e carico di pathos fra l’orchestra ed il palcoscenico. E’ un’osmosi che si chiude con la ripresa del tema della marcia trionfale. E’ semplicemente grandioso!

Nel terzo atto

Entrando in punta di piedi nel terzo atto, notiamo lo scorrere pacifico del Nilo. Davanti a noi si staglia un disegno impressionista, accompagnato dal musicare di un flauto, che è, fra i più suggestivi effetti timbrici del Verdi.

Lo strumento è magicamente suonato per ricordare il vellutato ed intimistico momento d’amore. E anche il momento più violentemente drammatico di quest’opera. Direi che questo il più musicalmente riuscito, dei quattro atti.

Ci attende ora il duetto Amonasro – Aida, fantasticamente composto da voci Verdiane, con l’ “andante assai sostenuto”, che introduce: “Pensa che un popolo vinto“. Qui la voce del baritono vien tenuta ppp. (piano pianissimo), con un malcelato grido, preparando la successiva scena di Aida e Radamès, colma di un particolare rilievo drammatico e psicologico che ritroviamo anche alla fine dell’atto, con discrepanze tenorili di effetto e di sostanza.

Nel quarto atto

Entrando nel quarto atto rileviamo una straordinaria e misurata, quanto calibrata, concertazione di taluni Leitmotive, concernenti il personaggio di Amneris. La principessa combattuta tra l’amore per Radamès e la ragion di stato, si esprime in finezze vocali tradotte in grida e singhiozzi. Vi è un drammatismo che esalta senza soffocare una vasta tessitura vocale. Continuando con l'”allegro agitato” “Chi ti salva sciagurato“, con un andamento strofico da cabaletta.

Successivamente arriva in scena il Gran Sacerdote accompagnato dal suo regale seguito. Amneris in attesa della cerimonia politico-religiosa, mantiene quell’impulso iroso contro i rituali sacrificali del Gran Sacerdote e della Corte. Qui vi è un colpo di genio del Maestro che capovolge di fatto tutte le precedenti e fastose scene. Amneris intona la romanza: “Oh infami! Ne’ di sangue son paghi giammai. E si chiaman ministri del ciel“.

Il gran finale

Ora seguiamo il gran finale nelle sottostanti celle – con l’analisi della scena – recitativo: “La fatal pietra sovra me si chiuse“. E il duetto: “O terra addio“. Radamès cammina nell’oscurità e nel silenzio più profondo, quando intravede una figura venirle incontro. E’ Aida. Ella spiega a Radamès di aver presagito la sua condanna e di essersi introdotta nella tomba per morire assieme a lui. Aida intona: “Presago il core della tua condanna“.

L’accompagnamento orchestrale è una successione di minime sul re, eseguite dai clarinetti bassi, fagotti, viole e dai violoncelli rinforzati dalla gran cassa che illustra l’effetto espressivo e funebre. Segue un rintocco di campane come presagio di morte.

Continuando ad analizzare la melodia: “O terra addio“, attraverso il suo ripetuto ascolto, entriamo nella cabaletta finale. E’ uno straordinario finale, uno dei più grandi nella storia dell’opera. Notiamo che questa melodia vien ripetuta ben 12 volte, prima da Aida, poi da Radamès ed infine all’unisono da entrambi.

Contemporaneamente udivamo il canto sacro dei sacerdoti inneggiare: “Immenso Fthà“, dedicato agli Dei dell’Egitto.

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Commento

Le considerazioni ovviamente sono d’obbligo quando si pensa che in Baviera viveva Richard Wagner che con le sue liriche ed i suoi poemi creava un nuovo modo di concertare. Per questo possiamo ipotizzare che all’epoca ci fossero forti diatribe e parallelismi tra le musiche dei due Grandi e Geniali musicisti. Ma abbiamo ragione di credere che, leggendo gli spartiti dell’uno e dell’altro nell’epoca dell’Aida, entrambi espressero la propria genialità, creando e cercando nuove sperimentazioni di ordine armonico ed orchestrale.

Percorsero quindi la stessa strada, ma con una diversa visione e con una diversa bellezza musicale. Giuseppe Verdi lo fece con sfarzose parate, marce trionfali dai colori accesi, con la sua diligente elaborazione tecnica, creando una unità di stile, e quella coscienziosa e drammatica linea, che troveremo nelle sue opere, sino ad Otello.

Di contro il grande tedesco creò quella linea epica – mitologica e fantastica del Mito Teutonico, sdoganando così tutta una serie di drammi contenuti nella storia e nella letteratura Germanica. Si tratta du musica potente ed imperativa, adatta al sentir del suo popolo.

Mentre il Verdi, allunga la schiera dei grandi musicisti italiani, implementando le pagine del nostro “Melodramma”.

Altra musica in Europa? Certamente SI’! Un modo di concepire e di proporsi a nuove ed opposte idee nel moderno sentire. Innovare è il credo, di questo nuovo periodo musicale.

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L’Otello di Giuseppe Verdi https://cultura.biografieonline.it/otello-verdi/ https://cultura.biografieonline.it/otello-verdi/#comments Wed, 13 May 2015 12:30:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14257 Tratto dalla celeberrima tragedia di Shakespeare (The Tragedy of Othello, the Moor of Venice), basato su libretto scritto da Arrigo Boito, l’Otello di Giuseppe Verdi è un dramma lirico in quattro atti; la prima rappresentazione andò in scena a Milano al Teatro alla Scala, il 5 febbraio 1887. Fu la penultima opera del grande compositore italiano.

