musica lirica Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 03 Nov 2023 09:12:49 +0000 it-IT hourly 1 La traviata, di Giuseppe Verdi: riassunto e storia https://cultura.biografieonline.it/la-traviata-di-verdi-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/la-traviata-di-verdi-riassunto/#comments Tue, 06 Apr 2021 18:29:46 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7661 La traviata è una delle opere più famose, note e belle di Giuseppe Verdi. Scritta su libretto di Francesco Maria Piave, si compone di tre atti ed è tratto dalla pièce teatrale “La signora delle camelie”, scritta dall’autore francese Alexandre Dumas (figlio); quest’opera verdiana, assieme a “Il trovatore” e a “Rigoletto“, fa parte della cosiddetta “trilogia popolare“.

La traviata, di Giuseppe Verdi
La traviata: una scena tratta da una rappresentazione teatrale

In parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, nella splendida cornice del lago di Como, la prima rappresentazione teatrale de La traviata, avvenne al Teatro La Fenice di Venezia, nel giorno 6 marzo 1853; in tale occasione, tuttavia, a causa soprattutto di interpreti non di adeguato livello e a causa della scabrosità dei temi, la rappresentazione si rivelò un fiasco totale. Venne ripresa comunque il 15 maggio 1854 quando ottenne il meritato successo.

La prolusione che segue è stata redatta per Biografieonline dal Maestro Pietro Busolini di Trieste.

La traviata: genesi dell’opera

Nella mente di Verdi prende corpo questa nuova fatica, dopo aver visto a teatro “La signora delle camelie” a Parigi, accompagnato da Giuseppina Strepponi, nel febbraio del 1852. Elabora questo dramma – opera di Dumas figlio – e ne ricava un intenso melodramma dal valore emotivo e di un esasperato romanticismo. Giuseppe Verdi ha donato al mondo un’opera di estremo lirismo. Il maestro scriveva, come riportato da giornali dell’epoca, al presidente del teatro alla fenice signor Marzari: “Ho volutamente cercato un soggetto pronto, certamente di sicuro effetto“, con questa frase di fatto, presentava e promuoveva la nuova opera da mettere in scena per il Carnevale del 1853. La sua fatica fu condivisa da Francesco Maria Piave che ne scrisse il libretto nel novembre di quell’anno, per un un compenso di 1.000 lire austriache.

Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Un fiasco

Il lavoro per Giuseppe Verdi fu sicuramente grande: la scrisse in 40 giorni, da fine gennaio ai primi di marzo del 1853. Consideriamo anche che “Il trovatore” andò in scena il 19 gennaio del 1853, al teatro Apollo di Roma, cioè solo due mesi prima. La traviata fu rappresentata il 6 marzo 1853 a Venezia, al teatro La Fenice: fu un totale insuccesso, e come disse lo stesso Maestro “un fiasco“.

Leggendo le cronache di allora, si evince che comunque il maestro non si turbò molto, e leggendo le varie lettere da lui spedite da Venezia nei giorni successivi circa il “fiasco”, lo troviamo quasi impassibile. In una sua corrispondenza con casa Ricordi si legge

“non indaghiamo sulle cause, la storia è così. Colpa mia o dei cantanti? […] Il tempo giudicherà”. Al suo corrispondente da Genova rispose in questo modo: “La traviata ha fatto un fiascone e – peggio – ne hanno riso. […] Eppure che vuoi […] Non son turbato. Ho torto io o hanno torto loro? Ma io credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella di jeri sera, la rivedranno e vedremo!”.

Un successo

Effettivamente il maestro conosceva e sapeva quello che scriveva, attese sino alla sera del 15 maggio 1854, quattordici mesi dopo l’insuccesso alla Fenice, e sempre a Venezia, al teatro San Benedetto il popolo veneziano, ne decretò il successo, ottenendo un completo trionfo ed un completo consenso di stampa. Quella sera non fu altro che il ”preludio”, del percorso che, La traviata, ha fatto nei suoi oltre 160 anni di vita, raccogliendo trionfi e consensi in tutti i teatri del mondo, ponendosi al vertice di tutta la produzione verdiana.

La traviata, locandina del 6 Marzo 1853
Prima de La traviata: locandina del 6 Marzo 1853

Personaggi dell’opera

  • Violetta: soprano
  • Alfredo Germont: tenore
  • Annina: soprano
  • Flora Bervoix: mezzosoprano
  • Giorgio Germont: baritono
  • Gastone, Visconte de Letotieres: tenore
  • Il dottor Grenvil: basso
  • Il marchese Douphol: baritono
  • Il marchese d’Obigny: basso
  • Coro degli amici, bimbi, zingare, domestici, gente del popolo

La traviata: riassunto e trama dell’opera

Atto I

Nel salotto di casa Valery si coglie l’atmosfera di una imminente festa, vista la preparazione e la disposizione di fiori, piante e divani. Violetta sta preparando tutto questo per i suoi amici: sappiamo che la giovane donna è colpita dal mal sottile, ma ella è comunque contenta di come scorre la sua esistenza, diciamo un po’ “leggera” o quantomeno dai modi frivoli per quanto riguarda l’altro sesso. Tra gli invitati notiamo anche Gastone che, arrivando alla festa, presenta Alfredo Germont, segreto ammiratore di Violetta. Si comincia a brindare ed egli è invitato a unirsi all’allegra compagnia.

In un altro salone si uniscono anche altri invitati e si dà inizio a questa gaia serata di ballo. Violetta soddisfatta però ha un momentaneo mancamento: escono gli invitati trasferendosi in altri salotti. Ella quindi chiede di rimaner da sola, Alfredo però rimane con lei per manifestarle la sua ammirazione ed il suo amore. Violetta colpita ed intimamente sorpresa gli fa dono di una camelia dicendogli di riportarla quando sarà appassita.

Atto II

Nella casa di campagna, dove si sono ritirati a vivere Violetta ed Alfredo, essi stanno consumando il loro sogno d’amore vivendolo intensamente. Ad Alfredo però giunge notizia da Annina che la “signora” si era recata a Parigi per vendere i suoi gioielli ed altri beni, questo per prolungare, in maniera più piacevole la loro vita distanti da Parigi. Alfredo si sente offeso e decide all’istante la sua partenza per la capitale, cercando con la sua presenza di aggiustare queste spiacevoli questioni di danaro.

Nello chalet di campagna sopraggiunge il padre di Alfredo, Giorgio Germont, e trova Violetta appena rientrata da Parigi. Germont padre comincia con il chiedere in nome delle convenzioni e del buon nome di rinunciare ad Alfredo, anche per la felicità della figlia e che così facendo, non troverà ostacoli nello sposare un giovane del suo rango. Violetta, per la prima volta, “rinuncia al suo amore per un uomo contro la sua volonta”. Partirà subito lasciando un biglietto ad Alfredo, che lo troverà, al rientro da Parigi. Ma mentre scrive il biglietto di saluti e di congedo arriva Alfredo. Egli nota nella giovane un turbamento e la interroga, mentre Violetta intona la famosa romanza: “Amami Alfredo”, frase che cambierà in una nuova forma, tutta la concezione psicologica dell’opera come per l’appunto la voleva Giuseppe Verdi.

Un domestico si avvicina ad Alfredo e porge un vassoio con un biglietto, in quel biglietto c’è la frase di congedo, con cui Violetta annuncia la sua partenza con Annina; Alfredo legge e, come folgorato, chiede al domestico che confermi. Nell’azione entra immediatamente papà Germont che comincia a concionare sul perché ha lasciato la famiglia e la Provenza, ed a considerare quanti problemi son venuti a crearsi con la sua partenza.

La scena cambia

Ora siamo nella sala da ballo e da gioco in casa dell’amica di Violetta, Flora Bervoix, dove si sta svolgendo un ballo mascherato. Violetta entra nel salone al braccio del barone Douphol, vedendo Alfredo al tavolo da gioco si sente smarrita. Stranamente in quella serata Alfredo ha una fortuna sfacciata al tavolo verde; anch’egli vede Violetta e tutta la scena viene monopolizzata dal gioco e dalle provocazioni che Alfredo ha nei confronto del barone. Ma l’invito della padrona di casa ad andare a tavola smorza quella voglia.

Escono tutti ma Violetta chiama Alfredo per un colloquio chiarificatore. Nel suo spiegare lo prega di capire che il suo amante Douphol le ha chiesto di lasciare Alfredo per amore suo. Alfredo come rapito dà un momento di follia richiama gli invitati e apostrofa Violetta in forma molto triviale e volgare lanciando una borsa con dentro del denaro ai suoi piedi. Entra in scena anche suo padre Giorgio Germont, che allontana Alfredo, mentre il barone le lancia il suo guanto di sfida.

Scena teatrale tratta da La traviata, di G. Verdi
Una scena teatrale tratta da La traviata

Atto III

L’azione si svolge nella camera di Violetta Valery: lei è coricata su di un grande letto con grandi cuscini di seta e merletti. E’ assistita dalla buona Annina: si nota lo sforzo e l’affanno con cui respira. Violetta è stremata dal suo male, e dal segreto ancora più doloroso che ha nel suo cuore. Giunge il medico che la conforta. E’ mattina: chiede di bere; il medico parlando sottovoce con Annina però le annuncia che alla povera Violetta, la vita non le concede che poche ore di vita!

Ora Violetta con tanta fatica si alza e continua a leggere la missiva giuntale da Giorgio Germont, che la continua a ringraziare per il segreto mantenuto, e le annuncia il ferimento del barone ad opera di Alfredo. Germont padre, infine, sentendosi colpevole di quell’atto spregevole, arriverrà a chiederle con la dovuta umiltà il suo perdono.

Violetta è angosciata; e solo il ricordo del “passato”, con il suo Alfredo la conforta. Intanto nella strada sottostante si ode il Carnevale con le sue musiche ed i suoi rumori, con tutta la gente che canta e che balla. In quel momento entra Annina per preparla a ricevere una visita: è Alfredo che ritorna e si getta tra le braccia di Violetta chiedendole perdono; i due innamorati finalmente riuniti continuano a pensare ad un futuro “ancora felice“, ma una nuova crisi aggredisce la giovane. Arriva anche Giorgio Germont, ma è troppo tardi; egli voleva stringerla come una figlia. Violetta è morente e dopo un estremo sussulto, spira tra le braccia di Alfredo.

Analisi musicale

Giuseppe Verdi con la partitura de La traviata, aderisce di fatto al Manzoni ed alla sua esortazione nel favorire la “vraie poesie”, e quindi ad uscire dal “langage de convention”, seguendo dunque la linea romantica dettata in quel preciso momento storico. Il personaggio di Violetta Valery viene rafforzato e la sua figura di donna con nuove implicazioni psicologiche ne sono la riprova; un tema così italiano come il “sacrificio d’amore”, è molto più vero ed attendibile nel personaggio creato da Francesco Maria Piave, che nel personaggio di Margherita Gautier, descritto da Dumas nella sua “Dame aux camelias“.

Seguendo anche la forma tripartita di Traviata osserviamo che, qualchessia la sua lettura, “è imposta” dalla sua stessa struttura musicale. Quest’opera è di fatto innovativa, e lo si nota nella frattura tonale fra il Primo ed il Secondo atto, ed alla corona che ne conclude il Primo atto; notiamo quasi la necessità di eseguire di seguito il primo ed il secondo quadro del Secondo atto, mentre questo arriva da una relazione tonale, ovviamente una relazione molto espressiva che si identifica tra i due quadri, nonchè dalla chiusura del primo e dall’apertura del secondo che, battendo lo stesso tempo chiude al 1° quadro con una corona misurata.

Si osservano delle varianti tra il primo preludio ed il preludio all’atto terzo, il primo in maggiore ed il secondo in minore, tutto molto significativo nella complessità espressiva dell’opera. Il primo preludio è il tema dell’idillio, il secondo della rinuncia, che il “preludio di apertura”, aveva già identificato. ma la svolta psicologica dell’opera, il punto focale, lo troviamo nella romanza “Amami Alfredo“.

Il significato

Il vero significato de La traviata, risiede nella consapevolezza e nella sua capacità di “dare amore”; l’amore di Violetta sta proprio nel suo realizzarsi in questo puro e sublimato sentimento, passato attraverso la passione e la rinuncia. Dunque l’“Amami Alfredo”, esposto al preludio è quindi connesso musicalmente e psicologicamente al concretizzarsi degli eventi, in momenti straordinariamente particolari per la loro univocità.

L’importanza del Terzo Atto

Nel terzo atto si nota la ripresa della forma tradizionale, in “Addio del passato” ed in “Prendi – quest’è l’immagine”, stanno tra il recitativo e la romanza. La traviata ha poi un altro aspetto molto importante nell’opera verdiana, assieme alle precedenti opere, Rigoletto e Trovatore; il maestro ha individuato e cercato i suoi tenori, baritoni, soprano e mezzosoprano, voci particolari con diversi accenti e dalle diverse colorature. Queste sono voci vocalmente innovative, portate ad interpretare i ruoli del Duca di Mantova, di Manrico e di Alfredo, le cosidette “voci verdiane“. Questo proprio per la pienezza e la profondità della voce, coniugata e legata alla conoscenza dell’anima umana, studiata e scrutata nel suo intimo. voci che si aprono a nuove esperienze interpretative, dando quindi una maggiore consapevolezza agli interpreti; ruoli che Verdi cercava e voleva.

Nel terzo atto, e solo in questo, Alfredo, si apre nell’estensione e alla nuova impostazione vocale con un “agitato”, in mezzo ad una frase come “Parigi o cara“, carica di fremente poesia e di squisita dolcezza: si tratta di un pezzo classico della composizione, ma che conferisce in questo caso uno spessore sentimentale e romantico molto intenso, unico. Ugualmente potremmo dire per Giorgio Germont, quella tonalità, quella qualità di impostazione voluta dal Verdi, è molto pertinente con il suo ruolo, distaccato ed estraneo, senza sentimento, quasi una voce fuori dal coro che le dice giuste, ma che non prende macchia se non alla fine del terzo atto quando intona la romanza ”Malcauto vegliardo!”. Insistendo sul sì naturale – ben settolineato dal disegno cromatico dell’orchestra – finalmente scopriamo che anche papà Germond ha dei sentimenti sebben tardivi, ed un’anima sincera.

Verdi innovatore

Comprendiamo come Giuseppe Verdi, come in precedenza per Rigoletto e Trovatore, trova in questo grande lavoro quella chiave di lettura che lo introduce al nuovo discorso musicale tardo-romantico nel campo della strumentazione operistica; proprio nell’ultimo atto, nel recitativo quasi parlato, egli, fruisce di quella ricercata analisi psicologica musicale. Di fatto La traviata è la riprova di quanto Verdi sia stato un innovatore.

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La bohème di Puccini, riassunto e analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/boheme-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/boheme-puccini/#comments Wed, 26 Jul 2017 15:33:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22950 La bohème è una delle opere musicali più importanti di Giacomo Puccini. Si compone di quattro atti, indicati come quadri. Il libretto fu scritto Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, ispirato al romanzo di Henri Murger “Scene della vita di Bohème” (Scènes de la vie de bohème) del 1851. L’opera venne rappresentata per la prima volta il 1° giorno di febbraio del 1896 presso il teatro Regio di Torino. Quella che segue è un’analisi dell’opera sia storica che musicale, redatta dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste, che diresse l’opera il 24 aprile 2012 a New York, presso il Metropolitan Opera House nel contesto del Festival Pucciniano. Il maestro ha dedicato questa sua ricerca e direzione in memoria dell’amico e musicista Ulderico Stolfo di Carlino.

La Bohème - Puccini

La genesi della Bohème

Nessun “soggetto” quanto quello di Bohème era stato più vissuto da Puccini. La “Bohème”, fanfarona ed insolente l’aveva vissuta al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, se non proprio la fame, come aveva argutamente scritto il Fraccaroli, Puccini aveva conosciuto tuttavia quelle sfumature dell’appetito lungamente trascurate che danno allo stomaco un languore che è sentimentale solamente per i poeti. La “Bohème”, vera, era passata attraverso la giovinezza del Lucchese prima di ridere e piangere sulla sua fortunatissima opera.

Narra il Marotti che fu Ruggero Leoncavallo a proporre a Puccini un suo libretto intitolato: Vita di Bohème. Ma Puccini, cui frullavano altre idee per il capo e non conosceva ancora il romanzo di Henri Murger, oppose un cortese rifiuto senza neppur leggere il romanzo del collega. Solamente un anno dopo, essendogli capitato tra le mani il capolavoro di Murge, ed essendo rimasto entusiasta, tanto fece e tanto tempestò Illica e Giocosa – aiutato molto dal paterno aiuto del “Sor Giulio” (Ricordi) – che i due scrittori approntarono il libretto. Crearono versi dolci e melodiosi che Giacomo Puccini poté così divinamente musicare.

Tralascio quello che successe tra Leoncavallo, Puccini, ed il buon Giulio Ricordi. Comunque Bohème vide la luce al teatro Regio di Torino la sera del 1° febbraio 1896, sotto la direzione di Arturo Toscanini.

La grandezza di Giacomo Puccini

La protagonista Mimì, questa sua creatura timida, modesta, sentimentale, con il suo volto aristocratico, ama l’amore per l’amore. Dal corpo fragile e malaticcio esce da quella sua anima sensibile e delicata una maggiore emotività. Ella fu teneramente amata, accarezzata, curata.

Pensate che Puccini rifece daccapo per ben quattro volte il IV atto e scrisse al “Sor Giulio” queste parole:

Quando questa ragazza per la quale ho tanto lavorato, muore, vorrei che uscisse dal mondo meno per sé, e un po’ più per chi gli ha voluto bene.

E aggiungeva:

Quando trovai quegli accordi scuri e lenti e li suonai al piano, venni preso da una tale commozione che dovetti alzarmi ed in mezzo alla sala mi misi a piangere come un fanciullo. Mi faceva l’effetto di aver visto morire una mia creatura.

Quella sua creatura cosi teneramente amata fu dileggiata, stroncata da infami giornalisti piemontesi, italiani e d’oltralpe, con frasi di questo tipo: “Noi ci domandiamo cosa spinse il Puccini sul pendio deplorevole di questa Bohème“.

I giornalisti tutti, non fecero una gran bella figura in quell’occasione. è un po’ quello che fecero anche i colleghi d’oltralpe, usi a dileggiare i nostri grandi compositori. Ma la risposta al genio – semplicemente al genio – cui l’Italia, l’Europa, il Mondo diede, fu: “GLORIA!

Questa parola, non lasciò mai più Puccini, ne allora, ne ora, ne mai.

Analisi musicale

Con “Bohème”, per la prima volta avvertiamo in Puccini la sua inclinazione alla pittura musicale di minuti particolari, capace di far balzare gli oggetti inanimati al livello della vita poetica. Il gaio tremolare delle fiamme nel caminetto, l’acqua che Rodolfo spruzza su Mimì svenuta, il raggio di sole che cade sul viso della fanciulla morente, e così via.

E’ forse in questa sfera che il suo stile di musicista da camera dà i risultati più squisiti. Egualmente degna di nota è la calcolata scelta degli strumenti per la caratterizzazione di personaggi e di scene. Soprattutto archi per Rodolfo e Mimì. Legni per Musetta e per gli altri bohémiens. Piena orchestra, con effetti particolarmente brillanti negli ottoni, per il “Quartiere Latino”, e complesso da camera per le scene d’intimità tra gli amanti.