Otello - riassunto

Personaggi e interpreti

Gli interpreti della prima rappresentazione furono : Francesco Tamagno (Otello), Victor Maurel (Jago), Giovanni Paroli (Cassio), Vincenzo Fornari (Roderigo), Francesco Navarrini (Lodovico), Napoleone Limonta (Montano), Angelo Lagomarsino (Araldo), Romilda Pantaleoni (Desdemona), Ginevra Petrovich (Emilia); Carlo Ferrario realizzò le scene ed Alfredo Edel i costumi.

Grazie a valenti direttori come Mahler e Walter, Toscanini, Panizza, Serafin, Kleiber, Muti, Von Karajan, Giuseppe Sinopoli, l’Otello di Verdi è stato nella sua storia rappresentato nei teatri di tutto il mondo, dalla Scala al Covent Garden di Londra, dal Metropolitan di New York, in tutta l’Asia.

Pressoché tutti i soprani ebbero in repertorio la parte di Desdemona, ma furono pochi i tenori, a cimentarsi nella parte di Otello, data la poco agevole tessitura, ricordiamo il primo ed il più grande, Francesco Tamagno, nonché i wagneriani Slezak ed in tempi più recenti, Vickers, a specialisti come Zenatello e Martinelli, Vinay e Merli fino a Del Monaco, interprete di ben 648 esecuzioni, seguito da Pier Mirando Ferrero con 596, e da Bruno Bastian.

Interprete degno di nota è stato il bravo Placido Domingo; più recenti sono il lituano Aleksandrs Antonenco, Wladimir Galouzine; fra i baritoni si devono menzionare Amato, De Luca, Titta Ruffo, Stabile, Tibbett, Gobbi, Bastianini, Renato Bruson, Ruggeri, Capuccilli e Leo Nucci.

Riassunto e trama dell’Otello di Verdi

Il riassunto, la prolusione e l’analisi musicale che seguono sono state redatte dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Otello di Giuseppe Verdi - scena - Teatro di Modena
Foto di una scena tratta dall’Otello di Giuseppe Verdi (Teatro di Modena)

La storia è ambientata in una città di mare nell’isola di Cipro alla fine del XV secolo.

Atto primo

Popolo sul piazzale esterno al castello del governatore dell’isola di Cipro.

La folla sul molo attende Otello, la sua nave con il mare in burrasca ha difficolta’ d’ attracco, il popolo attende pregando l’arrivo del nuovo comandante del presidio veneziano, continuando a pregar per la sua sorte: “Dio, fulgor della bufera“.

Dopo aver trionfato sui musulmani e superato indenne la tempesta di mare: l’ “Esultate!”, questa amata ed odiata entrata, e’ senza dubbio una delle più impressionanti performance per tenori.

Otello viene entusiasticamente accolto dagli abitanti dell’isola: “Fuoco di gioia“. Fanno eccezione Roderigo, innamorato di Desdemona, e l’alfiere Jago, che, mosso dall’odio verso il suo signore, inizia a tramare contro di lui, coinvolgendo il suo favorito Cassio in abbondanti libagioni: “Innaffia l’ugola“.

Ubriaco, questi perde il senno e ferisce in duello Montano, mentre Jago fomenta una rissa, sedata da Otello. Il moro degrada Cassio, poi si allontana teneramente insieme a Desdemona, per trascorrere la prima notte di nozze: “Già nella notte densa“.

Atto secondo

Nel salone delle guardie al pianterreno del castello.

Jago perfeziona il suo disegno, volto al progressivo annientamento delle certezze d’Otello, e spinge Cassio a rivolgersi a Desdemona affinché perori la sua causa col marito; poi riflette sul suo destino in un monologo: “Credo in un Dio crudel“.

Incontrando Otello l’alfiere insinua nell’animo di lui, che ha scorto Cassio a colloquio con Desdemona in un angolo del giardino, il sospetto dell’infedeltà della moglie. Ma vedendo la consorte accolta con trasporto dagli abitanti dell’isola: “Dove guardi splendono / Raggi, avvampan cuori“, Otello dimentica per qualche istante i dubbi.

Quando ella intercede perché Cassio riacquisti il suo grado di capitano, l’ira del moro si riaccende. Dalle mani di lei cade il fazzoletto donatole dal marito in pegno d’amore, che Jago si fa consegnare da Emilia, dama di compagnia di Desdemona, progettando di nasconderlo in casa di Cassio.

Desdemona chiede l’indulgenza dello sposo per averlo turbato: “Dammi la dolce e lieta / parola del perdono“. Ma Otello si va convincendo che il suo mondo di certezze è oramai tramontato: “Ora è per sempre addio, sante memorie“, e Jago gli promette che gli farà vedere la preziosa seta in mano al suo presunto rivale.

L’alfiere lo inganna ulteriormente narrandogli di aver udito il rivale in sogno pronunciare frasi amorose all’indirizzo di Desdemona: “Era la notte, Cassio dormiva“. Otello, ferito nel suo orgoglio di giovane sposo, giura solennemente di vendicarsi: “Sì pel ciel marmoreo giuro“.

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Atto terzo

Salone d’onore del castello.