Ne è un esempio particolarmente memorabile la morte di Mimì con le sue mezze luci-sottofondo di archi legni ed arpa e passaggi a solo, così tenui come le linee di una stampa giapponese. Lo stile melodico ha un carattere sempre più libero, quasi d’improvvisazione. Le frasi tendono a straripare da schemi regolari. Nelle scene comiche prevale l’aforisma, che aggiusta così le esigenze del pucciniano mosaico. Tutte cose, queste, che contribuiscono a dare impressione di spontaneità e naturalezza.

L’armonia

Nell’armonia osserviamo tocchi puntilistici, dissonanze spesso risolte in modo ellittico, specialmente alla fine di una scena dove una pausa permette ad un’armonia di svanire prima che risuoni l’armonia successiva. E come si è notato già nella Manon Lescaut – sebbene lì avesse solo un carattere sperimentale, le successioni armoniche sono elevate al grado di temi caratterizzati, spesso consistenti in un semplice seguito di quinte parallele. Come nel tema del presentimento di morte o in quello dei fiocchi di neve.

Tuttavia, nonostante tutta questa libertà nel linguaggio armonico, Giacomo Puccini organizza la costruzione facendo perno su alcune tonalità principali, credendo nel simbolismo drammatico delle relazioni fra una tonalità e l’altra. Così il primo atto è centrato, sostanzialmente, sulla tonalità di do maggiore.

Il secondo atto comincia in fa maggiore e finisce in si bemolle maggiore. Il quarto atto, che porta alla tragica conclusione, si muove dal do maggiore al do diesis minore.

La Bohème - Puccini - Rodolfo e Mimì - scena
La bohème: una scena tratta da una rappresentazione. Al centro i personaggi di Rodolfo e Mimì

I personaggi

Le principali dramatis personae sono Rodolfo e Mimì. A loro logicamente è riservata la porzione maggiore della musica. Il giovane poeta si presenta col famoso: “Nei cieli bigi” che ricordiamo fu tolto all’incompiuta “Lupa”, mentre ora è messo in relazione con “cieli bigi” e “sfumar di comignoli“. Questo è uno dei molti casi in cui Puccini usa frasi legate ad altri suoi personaggi incompiuti, per far risaltare lo stato d’animo di un altro personaggio o di un’altra situazione – in questo caso l’esuberanza di Rodolfo.

Rodolfo

Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi, è il Leitmotiv di Rodolfo. Per il completo ritratto del romantico innamorato, dobbiamo attendere l’incontro con Mimì e la sua grande aria – in realtà due arie collegate. Ascoltiamo questo fragor di sentimenti, di estasi appassionata, colma di tenerezza in: Che gelida manina, una delle melodie più pure e fragranti che Puccini abbia mai immaginato.

Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini in Bohème. (Claude Debussy)

Inizia salmodiante in pianissimo, con gli archi in sordina, che intorno alle linee vocali, fanno dolcemente continuare l’assolo dell’arpa. Rodolfo dopo l’arioso: “Chi son“, prosegue descrivendo la sua povera vita di poeta con In povertà mia lieta. Dopo il quale prorompe con ardore appassionato in: Talor dal mio forziere, ruban tutti i gioielli, e questo d’ora in avanti simbolizzerà l’amore romantico.

Per tutta l’opera della Bohème, la musica di Rodolfo è caratterizzata da simili salti introdotti da anacrusi, movimenti per gradi diatonici con continui mutamenti del taglio ritmico e terzine emotive.

Mimì

Fantastico è anche il quadro musicale che ritrae Mimì da: Mi chiamano Mimì, steso in forma di un libero rondò, nel quale Puccini con finezza psicologica mette in rilievo i diversi aspetti del carattere della fanciulla.

La semplicità infantile, che è il suo tratto fondamentale, è subito enunciata nel suo Leitmotiv. Nettamente Puccini fa una distinzione tra la sartina che adempie ai suoi banali doveri quotidiani e la romantica fanciulla che sogna una primavera. Per esempio nell’espansivo: Ma quando vien lo sgelo, che è il momento centrale di questo mosaico di ariette. E come è psicologicamente vero il semplice parlando Altro di me, con il quale conclude senza enfasi il suo ingenuo racconto.

Musetta

Nel ritrarre, la seconda coppia di amanti, Puccini fa di Musetta un personaggio musicalmente più articolato di Marcello. Lei è insinuante, civetta, candidamente fiera del suo potere di attrazione su tutti gli uomini. Ed è mirabilmente colta nel suo famoso valzer, che si adatta alla sua persona come un guanto.

Marcello, Schaunard e Colline

Marcello, bisogna ammetterlo è trattato piuttosto sotto gamba. Non ha un’assolo, lo si sente solamente in un quartetto ed in un duetto.

Con i suoi amici Schaunard e Colline, più che come personaggio singolo – Murger invece l’aveva dipinto diversamente. Marcello è l’espressione dello spirito collettivo dei bohémiens. Tutti e tre sono spesso accomunati nel tema della Bohème che Puccini prese dal suo Capriccio. Sin dalla sua idea iniziale riconosciamo l’impetuosa linea tematica dell’opera, trasportando un tema da un lavoro scritto dieci anni prima. Senza cadere in alcuna discrepanza stilistica, ricordiamo che il Capriccio è stato una miniera anche per l’Edgar, per Manon Lescaut e Turandot.

Quindi, ritornando ai nostri tre moschettieri, trovo abbastanza singolare che Schaunard e Colline, sebbene personaggi meno importanti del collerico amante di Musetta, abbiano al contrario un loro Leitmotiv. Il musicista ha una specie di rapida marcia francese; il filosofo ha una frase burbera e lapidaria.

Le scene più importanti del I atto

Il segno distintivo di Bohème è nell’incessante intrecciarsi di azioni ed atmosfere che dà a Puccini un nuovo titolo, quello di Prestigiatore. Tutto sembra il prodotto di un’improvvisa ispirazione, ma analizzando, questo non è altro che un piano ben organizzato con una sua coerenza musicale e dei contrasti musicali. Voglio ricordare i vari temi dei “bohémiens” e di Rodolfo, in funzione di ritornelli in mezzo ad un continuo fluire di idee, episodi a sé stanti. Vi sono: una graziosa descrizione delle fiamme saltellanti che divorano il manoscritto di Rodolfo, accordi di quinta e sesta sovrapposti con sapore di bitonalità – sol bemolle maggiore contro mi bemolle minore.

Ricordiamo la deliziosa canzone di Natale Quando un olezzo, di sapore arcaico con le sue quinte parallele a mo’ di organum, e reminescenze di un noèl francese. Con il timido bussare di Mimì l’atmosfera cambia di colpo: l’orchestra insinua furtivamente e lento, il tema di lei e ci dice chi è che bussa.

Le luci sfavillanti della prima metà dell’atto si abbassano, diventando calde e soavi. Si dispiega la scena d’amore e gli archi prendono il posto dei legni, le tonalità diventano più stabili e l’effervescente parlato dei quattro bohemièns fa luogo a melodie lente e sostenute.

La seconda metà dell’atto I

Questa seconda metà del primo atto ci fa capire il climax poetico pucciniano, costruito per gradi fino alla scena d’amore, comincia con una conversazione svagata, seguendo sempre il tema della malattia di Mimì, un sinistro presagio.

Le incalzanti domande di Rodolfo e le brevi risposte della fanciulla son solo chiacchiere. Ma mai chiacchiere ebbero una veste musicale più incantevole.

Una frase spezzata di arioso, qualche pausa, un leggerissimo ostinato affidato al pizzicato degl’archi, questo è tutto. Sentiamo quasi all’unisono il battito dei cuori dei due giovani amanti. Fantastico. Unico.

Successivamente vi è la ricerca della chiave perduta: ancora un banale incidente, poi la musica si fa ricca di calore e sostanza, e porta con una dolce transizione alla parte centrale del duetto, cioè alle due arie di cui abbiamo già parlato.

Puccini ora, con sottile senso d’equilibrio, cambia atmosfera, fa seguire immediatamente due arie di un duetto vero e proprio. Ancora i due amanti non hanno cantato assieme, cosa che avrebbe potuto generare monotonia. L’azione però è disturbata dagli altri bohemiéns che aspettano Rodolfo in strada.

Dopo questa interruzione il duetto che segue, costruito interamente su reminiscenze dell’aria di Rodolfo, unisce infine gli innamorati in un abbraccio appassionato al suono del tema dell’amore: Talor dal mio forziere….

Essi escono lentamente dalla scena, mentre l’orchestra intona la melodia della Gelida manina, sussurrandola. E purtroppo dobbiamo dire che questa frase scritta dal Maestro in “pp perdendosi“, molte volte è ignorata da parte dei cantanti ed alcuni tenori hanno anche voluto correggere il Maestro raddoppiando il do acuto di Mimì, mentre la loro nota finale dovrebbe essere in mi, una sesta sotto.

La delicata poesia di questa scena, Puccini non la superò mai.

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Le scene più importanti del II atto

Analizziamo ora il Secondo atto, quello del Quartiere latino. Ad eccezione del valzer di Musetta, non ha una inventiva altrettanto memorabile del primo atto. Il suo maggior rilievo è nella evocazione della vigilia di Natale su un boulevard parigino. Con l’interesse che si sposta continuamente dalla folla ai solisti e viceversa, unendosi poi tutti nel gran finale della parata militare.

E’ in realtà in contrasto con la dolce e tenera intimità del primo atto, questa sua musica All’aperto. Ricorda l’aria vibrante ed allegra di una fiera natalizia.

Questa apparente confusione con le scene che si succedono le une alle altre, non inficia in alcun modo lo spessore musicale consistente in quattro sezioni distinte, ognuna con il proprio materiale tematico, anche con interferenze dall’una all’altra e con le ultime tre scene radicate in tonalità ben definite.

L’atmosfera generale è subito creata dal tema della vigilia di Natale enunciato da tre trombe – marcatissimo – e sostenute dalle grida del coro. Nelle scene successive troviamo da un lato la musica del Quartiere latino, le multicolori grida della strada, le eccitate accoglienze dei ragazzi a Parpignol ed ai suoi giocattoli, e dall’altro i lirici episodi nei quali emergono i bohémiens.

Notiamo il pigro tema della passeggiata e l’estatico: “Dal mio cervel“, di Rodolfo, che varia abilmente il Leitmotiv – del poeta. Un fatto che in teatro spesso non si bada è quando Rodolfo presenta la sua ragazza agli amici: “Questa è Mimì gaia fioraia“, e l’orchestra suggerisce il tema del presentimento di morte del III atto.

Le sezioni II e III

La seconda sezione apre con l’entrata di Musetta con una tonalità di la bemolle completamente dominata dal tema di lei.

Con la terza sezione in mi maggiore arriviamo al centro lirico dell’atto, costituito dal seducente valzer di Musetta, cantato prima come assolo – anche se con le solite interruzioni degl’altri personaggi – e più tardi ripetuto in sestetto a chiusura della scena. Unico pezzo d’insieme è il sestetto, un brano ammirevole, ma Puccini non affronta i caratteri individuali. Solamente Musetta è dipinta con il suo melodizzare a lunghi intervalli e la sua rapida sillabazione in “staccato”.

Sebbene il fatto che Marcello raddoppi la melodia del valzer, và indubiamete inteso come una sua capitolazione davanti alle seduzioni della sua volubile amante.

Il finale dell’atto è abilmente legato al rullo dei tamburi della parata che si avvicina – ma fuori scena – ed alle note del valzer che si spengono lentamente. Quest’ultima sezione è basata su un’autentica marcia francese del tempo di Luigi Filippo. E raccoglie a mo’ di mosaico i frammenti dei temi precedenti.

Il III atto

Quando ci troviamo dinanzi al terzo atto della Bohème di Puccini ogni discussione diventa oziosa: la bellezza di quelle pagine s’impone e, ciò che più conta, la commozione ci afferra e ci dispensa, ipso facto da ogni altra cavillosa considerazione.

Egli ha sentito la musica di quest’atto introspettivamente, ha sentito i personaggi, si è realmente commosso e di contro è riuscito a commuoverci. Il primo accenno lo troviamo nell’introduzione orchestrale, che evoca una pallida mattina di febbraio con mezzi che non potrebbero essere più semplici ed efficaci. Su una quinta dei violoncelli in tremolo, che si prolunga come pedale per oltre cento battute, è una successione di quinte parallele dei flauti e dell’arpa che suggeriscono il cader della neve.

Come nel terzo atto dell’opera Manon Lescaut un momentaneo tocco di gaiezza è introdotto dalla comparsa del lampionaio, ma avremo un perfetto quadro della situazione nel momento in cui noi vedremo le luci dei cabaret e sentiremo i canti ed il suono del valzer di Musetta, coniugarsi perfettamente con la musica gavoteggiante delle lattivendole e la presenza dei doganieri.

Scene successive

Nelle scene successive altri lineamenti si aggiungono ai tratti di Mimì e Rodolfo. Duettando con Marcello: “C’è Rodolfo?“, con le sue frasi discendenti, gli esitanti sincopati e le nervose terzine, la fanciulla palesa la sua angoscia per i mutati sentimenti dell’amante.

D’altro canto, vediamo Rodolfo passare attraverso sentimenti diversi, impazienza, amarezza, gelosia; ma obbiettivamente la musica qui non esprime con chiarezza questi sentimenti, né tantomeno è ispirata, tranne per la sezione in minore: “Mimì è una civetta“, un lamento appassionato sulla vena di: “Manon, sempre la stessa“, di Des Grieux.

Ora Rodolfo sopraffatto dalla disperazione, rivela a Marcello la mortale malattia di Mimì, qui Puccini si mostra all’altezza della situazione con: “Mimì è tanto malata“, questo melodiare molto scuro dell’orchestra ci suona come una campana a morto. La tensione in scena aumenta in quanto Mimì, ascolta non vista le parole di Rodolfo ed apprende quale triste fine l’attende. La musica per l’addio definitivo: “Addio dolce svegliare“, è tolta dalla canzone: “Sole e amore“, scritta da Puccini nel 1888 per la rivista “Paganini”.

La canzone viene ripetuta due volte e con un efficace contrasto nella ripresa, quando il duetto si muta in quartetto per l’irrompere sulla scena di Musetta e Rodolfo trascinando anche il loro furioso battibecco, l’ennesimo dei loro eterni litigi. L’atto termina in un clima tranquillo sulla falsariga del primo, con Mimì e Rodolfo che si avviano all’uscita della scena: “Mano nella mano”.

Il IV atto

Analizzando ora il quarto atto della Bohème di Puccini troviamo la scena e la struttura del primo, con la differenza che questa volta la prima metà dell’atto ha un che di febbrile, un’allegria sopra le righe, come se i quattro bohémiens presentissero vagamente l’imminente tragedia nascondendo il loro disagio in una ilarità artificiale.

Ora i ritmi sono più nervosi, le frasi più frammentate e l’orchestrazione più rude, a volte aspra, con gli ottoni frequentemente in azione, specie dopo che Schaunard e Colline hanno raggiunto gli altri due amici. Puccini, però prima di immergersi in questa atmosfera di forzata gaiezza, inserisce uno di quei suoi quadretti poetici tanto caratteristici del suo stile drammatico. Cioè il grazioso episodio in cui Rodolfo e Marcello contemplano con nostalgico affetto gli oggettini che ancora conservano delle loro infedeli amanti.

Lo squisito duetto, tenero e sognante, costituisce una momentanea evasione dalla realtà e Puccini sembra sottolineare il suo carattere parentetico ossia di parentesi, in questo contesto di parole. Dopo aver riassunto in un breve postludio orchestrale – un melanconico stato d’animo – la melodia viene ripresa in ottava dal violino solo e violoncello solo, echeggianti rispettivamente le voci di Rodolfo e Marcello che l’autore ci riporta a terra con il: “Che ora sia“, di Rodolfo.

Con poche eccezioni: una il duetto di cui abbiamo testè parlato, la musica del quarto atto e fatta da reminiscenze. Procedimento aspramente avversato agl’inizi, da critica e pubblico.

La narrazione dell’orchestra

Ma il modo con cui Puccini impiega temi e motivi dei primi due atti – allegri – nel nuovo contesto è psicologicamente sagace e logico. Ora il dramma ci viene narrato principalmente dall’orchestra. Basti citare il violento scarto dall’accordo di si bemolle a quello di mi minore quando Musetta entra in scena inaspettatamente portando la notizia dell’imminente arrivo di Mimì. O la seguente versione del Leitmotiv di Mimì, ormai l’ombra di se stessa, affidata al corno inglese ed alle viole sui brividi del basso. O ancora il successivo racconto di Musetta del casuale incontro con la fanciulla morente, accompagnato da sincopati che sono come battiti spasmodici di un cuore angosciato.

Ora l’orchestra rivela allo spettatore quello che gli stessi personaggi ancora ignorano. Così l’improvviso passaggio dal re bemolle maggiore al si minore dopo le ultime parole di Mimì, ci dice già che il suo sonno non avrà risveglio. Quando poi verso la fine dell’opera Rodolfo chiede in tono di sgomento: “Che vuol dire quell’andare e venire.. quel guardarmi così?…“, l’orchestra sola gli dà la risposta, con la sua straziante trenodia.

Il finale

Puccini non sarebbe stato Puccini se non avesse immortalato gli ultimi momenti di Mimì con una delle sue più ispirate melodie mai uscite prima dal suo “essere” di poeta e musicista. Il “Sono andati“, è l’incarnazione della tristezza, con una sua linea vocale che discende per un’ottava tutti i gradi della scala fino al do basso del soprano, incupita dal raddoppio dei violoncelli e sostenuta dal singhiozzo di funebri accordi.

Più invecchio, più mi convinco che La bohème è un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello. (Igor Stravinsky)

Egli ripete quindi questo tema così penetrante nell’epilogo orchestrale. Proprio alla fine dell’opera, dove esplode a piena orchestra con tutta la sua forza. Introdotto dagli accordi degli ottoni, che si abbattono sullo spettatore come una lama di una ghigliottina.

Dopo la vibrante melodia in do minore, Mimì con le sue ultime forze canta l’ardente frase: “Sei il mio amor“. Via via che la vita l’ abbandona, la musica diviene più trasparente e tenue. Si riduce poi ad un sussurro quando la fanciulla ricorda il suo primo incontro con Rodolfo in quella lontana notte di Natale. In quest’attimo l’orchestra ripropone la frase della: “Gelida manina“, con colori di incorporea bellezza.

Davvero pochi finali d’opera, compreso quello della Traviata, arrivano ad uguagliare il pathos della “Bohème”, ed il suo potere di commozione.

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Sansone e Dalila, opera lirica in tre atti di Camille Saint-Saëns https://cultura.biografieonline.it/sansone-e-dalila-saint-saens/ https://cultura.biografieonline.it/sansone-e-dalila-saint-saens/#respond Wed, 01 Mar 2017 17:32:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21601 L’opera lirica “Samson et Dalila” – in italiano Sansone e Dalila – scritta di Camille Saint-Saëns (1835-1921) si ispira, come è facilmente intuibile, all’episodio biblico di Dalila e Sansone. L’opera si compone di tre atti e quattro quadri; il libretto è di Ferdinand Lemaire (1832-1879) autore creolo, originario della Martinica.

Sansone e Dalila - Rubens
Dettaglio del quadro di Rubens Sansone e Dalila

L’opera Sansone e Dalila debuttò il giorno 2 dicembre 1877 al Teatro Granducale di Weimar, in Germania. La prima rappresentazione fu pertanto presentata in lingua tedesca con il titolo Simson und Delila. Da subito riscosse un grande successo. La prima esecuzione in lingua francese avvenne molti anni dopo. Essa risale al 23 marzo 1890, a Rouen. In tale occasione non suscitò l’entusiasmo del pubblico. Trovò comunque riscatto e merito in seguito, diventando l’opera più celebre di Saint-Saëns. Ad oggi i principali teatri del mondo la annoverano nel proprio repertorio operistico. Le prolusione e l’analisi musicale seguenti, sono state redatte del maestro Pietro Busolini.