L’araldo annuncia l’arrivo degli ambasciatori veneziani, e Jago annuncia a Otello che presto trarrà Cassio in suo presenza. Giunge Desdemona, che tenta nuovamente di difendere la causa del capitano: “Dio ti giocondi, o sposo dell’alma mia sovran“, ma quando non può esibire il fazzoletto, che Otello ha chiesto di vedere, ella subisce la furia del marito che monta sino all’acme , costringendola ad allontanarsi sconvolta.

Ferito nell’intimo, Otello sfoga in un monologo tutta la sua amarezza: “Dio, mi potevi scagliare“. Indi, Jago lo spinge a celarsi per ascoltare il dialogo successivo in cui l’alfiere, con l’inganno, induce Cassio a esibire il fazzoletto, ritrovato in casa sua e creduto l’omaggio di un’ignota corteggiatrice: “Questa è una ragna“.

Otello si persuade dell’adulterio, ma squillano le trombe che annunciano l’arrivo delle navi veneziane, Cassio s’allontana e il moro rende partecipe Jago della sua decisione di uccidere i colpevoli.

Entrano Lodovico, Montano, Desdemona e i dignitari: leggendo il messaggio del Doge che lo richiama a Venezia Otello perde la ragione, e insulta la moglie. Desdemona piange, consolata da tutti i presenti: “A terra, … sì … nel livido / Fango … percossa … io giaccio“, mentre Jago suggerisce le prossime mosse a Otello e a Roderigo. Il moro, in preda a una crisi, sviene.

Tutti si allontanano in preda all’orrore e Jago contempla il suo trionfo, mentre da fuori risuonano inni in onore del moro.

Desdemona e Otello
Desdemona e Otello

Atto quarto

Nella camera del talamo di Desdemona.

La protagonista congeda con mestizia Emilia moglie di Jago, narrandole la storia dell’ancella Barbara: “Piangea cantando la canzone del salice” e, dopo aver pregato: “Ave Maria“, si prepara per la notte in attesa di Otello.

Nonostante ella si proclami innocente, Otello, entrato nella stanza, la soffoca prima che Emilia, tornata sui suoi passi, dia l’allarme. Accorre Cassio dopo aver ucciso Roderigo nell’agguato in cui lui stesso avrebbe dovuto soccombere, seguito da Lodovico, Montano e Jago, che fugge dopo che le sue malefatte sono state svelate.

Allora Otello, dopo aver dato l’addio alla vita in: “Niun mi tema“, estrae un pugnale e si trafigge; morendo intona: “Pria d’ucciderti … sposa … ti baciai“, poi appoggia le labbra su quelle innocenti di Desdemona e spira.

Analisi musicale

Nell’Otello di Giuseppe Verdi giunge a compimento la complessa evoluzione del compositore verso il superamento degli schemi formali dell’opera tradizionale a pezzi chiusi, in nome di un’articolazione drammatica continua.

L’opera in quattro atti è uno degli esiti più alti della tarda maturità verdiana per l’incisiva forza drammatica e l’acuta penetrazione musicale del testo shakesperiano, se c’e’ stato un fondamentale cambiamento rispetto all’opera di Shakespeare nella figura di Jago, che nell’opera impersonifica colui che a causa dell’invidia, gelosia, perfidia, trascina alla morte Desdemona ed Otello, nell’opera lirica egli diventa la personificazione stessa del male, una figura satanica che prova gioia nel distruggere il bene.

Il Cigno di Busseto, dopo la lettura dal libretto di Arrigo Boito, ideò per il debutto del suo Otello una sofisticata struttura musicale, dal potente impatto con un’accordo a piena orchestra su cui si alza il sipario, segue un ventaglio di effetti consolidati: scale cromatiche dei legni, sibili dell’ottavino e meno usati, come il cannone e il pedale grave dell’organo su un piccolo cluster, destinato per oltre duecento battute a incarnare il sordo brontolar dell’uragano.

Verdi mette subito in risalto il popolo che dimostra all’unisono gioia e felicità per il nuovo Duce, contrapponendo l’odio ed il rancore di Jago e di Roderigo. Le immani proporzioni di questa bufera mettono piuttosto in risalto il valore del protagonista, ed è l’unica occasione di percepire la reale portata del suo passato.

Nell'”Esultate!” di Otello si concentra dunque non solo l’eco della lotta appena sostenuta, ma anche quella delle mille battaglie, di una vita eroica che gli ha meritato il grado. La maligna sottigliezza di Jago emerge poi nel brindisi: “Innaffia l’ugola“, grazie allo stridente contrasto fra le strofe in si minore e l’insinuante linea cromatica del suo canto nel ritornello: “Beva, beva, con me“.

La saldatura fra questo numero in continuo crescendo, il precedente coro “Fuoco di gioia“, ed il successivo duello è talmente riuscita da generare l’impressione che il “piano” del baritono prenda forma all’impronta.

Chiude il primo atto il duetto con Desdemona, introdotto da un quartetto di violoncelli, intima sonorità venata da un brivido erotico grazie all’accordo aumentato di sol bemolle maggiore su cui sosta la voce del moro. In queste pagine nulla ricorda la forma tradizionale, a cominciare dalla struttura metrica del testo: dapprima una successione di versi sciolti : “Già nella notte densa“, resi più musicali dall’impiego dell’allitterazione; poi una serie di quartine di endecasillabi: “Mio superbo guerrier, quanti tormenti“, in cui Boito predispone anche la possibilità di mettere in rilievo frasi significative, come il quinario: “Te ne rammenti”, di Desdemona; infine il ritorno all’inizio.