Personaggi dell’opera

  • Dalila (Mezzosoprano);
  • Sansone (Tenore);
  • il Gran Sacerdote di Dagon (Baritono);
  • Abimélech Satrapo di Gaza (Basso);
  • un vecchio ebreo (Basso);
  • un messaggero filisteo (Tenore);
  • due filistei (Tenore, Basso);
  • ebrei, filistei;
  • coro di ebrei;
  • coro di donne filistei;
  • danzatori d’ambo i sessi

L’azione si svolge a Gaza-Palestina, in epoca biblica.

Camille Saint-Saëns
Camille Saint-Saëns

Samson et Dalila (Sansone e Dalila), genesi dell’opera

Nel giugno 1870, Camille Saint-Saëns si sentì offrire da Franz Liszt, la disponibilità del teatro di Weimar, per tenere a battesimo Samson et Dalila, in quanto egli ne era direttore artistico. Il Maestro felicemente accettò l’invito. Sicuramente egli non pensava ancora, quanto sarebbe stato arduo farla rappresentare.

Comunque un pubblico entusiasta e festante decretò il trionfo di “Samson und Dalila“. Tredici anni dovettero passare prima che, Samson fosse unito a Dalila, dalla più appropriata congiunzione “et ” e questo accadde a Rouen, il 3 marzo 1890. L’esito fu trionfale, ripagando così il sessantacinquenne compositore da amarezze e delusioni, e consacrando formalmente l’opera alla storia, dopo tribolati periodi di attesa.

Quando iniziò la composizione del Samson et Dalila, il Maestro aveva già scritto Le Timbre d’argent (1865) e pensava a un opéra-comique, la “Princesse Jaune“. Ma questa partitura non era ancora stata presentata a nessun impresario teatrale.

Il nuovo lavoro ebbe una lunga e travagliata storia: un primo intoppo lo ebbe nel 1870, quando, l’audizione privata di un brano, si risolse in una cocente bocciatura.

Foto di Franz Liszt
Franz Liszt

L’offerta lisztiana per Sansone e Dalila nacque proprio in questo periodo. Essa rincuorò Saint-Saëns, il quale, ripresa la composizione, la terminò nel 1874. Una prima esecuzione in forma di concerto del primo atto, il 12 marzo 1875, non dette purtroppo esiti molto incoraggianti. Tantomeno la prima rappresentazione di “Le Timbre d’argent“, accolta freddamente all’Opéra di Parigi nel 1871. Nulla al tempo, giocava a favore di una messa in scena francese del Samson em Dalila, che, come si è visto, prese la strada di Weimar.

Concepito inizialmente per un allestimento oratoriale, il soggetto dell’opera in esame era stato scelto dallo stesso compositore. Non mancavano illustri precedenti letterari: il Samson Agonistes (I nemici di Sansone) tragedia di John Milton del 1671; il Samson, libretto scritto da Voltaire per l’opera di Jean-Philippe Rameau
nel 1733; né era ignoto a Saint-Saëns, il Samson del venerato Händel (1741-1742).

Il libretto verseggiato con cura, da Lemaire per Saint-Saëns (si dice abbia messo mano anche il compositore, che del resto era un fine letterato), sembra risentirne nella scansione drammaturgica dell’originaria destinazione. Una caratteristica questa che lo accomuna a molti dei testi letterari musicati in seguito, da Saint-Saëns.

Riassunto e trama dell’opera Sansone e Dalila

Atto primo

Prima che si apra il sipario, s’ode in lontananza il pianto degli ebrei, abbandonati dal Signore per la loro empietà. Sono ora sconfitti dai filistei e ridotti in schiavitù a Gaza. S’alza il sipario su di una enorme piazza nella città di Gaza. Gli ebrei piangono la schiavitù che li assoggetta ai filistei: “Dieu d’Israel“. Sansone li rimprovera di aver perso la fiducia in Dio e si dice pronto a spezzare il giogo che li opprime: “Arrêtez ô mes frères“.

Le grida di entusiasmo con cui sono accolte le sue parole fanno intervenire il Satrapo di Gaza, Abimélech, il quale schernisce il Dio degli israeliti, sordo ai loro lamenti: “Ce Dieu que votre voix implore“. Affrontato da Sansone, il Satrapo vorrebbe trafiggerlo con la spada, ma l’ebreo Sansone gliela strappa di mano, e lo uccide.

Animato da una forza che sembra sovrumana, Sansone mette in fuga i soldati filistei che scortano Abimélech. Abbandona poi la piazza seguito dagli ebrei. Appare sulla soglia del tempio il Gran Sacerdote, davanti al cadavere di Abimélech. Egli ordina che Sansone e il suo popolo siano sterminati. Un messaggero porta la notizia che gli ebrei, ormai senza freni, stanno devastando il paese. Il Gran Sacerdote, maledice i ribelli, parte con i filistei per rifugiarsi sulle montagne: “Maudite à jamais“.

Col nuovo giorno la piazza si riempie di ebrei, che elevano un inno di ringraziamento al Signore: “Hymne de joie“. Dal tempio escono uno stuolo di fanciulle filistee, guidate dalla bellissima Dalila. Esse lodano la vittoria di Sansone: “Voici la printemps“. Dalila venuta a coronare la fronte dell’eroe gli svela il proprio amore, invitandolo a raggiungerla nella sua dimora, nella vallata di Sorek: “Printemps qui commence“.

Sansone è dilaniato da opposti sentimenti, ma, nonostante gli ammonimenti di un vecchio, decide di raggiungere la donna nella sua casa. Dalila attende l’arrivo di Samson mentre le fanciulle danzano. Dalila rivolge ancora all’eroe un dolcissimo invito d’amore.

Sansone e Dalila - coro degli ebrei
Una foto tratta da una rappresentazione di Sansone e Dalila: il coro degli ebrei

Atto secondo

La scena si svolge nella vallata di Sorek. A sinistra c’è la casa di Dalila. E’ sera. Dalila attende Sansone. Arriva il Gran Sacerdote che narra la situazione disperata dei filistei. Per eccitare Dalila a conquistare Sansone, il sacerdote ne tocca la vanità dicendole che Sansone un tempo innamorato di lei ora si è stancato. Ma tutto ciò è inutile: Dalila sa bene che non è vero, ella rifiuta i doni che il Gran Sacerdote le offre per aver nelle sue mani Sansone col proposito di vendicare i filistei: “Amour, viens aider ma faiblesse“.

Dalila non vuole nulla: “anche perché essa odia Sansone come egli – odia lei“. Ella, donna debole ed imbelle, sarà invece lo strumento della vittoria del suo popolo. Infine giunge il Grande Eroe: Sansone è agitato dal desiderio e dal pentimento. Egli sa che il suo popolo l’attende per esser liberato. Sa che il Signore lo ha eletto per compiere una missione.

In Sansone però prevalgono i sensi. Si odono ancor lontani i primi suoni e i primi bagliori d’un violento temporale che avanza. Dalila lo accoglie dolcissimamente, alternando voluttà e lusinghe, pronunciando lunghe frasi d’amore. Sansone invoca l’aiuto al Signore, ma cede al suo fascino, alla sua passione. Egli per ben tre volte le dichiara il suo amore ed ogni volta più intensamente: “Mon coeur s’ouvre a ta voix“.

Dalila si fa sempre più languida, più sensuale e chiede a Sansone di provargli il suo amore, di darle la prova d’essere un amante fedele e non solo fedele al suo Dio. Ella vuole che le provi veramente il suo amore, rivelandole il segreto della sua potenza. Sansone, però, non vuole cedere anche su questo. Lei allora lo sprezza come vile, come un amante debole. Dopo averlo ancora accusato di non amarla veramente, lo scaccia e si rifugia in casa. Intanto imperversa il temporale. Sansone la segue: si arrende del tutto alla sua dominatrice.

Qualche istante dopo giungono i filistei del Gran Sacerdote, essi si appostano nei pressi della casa ed attendono. Si ode la voce di Dalila chiamare: “Sansone!“, ora è in mano sua.

Atto terzo

Scena nella prigione di Gaza. Sansone incatenato, langue. È cieco, privo dei capelli che erano l’origine della sua forza. E’ legato ad una macina. Dalle sue labbra sale un’invocazione a Dio affinché sottragga al loro destino gli ebrei nuovamente in cattività :”Vois ma misère“.

Da lontano si odono le voci degli ebrei piangenti che accusano Sansone di averli traditi per amore di una donna. Giungono alcune guardie che devono condurre il prigioniero al tempio di Dagon. Nel tempio si festeggia, con un’orgia sfrenata, la vittoria filistea.

L’arrivo di Samson è salutato dallo scherno generale. Il gran sacerdote sfida ironicamente Jehova, il Dio degli ebrei: restituisca quel Dio, la forza e la vista a Samson se ne è capace. Eleva quindi un inno a Dagon, unico vero Dio, cui si uniscono Dalila e tutto il popolo.

Sansone invoca allora l’aiuto divino, chiedendo gli venga restituita ancora una volta la forza di un tempo. Appoggiando quindi le sue nerborute braccia a due dei pilastri del tempio, ritrova per un momento la sua potenza formidabile. Il tempio sprofonda, inghiottendo Sansone e tutti i filistei.

Sansone e Dalila - Scena danza del Baccanale
L’orgia sfrenata: una scena teatrale della danza e del baccanale

Analisi musicale

Musica strepitosa, concertazione fantastica. Queste sono le prime considerazioni – dopo una prima lettura veloce alla partitura di: “Sansone e Dalila“. Sono già evidentissime, dalle varie sezioni del primo coro l’iterazione continua e tormentosa, tonalmente cangiante, dalla base di partenza di si minore, acefalica e sincopata la frase, di “Dieu d’Israel“, dalla sovrapposizione contrappuntistica di “Un jour de nous tu detournas la face“, ed il cromatico motivo di fuga, non sviluppato, seppur l’orchestra lo sorregge.

La vera e propria fuga, in stile rigoroso e plasticamente haendeliana, è un altro vero e proprio calco stilistico su : “Nous avons vu nos citees renversees“, un blocco di brani che apre l’opera con solennità singolare, ed un senso del recupero, che ha del prodigioso, proprio per la sua vitalità. Ma giova notare che l’arcaismo “neoclassico” della scrittura non è visto in funzione esclusivamente sacra, sol riferito agli ebrei. Cosa che sarebbe troppo facile e troppo ingenua. Essa si lega, anzi, strettamente alla presenza dei filistei, determinando una loro cifra stilistica ben netta per tutta l’opera.

Notiamo già nella splendida aria del povero Abimalèch “Ce dieu que votre voix implore“, la voce all’unisono con gli ottoni e interventi acutissimi e volutamente volgari degli strumentini, volti a riaffermare l’atmosfera esotica nella severità del contesto. Ma è particolare ed in esteso, il gran sacerdote ad essere caratterizzato da tale procedimento. Sapore arcaico ho la sua aria nel primo atto “Mautide a jamais soit la race“.

E ancor più il suo duetto con Dalila, al termine del primo quadro del secondo atto “Il faut pour assouvir ma haine“, formalmente nettissimo e con le voci in imitazione, e pur dotato di intensa carica drammatica, per culminare nel brano più eclatante, il duetto di Dalila con il coro: “Glorie a Dagon“, nel terzo atto. Esso è regolare e squadrato così poco scolastico ed accademico, da poter sembrare addirittura una pagina stravinskiana, per l’impudico sprezzo dell’originale matrice del materiale.

Questo Gran Sacerdote permea nella sua aura arcaistica, ogni brano in cui compare, salvo parte del secondo quadro del terzo atto, sarcasticamente parallela, sintetizzando le grandi scene d’amore dei due atti precedenti. Ed il baccanale, sfrenata orgia di sensualità con le sue asimmetrie ritmiche alla percussione, sul finale, a sostegno d’una melodia il cui carattere orientale è dato dal consueto uso dell’intervallo di seconda aumentata.

Ed è comunque personaggio forse non inferiore alla dolcissima e tanto perversa Dalila, e certo tanto più interessante e riuscito di Sansone: “eroico”, spesso di maniera, e talora povero nella sua vocalità “di forza”. Questo si evince seguendo la partitura e, per quanto oggi sia facile irridere la crudele Dalila, simile alle fredde “Donne – Gatto“, di Baudelaire, da cui ogni poeta vorrebbe essere dilaniato. Concludendo come dice il poeta nel monologo: “Pour dire les plus longues phrases, elle n’à pas besoin de mots“, ella è tra i personaggi più riusciti e forse conturbanti della sua epoca, slittante dolcemente su di un’armonia languida e vaporosa, in cui la dissonanza acquista per lo più funzione coloristica, tra i sussurri d’una curatissima orchestrazione, la provocazione erotica di Dalila, la sua sublime impudicizia, già contengono, nella scoperta tensione della sua melodia, tutti i germi del suo sadico dominio.

La più atroce beffa è che, quell’amore appassionatissimo e delicato, colmo come pochi di dolcezze, anche da noi godibili, al cui livello Sansone nemmeno tenta di portarsi, è solo finzione. L’impotenza, certo!…elevata a sistema è la categoria attraverso cui l’autore stesso di Sansone e Dalila vede il suo personaggio che… non può possedere!

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Aida, di Giuseppe Verdi: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/aida-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/aida-riassunto/#comments Wed, 08 Feb 2017 09:22:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21251 Aida è un’opera di genere drammatico, tra le più celebri di Giuseppe Verdi. Si compone di quattro atti. Il libretto è di Antonio Ghislanzoni. L’opera si basa su un soggetto originale dell’archeologo francese Auguste Mariette. L’analisi che segue è stata realizzata dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Aida - Verdi - riassunto

La prima

La prima rappresentazione avvenne al Teatro khediviale dell’Opera della Città del Cairo il 24 dicembre 1871. Fu diretta da Giovanni Bottesini. Per l’anteprima italiana sotto la sua diretta supervisione, Verdi scrisse una ouverture, che però alla fine non venne eseguita per un ripensamento, considerando il breve preludio più organico ed efficace. Aida fu scritta in onore e gloria per l’apertura del Canale di Suez. La nuova opera del Maestro Giuseppe Verdi, inaugurò nel contempo anche il nuovo teatro della capitale egiziana.

La prima rappresentazione in Italia avviene invece l’8 febbraio 1872, al teatro alla Scala di Milano.

Aida, la genesi dell’opera

Il Maestro Giuseppe Verdi ricevette l’incarico dall’illustre collega Camille du Locle direttore dell’Opera-Comique di Parigi. Dopo una titubanza iniziale, ebbe per quest’opera un interesse particolare. Il lavoro fu eseguito in lingua francese, con la collaborazione dello stesso du Locle per la prosa. L’interesse del Maestro per questa nuova stesura, fu certamente l’esigenza di creare una fantasmagorica grand-opéra, strutturandola nel nuovo contesto musicale dell’epoca.

Aida fu creata scena per scena, per un totale di 4 atti e 7 quadri, sempre con l’aiuto dell’amico du Locle. Per quanto riguarda il libretto italiano, da quanto si evince dai carteggi dell’epoca, Verdi aveva contattato Giuseppe Ghislanzoni, fine letterato e uomo di cultura. Ghislanzoni era molto conosciuto nell’ambito del teatro del tempo.

Potremmo confermare anche che questa storia, fu immaginata dall’egittologo francese Mariette. Verdi però non la diresse al Cairo. Inviò – come da accordi – una persona di sua fiducia: il Maestro Giovanni Bottesini.

Queste erano le clausole che Verdi concordò con il Sovrano dell’Egitto: l’opera doveva essere pronta entro la metà dell’anno 1871, per i mesi di giugno o luglio, per una somma di centocinquantamila franchi.

Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886
Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886

Considerazioni sull’opera

Si tratta di un’opera del Verdi maturo. Essa divenne in breve tempo molto popolare, come lo erano già Rigoletto, Traviata, Trovatore, ed altre ancora.

Voglio ricordare anche che uno strumento musicale, creato il secolo prima da Giovanni Barbieri da Cremona, ossia l’organo a rullo o a cartone – chiamato più semplicemente Organetto di Barberia – veicolò queste opere in tutto il mondo. Dall’Europa alle Americhe, fino all’Asia, tali opere erano cantate in italiano, e conosciute dal popolo. Fu anche grazie a questo strumento che si diffuse la conoscenza e l’amore per la nostra lingua italiana in questi continenti.

Il Maestro Giuseppe Verdi volle con questo nuovo lavoro di ricerca e di sperimentazione, l’Aida, colmare quel desiderio, quel suo incessante cercare. Ciò che fece fu creare rinnovandosi a nuove tematiche di ordine armonico e orchestrale. Da questo nacque una monumentale scenografia musicale, per scender poi nella struttura psicologica dei singoli interpreti. A parer mio, questo suo trapassare, lo fece cercando e trovando in piena verità teatrale grandi squarci collettivi.

Egli intimisticamente entrò nelle pieghe nell’anima dei personaggi di Aida, Radamès, Amneris e Amonasro, creando quell’impalpabile tessuto connettivo, che colpì lo spettatore dell’epoca decretandone l’assoluto trionfo.

Aida, trama e riassunto

Atto I

Scena Prima. L’azione si svolge nella sala del trono nella reggia di Menfi.

Durante una spedizione militare contro l’Etiopia, i soldati egizi catturano la principessa Aida. Ignorando la sua vera identità, la portano a Menfi e la mettono in schiavitù.

Suo padre – il Re di Etiopia Amonasro – organizza un’incursione per liberarla e ricondurla a casa. Non sa che sua figlia si è innamorata del giovane condottiero Radamès, il quale ricambia questo suo sentimento.

Purtroppo anche Amneris, figlia del Re d’Egitto, si è invaghita del giovane. La principessa Amneris intuisce subito che possa esserci qualcosa tra la giovane schiava e il suo amato. Cerca allora subdolamente di consolare Aida, con lo scopo di scoprire qualcosa in più.

Il Re apprende le ultime notizie dal confine: l’esercito Etiope sta marciando contro l’Egitto. A Radamès viene concesso il rango di Duce dell’esercito egizio, con il compito di fermare l’avanzata dell’esercito di Amonasro.
Aida è contrastata tra l’amore per la Patria e l’amore verso il suo Radamès.

Scena Seconda. Interno del tempio di Vulcano a Menfi.

Avvengono cerimonie solenni e la danza delle sacerdotesse per l’investitura di Radamès come comandante in capo.

Radamès - Aida
Aida, scena tratta da una rappresentazione: Radamès viene nominato capo delle guardie.

Atto II

Scena Prima. Nella camera di Amneris

Amneris riceve nelle sue stanze la schiava Aida. Con malizia finge che Radamès sia morto in battaglia per spingerla a dichiarare il suo amore per lui. L’inganno di Amneris funziona e la reazione involontaria di Aida la tradisce, rivelando i suoi sentimenti.

A questo punto anche Amneris mette le carte in tavola e dichiara il suo amore per Radamès. Come potrebbe un’umile schiava competere con la figlia del Faraone? Mossa da orgoglio Aida svela la sua vera identità di figlia del Re Etiope.

Dal fronte arrivano notizie di vittorie e Amneris costringe Aida ad assistere al trionfo dell’Egitto e alla sconfitta del suo popolo.

Scena Seconda. Nella città di Tebe: la porta è festosamente addobbata. I soldati e il popolo sono festanti.