Su questa base Giuseppe Verdi costruisce una forma sfaccettata, oscillante tra il recitativo-arioso e ampie frasi cantabili sempre diverse, che non si cristallizzano mai in una forma chiusa.

Cangiante come lo stato d’animo dei personaggi è anche l’inquieto peregrinare delle tonalità, che sembra trovare tregua quando Otello reclama : “un bacio…”, unendo la sua voce a un motivo dell’orchestra che tornerà, come un ricordo della felicità perduta, prima e dopo la morte di Desdemona. Ma la conclusione vira a re bemolle maggiore, tonalità inaspettata, che schiarisce improvvisamente l’atmosfera gravida di presagi.

Vien Venere splende” è un invito esplicito al connubio che culmina nel la bemolle emesso dal tenore in pianissimo e viene seguito dal breve riepilogo dei violoncelli. Questo duetto rimarrà l’unico scorcio sottratto alle necessità del dramma, una finestra sulla fugace felicità amorosa del protagonista sinora mai spalancata da Verdi in termini di così aperta sensualità.

L’inizio del secondo atto propone una terzina di violoncelli e fagotti che invade progressivamente il tessuto orchestrale a partire dal recitativo di Jago, per imprimersi nell’accompagnamento al successivo: ”Credo”, pagina di diabolica bellezza.

La sua voce conosce mille inflessioni, ora recita, ora sussurra, ora declama, ora canta con dolcezza, ora erompe in un riso fragoroso. Nel monologo ideato da Boito, il baritono esprime convinzioni estranee al personaggio di Shakespeare, pure le fattezze scapigliate del brano identificano Jago, con la negazione di qualsiasi valore e verità, per cui: “La Morte è il Nulla”.

L’indifferenza per ogni valore morale permette all’alfiere d’imporsi su Otello nel successivo colloquio, perché sa fargli intendere quel che vuol sentire e vedere ciò che vuol vedere, deformando i contorni originali delle situazioni. La reazione del moro è segnata dal continuo cambiamento dello stile recitativo nel canto, soprattutto da quando la frase: ”ciò m’accora”, viene pronunciata da Jago per connotare negativamente l’incontro fra Cassio e Desdemona.

L’incubo viene messo a fuoco quando compare la protagonista: la visione dell’innocenza della moglie ridona temporaneamente al moro fiducia, immediatamente smarrita nel recitativo seguente. Tutto il quartetto, poi, ruota intorno all’angelica melodia di Desdemona sinché la linea vocale del tenore emerge nella conclusione contorta cromaticamente, contaminata dal ‘veleno’ del suo alfiere.

Dopo il solenne congedo dalla propria gloria oramai tramontata, dove il canto del tenore si eleva diatonico per l’ultima volta, il perfido ‘sogno di Jago’ fa lievitare la tensione sino al culmine del delirante giuramento su cui cala il sipario: qui Verdi recupera la forma dell’antica cabaletta per concedere a Otello un ultimo istante di fierezza.

Nel duetto all’inizio del terzo atto, Verdi oppone due mondi impenetrabili: Desdemona, la cui ingenua innocenza è condizione altrettanto assoluta della cieca gelosia del marito, seguita a perorare la causa di Cassio, Otello vuole la conferma dei suoi sospetti.

Nella sezione lirica: “Io prego il ciel“, la melodia della donna passa, amplificata con grande effetto emotivo, ai violini, e anche in quella circostanza Otello la contrasta col declamato: si apre qui lo spazio recondito dell’animo del protagonista che deforma l’invocazione della moglie in un richiamo erotico rivolto all’amante. Il tenore, rimasto solo, intona: “Dio mi potevi scagliar“, monologo in due tempi, in cui vengono inglobati l’intervento di Jago che annunzia l’arrivo di Cassio, l’urlo di gioia sul si bemolle acuto e la drammatica ricaduta nel registro grave.

Il protagonista dà motivazioni inequivocabili della propria sofferenza declamando fino allo straziante cantabile, che ci spalanca il mondo delle sue sofferenze.

Il breve duetto tra Jago e Cassio serve a provare un tradimento che non esiste, ma è anche l’occasione di udire un vero miracolo di leggerezza orchestrale: l’intrico si dipana nel disegno danzante degli archi mentre le voci dei due interlocutori sussurrano sullo sfondo, chiosate da Otello, in primo piano, con frasi disperate che assumono un rilievo potentissimo.

Improvvisamente squilli di tromba, corni, tromboni, annunciano lo sbarco dei dignitari veneziani: il moro si reca a incontrarli, ma non è più in grado di contenere le proprie reazioni e si accascia: di fronte a lui Desdemona intona il più grande e al tempo stesso problematico di tutti i concertati del teatro verdiano. Peraltro il quadro d’insieme s’impone come tempo interiore della prostrazione del protagonista per istanti intensissimi, fino a che il moro si riscuote e maledice la sposa.

Tutti escono e Otello delira, menzionando in modo sconnesso la frase che è origine del suo dramma: “ciò m’accora!”, e “il fazzoletto“, entrambi su una linea cromatica, a estremo coronamento di quella coerente strategia tesa a caratterizzare il personaggio mediante la relazione fra lo stile vocale, la sua psicologia e il meccanismo in atto.