Una marcia trionfale accoglie il ritorno vittorioso di Radamès. Come ricompensa, il Re gli concede qualsiasi cosa desideri. I prigionieri etiopi sono condotti al cospetto del Re. Tra di loro c’è anche Amonasro. Aida corre a ricongiungersi con il padre, tuttavia le loro vere identità rimangono ancora sconosciute agli egizi. Il Re Etiope è infatti dato per morto in battaglia.

Radamès, per amore di Aida, esprime il desiderio offertogli dal Re, e chiede il rilascio di tutti i prigionieri etiopi.
Il Re Amonasro, pieno di gratitudine verso Radamès, lo dichiara suo successore al trono, offrendogli la mano di Amneris.

Tutti i prigionieri etiopi vengono rilasciati tranne Aida e Amonasro. Essi sono trattenuti su consiglio del sommo sacerdote Ramfis. Ciò per evitare che gli etiopi cerchino la vendetta dopo la cocente sconfitta.

Atto III

La scena si sposta sulle rive del Nilo. E’ notte: si scorge sullo sfondo il tempio di Iside.

Mentre Ramfis conduce Amneris al Tempio per propiziare la dea alla vigilia delle nozze, Aida attende nascosta Radamès. Ma giunge prima suo Padre, che cerca di convincere la figlia a farsi dire dall’amato, quale via seguiranno le truppe egizie per invadere l’Etiopia.

Nonostante che il padre le rammenti con patetici accenti la patria lontana, Aida si ribella a lui (Rivredrai le foreste imbalsamate).

Giunge Radamès. Amonasro si nasconde. Aida propone all’amato di fuggire dall’Egitto. Radamès conosce un sentiero per arrivare in Etiopia: non sapendo di essere sentito egli indica le gole di Napatà. Appare Amonasro, si fa riconoscere, e Radamès capisce d’aver rivelato un segreto tradendo la sua patria.

Contemporaneamente sbuca Amneris proveniente dal Tempio, che sentendo anch’essa la parole di Radamès, grida al tradimento. Amonasro la vuole uccidere, ma Radamès lo ferma. Consegna poi la spada a Ramfis facendosi prendere prigioniero, mentre Amonasro fugge con Aida.

Atto IV

Scena Prima. Nella fastosa sala del palazzo del Faraone.

Amneris, sapendo che Radamès è innocente, lo supplica di discolparsi. Ma egli si rifiuta, condannandosi per l’incauto gesto. Durante il processo, egli tace, non pronunciando una sola parola in propria difesa.

Amneris si appella alla pietà dei Sacerdoti, ma nonostante il suo accorato appello, Radamès viene condannato a morte per alto tradimento. Viene portato nelle prigioni del Faraone.

Scena Seconda. L’interno del tempio di Vulcano e la tomba di Radamès. La scena è divisa in due piani: il piano superiore rappresenta l’interno del tempio splendente d’oro e di luce; il piano inferiore, un sotterraneo.

La condanna prevede che Radamès sia sepolto vivo. Radamès crede di essere solo nella sua cripta, ma poco dopo si accorge che Aida si è nascosta lì per poter morire insieme a lui. I due amanti confermano l’amore reciproco e accettano il loro triste destino. Mentre questi attendono che l’alba porti via le loro pene, Amneris piange e prega sopra la loro tomba.

Analisi musicale

Dopo il preludio, che già regala una tonale intimità drammatica, la successiva introduzione con l’aria: “Celeste Aida“, coniugano un Giuseppe Verdi essenziale e popolare piuttosto che emotivo, e di effetto. E’ una perfetta ed impressionante orchestrazione, che crea un continuo rapporto dinamico, distribuendolo sapientemente nella sua scelta timbrica e di colore, come scriveva Eduard Hanslick.

Nel procedere nella conoscenza dell’opera incontriamo uno struggente “allegro – giusto poco agitato”, che precede il “Numi, Pietà“, di Aida. E’ il vero diamante della produzione verdiana.

Quindi vi è la scena della consacrazione ed il finale che chiude il primo atto. Questo passaggio colorisce timbricamente l’orchestra, accelerandone armonicamente tutto l’impianto scenico e di canto, facendoci così capire cosa intendeva Verdi per Grand-Opéra.

Nel secondo atto

L’impatto che avvertiamo immediatamente nel secondo atto, con la sua introduzione, è quello di stabilire un nuovo modo stilistico. Impressionista nel proporre lo spartito e condividerne i fatti – sino alla danza dei piccoli mori.

Segue la scena tra Amneris e Aida nel suo drammatismo più letterale. Furore, pietà, dolore sono coniugati in maniera apertamente falsa e bugiarda. Cogliamo nell’arco musicale una calma fantastica nell’intonare: “Numi, pietà“, di Aida. Esso è immediatamente squarciato dal gran finale del secondo atto, con l’inno, la marcia trionfale e le danze. Grande spazio a quest’ultime, per il meraviglioso contributo sinfonico, l’ampiezza e la molteplice varietà dei loro inserti esotici.

Il gran finale con cui Giuseppe Verdi termina l’atto, lo porta a toccare vette altissime, come vero ed unico mito di questo periodo storico musicale. Popolare? …Anche! Ma unico nell’interpretare un rapporto così stretto e carico di pathos fra l’orchestra ed il palcoscenico. E’ un’osmosi che si chiude con la ripresa del tema della marcia trionfale. E’ semplicemente grandioso!

Nel terzo atto

Entrando in punta di piedi nel terzo atto, notiamo lo scorrere pacifico del Nilo. Davanti a noi si staglia un disegno impressionista, accompagnato dal musicare di un flauto, che è, fra i più suggestivi effetti timbrici del Verdi.

Lo strumento è magicamente suonato per ricordare il vellutato ed intimistico momento d’amore. E anche il momento più violentemente drammatico di quest’opera. Direi che questo il più musicalmente riuscito, dei quattro atti.

Ci attende ora il duetto Amonasro – Aida, fantasticamente composto da voci Verdiane, con l’ “andante assai sostenuto”, che introduce: “Pensa che un popolo vinto“. Qui la voce del baritono vien tenuta ppp. (piano pianissimo), con un malcelato grido, preparando la successiva scena di Aida e Radamès, colma di un particolare rilievo drammatico e psicologico che ritroviamo anche alla fine dell’atto, con discrepanze tenorili di effetto e di sostanza.

Nel quarto atto

Entrando nel quarto atto rileviamo una straordinaria e misurata, quanto calibrata, concertazione di taluni Leitmotive, concernenti il personaggio di Amneris. La principessa combattuta tra l’amore per Radamès e la ragion di stato, si esprime in finezze vocali tradotte in grida e singhiozzi. Vi è un drammatismo che esalta senza soffocare una vasta tessitura vocale. Continuando con l'”allegro agitato” “Chi ti salva sciagurato“, con un andamento strofico da cabaletta.

Successivamente arriva in scena il Gran Sacerdote accompagnato dal suo regale seguito. Amneris in attesa della cerimonia politico-religiosa, mantiene quell’impulso iroso contro i rituali sacrificali del Gran Sacerdote e della Corte. Qui vi è un colpo di genio del Maestro che capovolge di fatto tutte le precedenti e fastose scene. Amneris intona la romanza: “Oh infami! Ne’ di sangue son paghi giammai. E si chiaman ministri del ciel“.

Il gran finale

Ora seguiamo il gran finale nelle sottostanti celle – con l’analisi della scena – recitativo: “La fatal pietra sovra me si chiuse“. E il duetto: “O terra addio“. Radamès cammina nell’oscurità e nel silenzio più profondo, quando intravede una figura venirle incontro. E’ Aida. Ella spiega a Radamès di aver presagito la sua condanna e di essersi introdotta nella tomba per morire assieme a lui. Aida intona: “Presago il core della tua condanna“.

L’accompagnamento orchestrale è una successione di minime sul re, eseguite dai clarinetti bassi, fagotti, viole e dai violoncelli rinforzati dalla gran cassa che illustra l’effetto espressivo e funebre. Segue un rintocco di campane come presagio di morte.

Continuando ad analizzare la melodia: “O terra addio“, attraverso il suo ripetuto ascolto, entriamo nella cabaletta finale. E’ uno straordinario finale, uno dei più grandi nella storia dell’opera. Notiamo che questa melodia vien ripetuta ben 12 volte, prima da Aida, poi da Radamès ed infine all’unisono da entrambi.

Contemporaneamente udivamo il canto sacro dei sacerdoti inneggiare: “Immenso Fthà“, dedicato agli Dei dell’Egitto.

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Commento

Le considerazioni ovviamente sono d’obbligo quando si pensa che in Baviera viveva Richard Wagner che con le sue liriche ed i suoi poemi creava un nuovo modo di concertare. Per questo possiamo ipotizzare che all’epoca ci fossero forti diatribe e parallelismi tra le musiche dei due Grandi e Geniali musicisti. Ma abbiamo ragione di credere che, leggendo gli spartiti dell’uno e dell’altro nell’epoca dell’Aida, entrambi espressero la propria genialità, creando e cercando nuove sperimentazioni di ordine armonico ed orchestrale.

Percorsero quindi la stessa strada, ma con una diversa visione e con una diversa bellezza musicale. Giuseppe Verdi lo fece con sfarzose parate, marce trionfali dai colori accesi, con la sua diligente elaborazione tecnica, creando una unità di stile, e quella coscienziosa e drammatica linea, che troveremo nelle sue opere, sino ad Otello.

Di contro il grande tedesco creò quella linea epica – mitologica e fantastica del Mito Teutonico, sdoganando così tutta una serie di drammi contenuti nella storia e nella letteratura Germanica. Si tratta du musica potente ed imperativa, adatta al sentir del suo popolo.

Mentre il Verdi, allunga la schiera dei grandi musicisti italiani, implementando le pagine del nostro “Melodramma”.

Altra musica in Europa? Certamente SI’! Un modo di concepire e di proporsi a nuove ed opposte idee nel moderno sentire. Innovare è il credo, di questo nuovo periodo musicale.