Apre il quarto atto la grande scena di Desdemona, intrisa di tocchi di poetica evocazione nell’intensa “Canzone del salice”, che si chiude col disperato addio a Emilia. E ancora l’”Ave Maria“, ripetuta una seconda volta tra sé e sé, di cui si odono principio e fine mentre la melodia sta in orchestra, procedimento che accorcia il tempo del dramma verso le ultime parole: “nell’ora della morte”.

La sequenza dell’uxoricidio è aperta da una sinistra melodia dei contrabbassi, dopodichè la reminiscenza del motto del bacio s’incarica di segnare la continuità del sentimento che porta Otello al delitto.

Nel finale, pagando con la propria vita, il protagonista riconquisterà una dimensione umana, a partire dal “Niun mi tema“, desolato monologo dalle fattezze Frescobaldiane, declamato sugli accordi in ”ppp”, dell’orchestra.

Poco per volta il canto riacquista l’espressione lirica che l’azione di Jago aveva corrotto, e il sentimento amoroso liberato da ogni scoria, cresce sino alle ultime visionarie battute, quando Otello rivive il momento in cui era entrato nella camera della sposa.

Dopo il lamento delle ancelle, la musica si cristallizza nel motto del bacio. Pochi minuti prima quel gesto, avea destato la sposa, ora segna l’attimo in cui realtà e delirio diventano tutt’uno: l’esegèsi del dramma shakespeariano rinnovato sino alla morte.

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Rigoletto, trama e riassunto https://cultura.biografieonline.it/riassunto-rigoletto/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-rigoletto/#comments Fri, 31 May 2013 12:31:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7402 Rigoletto è il titolo di una delle opere più note e belle del compositore italiano Giuseppe Verdi. Il libretto è di Francesco Maria Piave: la vicenda è tratta dal dramma di Victor Hugo Le Roi s’amuse (“Il re si diverte”). La prima rappresentazione del Rigoletto verdiano, una tragedia divisa in tre atti, andò in scena presso il Teatro La Fenice di Venezia il giorno 11 marzo 1851.

La prolusione seguente è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini.

Rigoletto, opera di Giuseppe Verdi
Rigoletto: una scena

Cortigiani, vil razza dannata” (Dall’Atto II)

Giuseppe Verdi, era impegnato a Trieste per la partitura di Stifellio, commisionatogli dal Teatro Grande. Era il 1850, ed altre partiture in quel straordinario anno di produttività, attendevano di essere terminate dal Maestro, aveva dei doveri contrattuali con la Fenice di Venezia.

Francesco Maria Piave, ricevette una lettera dal Maestro che era sua intenzione musicare un soggetto particolare, con personaggi che avevano già destato scalpore se non propriamente scandalo nella Parigi del 1832: “Le Roi S’Amuse”, di Victor Hugo. Nonostante le insistenze di F. M. Piave presso il direttore della Fenice, Carlo Marzari nulla potè contro la Censura, che vietava a Venezia di rappresentare un Re come un libertino cinico: il librettista ed il compositore accettarono di apporre alcuni cambiamenti all’originale romanzo francese. Il Protagonista, Francesco I, divenne il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, e furono cambiati numerosi altri nomi dei personaggi. Verdi però non volle il Re come protagonista della sua opera bensì il Gobbo, ossia Rigoletto buffone di corte. Da qui la scelta definitiva del titolo Rigoletto – dal francese: “Tribolet”, cambiato, sempre a causa della censura, in “La maledizione”.

La sera dell’11 marzo 1851, avvenne la prima al Teatro La Fenice di Venezia, immenso fu il successo di pubblico e di stampa, con la Brambilla in – Gilda – soprano, Felice Varesi Rigoletto-baritono, e Raffaele Mirate nel ruolo del Duca di Mantova.

Rigoletto è in ordine cronologico la prima opera che vienne definita come “Trilogia Popolare “, di Peppino Verdi – Traviata – Rigoletto – Trovatore.

La trama

Primo atto

La scena si svolge all’interno del Palazzo Ducale di Mantova, il Duca parlando con il cortigiano Borsa, le confida il suo particolare interessamento per una fanciulla incontrata in chiesa, mentre nel contempo corteggia la contessa di Ceprano, esprimendo dei giudizi arditi e libertini. Il Duca dice tutto ciò cantando una ballata, e, mentre canta, il buffone di corte Rigoletto si beffa del di lei marito. Presente alla scena c’è il Cavalier Marullo, ospite alla festa di Palazzo Ducale, egli rivela ad altri cortigiani che Rigoletto tutte le notti si reca a casa di una presunta amante. Questa notizia innesca nei partecipanti la voglia di schernire e deridere il buffone rapendogli la figlia la stessa sera. Il Conte di Morone arriva alla festa accusando il Duca di aver corteggiato la figlia ed oltraggiato il suo onore. Il Conte lancia quindi al Duca ed al buffone una terribile “Maledizione”; immediatamente il Conte viene circondato ed imprigionato dagli armigeri.

Seguendo la successiva scena, ci spostiamo in un vicolo dove c’è la casa di Rigoletto ed il palazzo di Ceprano; è notte: vediamo arrivare a casa Rigoletto seguito da Sparafucile che si presenta come un sicario di cui potersi fidare; Rigoletto sente le esternazioni del sicario e lo allontana prendendo il suo nome. In casa la figlia Gilda attende il padre che l’abbraccia teneramente. Giovanna, la governante di Gilda, fa furtivamente entrare il Duca. Rigoletto ritorna al Palazzo Ducale mentre il giovane Duca si presenta a Gilda come un povero studente di nome Gualtiero Malde’: “il giovane che l’ha vista ed incontrata in chiesa”.

Tra i due giovani intercorrono momenti di gioia e frasi d’amore appassionato. Un rumore… un rumore molto forte proviene dall’esterno… il Duca scappa! … Chi sono? …Ma sono i cortigiani venuti a rapire la “presunta amante”, di Rigoletto, ovvero sua figlia. Questi di ritorno alla propria dimora si imbatte in codesti sgherri che gli propongono di collaborare in quell’impresa, facendogli credere, “dopo averlo bendato”, che si tratti del rapimento della Contessa di Ceprano. Solo dopo aver tolta la benda si accorge dell’inganno, cioè del rapimento di Gilda. Qui intona “Ah, la maledizione”.

Secondo atto

Il Duca, nel suo castello, lamenta la scomparsa della fanciulla e, quando i cortigiani mettono al corrente Sua Grazia che Gilda e stata rapita e condotta da loro nei suoi appartamenti, si precipita a farle visita. Arriva Rigoletto che, disperato, cerca la figlia e viene sbeffeggiato dai cortigiani. Saputo che Gilda è appartata con il Duca, li supplica di aiutarlo a ridargli la figlia, essa però giunge e le confessa dell’onor perduto. Rigoletto giura vendetta “tremenda vendetta”, mentre Monterone vien portato al patibolo.

Terzo atto

La scena si sposta sulla sponda del Mincio, Rigoletto ha condotto Gilda nei pressi dell’osteria di Sparafucile, dove il Duca con un ennesimo travestimento è intento a corteggiare la sorella di Sparafucile. La nuova canzone del Duca fa capire quanto bassa sia la sua considerazione per le donne. Anche Gilda lo ode – nascosta tra il fogliame ed il muro, segue la scena da uno spiraglio – benché si renda conto della disonestà dell’amato, ne rimane innamorata. Le manifestazioni del Duca verso la leggera Maddalena, causa la costernazione di Gilda, e la paterna rabbia di Rigoletto fà sì, che quest’ultimo incarichi proprio Sparafucile a compiere la vendetta in suo nome.

In breve il piano è questo: Rigoletto mandata la figlia a Verona, avverte Sparafucile che a mezzanotte passerà a ritirare il corpo del Duca messo nel sacco per poi gettarlo nel fiume. Gilda purtroppo ritornando sente il dialogo tra Maddalena e Sparafucile, con cui la sorella convince Sparafucile ad uccidere al posto del Duca la prima persona che giungerà nella locanda. Gilda in un atto di estremo amore, mentre fuori infuria la tempesta, entra nella taverna non riconosciuta a causa dell’oscurità si fa ammazzare da Sparafucile… sublimazione dell’amore romantico!.

E’ mezzanotte: Rigoletto esultando passa alla taverna e ritira il sacco, e mentre si appresta a gettarlo nel fiume sente riecheggiare la canzone del Duca. Non credendo alle proprie orecchie, taglia il sacco e trova morente sua figlia Gilda. Sì, proprio sua figlia Gilda. Straziante sequenza finale: Gilda spiega al padre i motivi che l’hanno spinta a salvare il Duca, e, spirando, chiede scusa al padre del suo gesto. Al povero Rigoletto non resta che urlare: “Ah, la Maledizione“.

Analisi musicale

Pari siamo!… io la lingua, egli ha il pugnale

Quindi “La Maledizione” di Monterone – dicotomia di Rigoletto – tutto il soggetto è in quella “Maledizione”, che diventa anche morale. Un’infelice padre che piange l’onore tolto a sua figlia, e che vien deriso anche dal buffone di corte, ma il Conte Monterone, l’infelice padre “Maledice”, e questa sua maledizione il “Gobbo” la trasforma in paura, diventando il suo psicodramma, egli collega i fatti della sua tragica storia con questa “Maledizione”.

Grazie al reticolo musicale creato dal motto della “maledizione”, nelle sue implicazioni metriche ed armoniche, Verdi, scavalcando ogni censura veneta, pone enfaticamente il concetto che è alla base del suo dramma, ed ho la presunzione di capire che forse la censura veneta, lo stimola ancor di più dando fiato al suo sentire. Nasce quindi una delle sue più grandi tragedie, che ci porta coerentemente verso la catastrofe, intrisa di un esasperato rigore morale. Abbiamo già visto in Luisa Miller, nel romanticissimo contesto tra destino ed amore, quale effetto ebbe il tema del potere: opprimere le giuste aspettative dei due amanti.

Foto di Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Verdi con il suo Rigoletto si espone molto di più, scopre una classe dominante amorale, fatta da cortigiani amorali e perfidi, perditempo e uomini lascivi e prevaricatori, creatori solo di crudeli giochi di basso profilo. Tra di loro Verdi fa emergere il personaggio del Duca, tutto negativo, direi unico tenore verdiano, frivolo, egoista, egli è preda di tutte le passioni più effimere, che è pronto a soddisfare con prontezza, usando il suo potere in maniera dispotica. Verdi gli regala delle meravigliose melodie liriche soprattutto per connotare la sua fatuità e fargli esprimere a scopi ingannevoli quel sentimento che in realtà egli non prova mai per nessuna della sue conquiste, anche se con Gilda sembra andar molto vicino alla passione, come nella scena ed aria del secondo atto, dove si strugge per il rapimento di Gilda: “Colei si pura, al cui modesto sguardo / quasi spinto a virtù talor mi credo”, questo egli declama con abbandono e sofferenza, “Quasi”, … infatti non appena apprende che la ragazza è stata nascosta dai cortigiani nei suoi appartamenti, si riprende dal suo dolor ed intona la cabaletta, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare, con tutte sue conseguenze.

Nel successivo duetto con Gilda i versi stravolgono l’immagine del giovane povero ed innamorato, portando l’esaltazione dell’amore fine a se stesso, e così sentiremo parole celestiali uscire dalle sue labbra come: “Adunque amiamoci, – donna celeste, d’invidia agli uomini – sarò per te”.

La figura di Rigoletto è posta, sin dall’inizio dell’opera, in una posizione di antipatia che fa tutto il possibile per renderlo indigesto e quindi guadagnare l’odio dei suoi “amici”, ma a differenza dei suoi amici/nemici, molto superficiali e leccapiedi, egli invece ci fa capire con le sue paure e con le sue confessioni, l’abisso della propria anima, ed il suo interiore tormento. La paternità, sentimento umano protettivo, lo riscatta solo parzialmente ai nostri occhi e non riesce nemmeno a farci dimenticare la cattiveria con cui ha schernito Ceprano e Monterone. Non è dissimile la sua condizione da quella di Sparafucile, il sicario che nell’indimenticabile seconda scena del primo atto, viene a offrirgli i suoi servigi in un buio vicolo di Mantova, ed egli ne è consapevole quando intona il monologo: ”Pari siamo!…io ho la lingua, egli ha il pugnale”. Perfette parole sceniche, che scolpiscono la situazione in una fulminea sintesi.

Rigoletto passa dal sospetto – la lamentosa cantilena iniziale – all’ira: “Cortigiani, vil razza dannata” … alla commozione: “Ebben io piango” … sino ad umiliarsi di fronte a tutta la Corte: “Miei signori, perdono, pietate“. E’ questa concentrazione di atteggiamenti, che vanno dal più agitato ed imperioso, all’implorazione, sino a lirismo, un po’ sentito un po’ di facciata, comunque musicalmente autentico, che ingigantiscono l’impeto del Buffone che nel finale del secondo atto quando decide di vendicarsi intonando: “Si… vendetta, tremenda vendetta”.

Rigoletto però non ha tenuto nel dovuto conto la diversità dell’animo femminile, e l’amore altruistico di cui una donna è capace, anche se indossa i panni coloriti della prostituta Maddalena – e – dunque il Duca si salva grazie alla passione che ha acceso nel cuore della sorella di Sparafucile – ed in quello che ha già infiammato: l’innocente cuore di Gilda.

Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886
Un celebre ritratto di Giuseppe Verdi, eseguito da Giovanni Boldini nel 1886.

Giuseppe Verdi ha pennellato Gilda con tratti di enfatica ingenuità nel “Caro nome”, aria cesellata come un merletto, ma di assoluta drammaticità. Quella bella bimba ingenua sino al limite del credibile, dopo aver conosciuto l’amore in modo diverso da come l’immaginava, conscia di essere stata rapita e di essere diventata “donna” nell’incontro col Duca nella sua stanza da letto, dopo la confessione dell’oltraggio subito e traumatizzata da tutto questo intona: “Tutte le sere al tempio”, lo ritroviamo poi, nel quartetto ed infine nella scena del terzetto e della tempesta. Una donna matura e consapevole appare, assoluta dominatrice della scena, una metamorfosi, un cambiamento che mette il Duca da lei amato, in una luce da ragazzo sempre uguale, uno smanioso e solo capace di affermare ,come nella ballata iniziale, che: “Questa o quella per me pari sono”, e ribadirlo fino alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza: “La donna è mobile“.

Pensate che, il Maestro Verdi vietò al tenore Mirate l’esecuzione della romanza fino al debutto. Egli aveva progettato un “coupe de tèatre” sino nei minimi termini. Ritornando al finale dell’opera troviamo Rigoletto passare alla locanda di Sparafucile per ritirare il cadavere e si accinge a gettarlo nel fiume, quando dal fondo della scena gli giunge la voce del Duca, che canta lo stesso motivo di prima – ora s’accorge del tremento errore, ed aprendo il sacco trova Gilda moribonda che intona: “V’ho ingannata, colpevole… fui“, una delle frasi verdiane più disperate, toccando a tutti il cuore per quella sublimazione d’amore, accompagnata dagli arpeggi del flauto; la povera Gilda offre al padre l’unica consolazione per i poveri reietti cantando, “Lassù in cielo vicino alla madre”. Quel cielo di delizie incorporee non può esistere per il povero Gobbo che, impotente, è messo di fronte al suo totale fallimento. La “Maledizione” aveva così, drammaticamente, terminato il suo cammino.

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Analisi musicale del Macbeth di Giuseppe Verdi https://cultura.biografieonline.it/analisi-musicale-del-macbeth-di-giuseppe-verdi/ https://cultura.biografieonline.it/analisi-musicale-del-macbeth-di-giuseppe-verdi/#comments Mon, 06 May 2013 02:42:08 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7106 Macbeth, opera lirica di Giuseppe Verdi, dopo l’iniziale successo andato in scena il 14 marzo 1847 al Teatro della Pergola di Firenze, l’opera di Giuseppe Verdi cadde nell’oblio. In Italia fu riesumata con strepitoso successo al Teatro alla Scala il 7 dicembre 1952, con Maria Callas nel panni della protagonista femminile, Lady Macbeth. Da allora l’opera è entrata stabilmente in repertorio.

L’analisi musicale che segue è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini.

Macbeth
Macbeth

Analisi musicale

Si tratta di una tragedia fosca, cruenta, in cui domina il male e in cui i personaggi sono complessi ed ambigui. Lady Macbeth, è l’impersonificazione del male e dell’ambizione e della sete di potere: è lei a convincere il marito, spesso indeciso, a commettere il regicidio nel ll atto.

Macbeth presenta una certa ambiguità: la sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso pur essendo incapace di pentimento. Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell’animo umano.

Nella follia sanguinaria Macbeth trova conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all’inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza rassicurante, in realtà è molto enigmatico, eppure Macbeth vi si appiglia con convinzione ed affronta i nemici nel V atto fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie.

Il tema del potere è sviluppato anche da altri personaggi, come il giovane figlio di Duncan che finge di essere indegno del titolo di re ed allora il nobile scozzese gli spiega quale sia la vera essenza del potere e quale differenza intercorra tra il regno, anche quello di una persona ambiziosa e corrotta, e la tirannide. Interessante poi è la riflessione esistenziale – atto V, scena V – con una famosa definizione della vita umana, dominata da precarietà ed incertezza, temi dominanti del barocco, il tempo in cui il celeberrimo Shakespeare visse.

Egli scrisse: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla“.

Il Macbeth non ebbe il successo auspicato, non avendo superato la dozzina di repliche. La rinascita di Verdi la si deve ed un gruppo di musicisti Inglesi e Tedeschi, che diede una nuova lettura ai suoi lavori nei primi anni del Novecento, recuperando il melodramma del Verdi, e dandone una valenza in chiave drammaturgica, dandone così giusta giustizia al Cigno di Roncole.

Fu così che Macbeth, una partitura poco udita nei Teatri d’Europa, venne rappresentata a Berlino, Zurigo, Dresda, Vienna Glyndebourne, Liegi e Parigi ed infine al Festival di Salisburgo. In Italia invece la rinascita verdiana fu lenta, coincise infatti con l’edizione del 1951 al Maggio Musicale Fiorentino, e definitivamente con l’edizione del 1952 al Teatro alla Scala di Milano con la direzione di Victor de Sabata e Maria Callas nel ruolo di Lady Macbeth.

Sicuramente Macbeth, segna una svolta nel quadro del melodramma italiano, sebben che il Donizetti fu il più innovativo, ma non la completò in maniera significativa e totale, quello che avvenne dopo con il Verdi, ossia quella novità musicale drammaturgica che né decretò la sua grandezza. Verdi amava Shakespeare e lo si comprese dal fatto che per quest’opera scrisse una sceneggiatura dettagliata a dimostrazione che egli possedeva una completa cognizione letteraria e progettuale, conosceva profondamente il suo complesso lavoro, alla stregua di Wagner impegnato alla stesura del suo Lohengrin.

Parole d’ordine: “Brevità e solennità” raccomandò Verdi a Piave, inviandogli gli appunti della sceneggiatura perché in Macbeth non c’è tempo per rallentare il ritmo. Siamo in pieno svolgimento di un crimine, compiuto da una efferata coppia di potenti con implicazioni psicanalitiche, regressioni, complessi di colpa.

Quello di Macbeth e di Lady Macbeth è il dramma di due solitudini che non si incontrano. Si vivono i drammi in un’atmosfera cupa e tenebrosa in cui il colore è il rosso del sangue e per Lady Macbeth la solitudine affonda nel vuoto della follia, per Macbeth nel vuoto di un annientamento progressivo e delirante.

Nell’opera c’è anche lo spazio per la dimensione corale, con la partecipazione del popolo che assiste al dramma della prepotenza dei potenti di cui subisce le sue angherie. Il famoso canto “Patria oppressa” all’inizio del IV atto, è la grande scena corale sul tema della libertà degli “oppressi” che Verdi, negli anni del Risorgimento, volle inserire nell’opera, quasi a simbolo del Risorgimento come lo furono anche il “Va pensiero” di “Nabucco” e “Oh Signore dal tetto natio” dei “Lombardi alla prima crociata”.

In seguito, questi canti assunsero un significato diverso dal dolore per la patria perduta. Nella versione del 1865, così lontana dai temi e dagli anni del Risorgimento, la dimensione corale del ’47 è sostituita da una nuova versione dal tessuto armonico e melodico rarefatto, anticipatrice del futuro Requiem e da interpretare in senso più generale di “sofferenza umana universale” qual’era infatti il linguaggio consono alle ultime creazioni verdiane.

Macbeth è una delle rare opere nel XIX secolo in cui non figura il dramma d’amore ma un dramma della coscienza e della psicologia del potere ed è peculiare anche per la mancata presenza del ruolo tenorile sostituito per la parte protagonista dal timbro baritonale. Mentre la vocalità di Lady Macbeth al suo fianco è di soprano drammatico di agilità, a espressione della passione della donna e del desiderio di potenza che si spinge fino al delitto come nell’aria: “Accetta il dono, ascendivi a regnar, ascendivi a regnar“. A questa passione malvagia fanno da riscontro il buio, la notte, l’ombra che a loro volta richiamano gli abissi inesplorati dell’inconscio della Regina.

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