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Lucia di Lammermoor https://cultura.biografieonline.it/lucia-di-lammermoor/ https://cultura.biografieonline.it/lucia-di-lammermoor/#respond Tue, 14 Jul 2015 23:38:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14703 L’opera in tre atti “Lucia di Lammermoor” fu composta da Gaetano Donizetti (1797-1848) su libretto di Salvatore Cammarano (1801–1852). La storia è tratta da “The Bride of Lammermoor” (La sposa di Lammermoor) dello scrittore scozzese Walter Scott (1771-1832). Tra le opere serie di Donizetti è la più celebre. La prima assoluta ebbe luogo al Real teatro di San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835, e riscosse grande successo. Nei ruoli dei protagonisti ricordiamo Fanny Tacchinardi (Lucia), Gilbert Duprez (Edgardo) e Domenico Cosselli (Enrico).

L’analisi e il riassunto che seguono sono stati redatti dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Lucia di Lammermoor - una scena
Lucia di Lammermoor – una scena

Personaggi dell’opera

  • Sir Edgardo di Ravenswood (Tenore);
  • Lucia di Lammermoor (Soprano);
  • Lord Enrico Ashton (Baritono);
  • Lord Arturo Bucklaw (Tenore);
  • Raimondo Bidebend, educatore ed amico di Lucia (Baritono);
  • Alisa, damigiella di Lucia (Mezzosoprano);
  • Normanno, capo degli armigeri di Ravenswood (Tenore);
  • Dame e cavalieri, congiunti di Ashton, abitanti di Lammermoor, paggi e armigeri e domestici di Ashton.

La storia dell’opera di Donizetti

Il soggetto della Lucia di Lammermoor fu desunto dal celebre romanzo “The bride of Lammermoor“, in cui Walter Scott adombrò le vicende della famiglia Stair, gli Ashton, e di lord Rutherford, Edgardo di Ravenswood. Gli avvenimenti ai quali Scott si ispirò ebbero luogo nel 1689, all’epoca delle lotte fra i seguaci di Guglielmo III d’Orange e quelli dell’ex re Giacomo II.

Nel libretto dell’epoca di Donizetti, invece, i fatti sono retrodatati alla fine del Cinquecento. Non si conoscono le ragioni che indussero Donizzeti a scegliere come soggetto il romanzo di Scott. “The Bride of Lammermoor” ad ogni modo aveva proprio in quegli anni colpito la fantasia di diversi operisti: Michele Carafa in La flancèe de Lammermoor, Parigi 1829; Luigi Riesck in La fidanzata di Lammermoor, Trieste 1831; Ivar Frederik Bredal in Bruden fra Lammermoor, Copenaghen 1832; Alberto Mazzuccato in la fidanzata di Lammermoor, Padova 1834, ebbe il maggior successo prima di quello di Donizetti.

Già nel novembre 1834 Gaetano Donizetti si era impegnato a far rappresentare un’opera al San Carlo per l’estate del 1835. è presumibile che egli non avesse, a quell’epoca, ancora scelto il soggetto ed è soltanto in una lettera del 18 maggio 1835, destinata a Luigi Spadaro del Bosch, che si parla per la prima volta della “Sposa di Lammermor” di Walter Scott.

L’opera venne ultimata il 6 luglio – data che figura sulla partitura – e pare che Donizetti abbia cominciato a comporla tra la fine del mese di maggio e gli inizi del mese di giugno del 1835. Lucia di Lammermoor costituì la consacrazione di Donizetti a grande compositore di opere serie.

Nei confronti dei precedenti lavori la caratterizzano due elementi fondamentali: la continuità dell’ispirazione ed un contesto vocale che non indulge mai, o quasi, a facilonerie e convenzionalismi. Giovò indubbiamente a Donizetti la collaborazione del Cammarano, ben provvisto di quelle capacità di sintesi che furono la migliore dote dei grandi librettisti della prima metà dell’Ottocento.

Il romanzo di Scott acquista nella riduzione del libretto un singolare dinamismo ed un taglio prettamente melodrammatico. Il Cammarano seppe togliere i punti più violenti e le passioni esasperate; per rispettare certe scelte tradizionali del teatro musicale, non ci pensò due volte a rimanipolarli. Cammarano fece tutto questo sopprimendo il personaggio della madre di Lucia, avversa ad Edgargo, con il capovolgimento della storia, elminando alcune scene cruente e selvagge a tutto vantaggio dell’effetto teatrale.

Salvatore Cammarano scelse di suddividere il libretto in due parti, “La partenza” e “Il contratto nuziale”, la seconda delle quali suddivisa a sua volta in altre due. Nell’autografo Gaetano Donizetti fece corrispondere la prima parte dell’opera al primo atto – La partenza – e altre due sezioni della seconda parte a due atti successivi: in conclusione, la suddivisione è quella tipica in tre atti.

Lucia di Lammermoor: prima parte

Odio, odio, odio, l’atavico odio, ha sempre separato le loro famiglie, ma i giovani Edgardo di Ravenswood e Lucia di Lammermoor si amano soavemente d’un amore infinito e s’incontrano furtivamente fuori dalle mura del castello.

Ma Edgardo deve partire per la Francia, chiamato altrove a causa dalle vicende politiche nella quale è impegnato con la sua fazione e ricorderà a Lucia prima di partire che, Enrico Ashton gli ha ucciso il padre.

Lo perdonerà, tuttavia, se potrà sposarla. Lucia lo prega di tenere ancora segreto il loro amore, intonando il duetto: “Verranno a te sull’aure“, scambiandosi un’anello, e contemporaneamente: “giurandosi eterna fedeltà“.

Seconda parte

Lord Enrico Ashton, sentendo vicina la sconfitta, in quanto la sua fazione è perdente, inganna Lucia facendole credere che Edgardo s’è legato a un’altra donna e la costringe a sposare il potente Lord Arturo Bucklaw.

Durante la cerimonia di nozze Edgardo irrompe nel castello degli Ashton, rimprovera Lucia per l’infedeltà di cui s’è macchiata e maledice lei e la sua stirpe. Nella seconda parte del secondo atto – Edgardo trascorrere la notte nel disadorno salone della torre nella quale risiede.

Sopraggiunge Enrico, venuto a sfidare colui che ha osato turbare la cerimonia delle, nozze. Edgardo accetta la sfida, che avverrà all’alba.

Nella terza scena del secondo atto, nel castello di Enrico gli invitati festeggiano ancora le nozze di Lucia con Arturo, ma sopraggiunge Raimondo sconvolto. Egli narra che Lucia ha ucciso il marito trafiggendolo con la spada.

Gli invitati alle nozze sono ancor piu preoccupati per la scomparsa di Lucia che, in preda alla follia, immagina prima che si stiano celebrando le sue nozze con Edgardo e poi, con una sorta di ritorno alla realtà, di rivelare all’amato di essere stata costretta a sposare Arturo. A questo punto cade a terra svenuta.

L’ultima scena

Nell’ultima scena, che si svolge all’esterno della torre di Edgardo, questi, affranto per essere stato tradito da Lucia, immagina di rivolgersi a lei e di annunciarle che tra poco egli morrà.

Medita evidentemente – anche se il libretto non lo precisa – di lasciarsi uccidere da Enrico.
Sopraggiungono Raimondo e gli invitati alle nozze ed Edgardo da loro apprende ciò che è accaduto, e che, la sua Lucia è agonizzante.
Vorrebbe rivederla, ma quando i rintocchi d’una campana annunciano che Lucia è morta, disperato per la fine di quell’amore finito, si dà la morte.

Lucia di Lammermoor
Lucia di Lammermoor

Analisi musicale

Questo equilibrio tra sentimenti sconvolgenti e melodie soavi ed ornate, caratterizza sopratutto la figura della protagonista, ma si estende, almeno a tratti, agli altri personaggi dell’opera e investe anche la parte corale. La squillante introduzione orchestrale al coro dei cacciatori che Normanno invia sulle tracce di Lucia e di Edgardo, e subito dopo la risposta degli abitanti del castello, non perdono: “pur nella evidente faziosità e ipocrisia dei seguaci degli Asthon“, il lirismo di un mondo idilliaco.

Semmai è l’entrata in scena di Enrico Asthon che determina, con un recitativo scarno e vigoroso, un’atmosfera di asprezza e di violenza, correlata, d’altronde, alla dialettica del melodramma romantico, che nello scontro tra il bene ed il male scorgeva nel baritono il simbolo della perversità. E tuttavia l’ampio e largo andamento del larghetto: “Cruda, funesta smania”, non è privo di nobiltà, nella parte iniziale; non solo, ma svela nel furore di Enrico, anche un turbarbamento ed un sincero dolore.

A questo punto, il ritorno dei cacciatori, con l’ingenua melopea del coro: “Come vinti da stanchezza“, tipico esempio post-rossiniano di concezioni melodiche ristabilisce per qualche attimo il lirismo. Lucia di Lammermoor come già accennato, è il personaggio dell’opera in cui la passione meglio si distende in melodie di celestiale soavità.

Sin dal suo apparire preannunciato dai languidi arabeschi di un’arpa, Lucia evoca la fanciulla angelica del melodramma romantico. Il larghetto “Regnava nel silenzio” narra l’apparizione del fantasma con la melodia che prende l’avvio da un’ampio intervallo ascendente per poi ricadere lentamente per gradi congiuntti, a trati di carattere cromatico.

Di qui la dolcezza, ma anche il tono misterioso e dolente del brano, mentre nei momenti in cui il racconto si fa più concitato, Donizetti ricorre a fiorettature ed arpeggi e trilli che da un lato rispecchiano la cosiddetta ornamentazione espressiva rilanciata da Rossini, dall’altro mantengono Lucia sul piano di sentimenti sublimati, per cui non configurati e nemmeno percepibili attraverso un linguaggio realistico.

Gaetano Donizetti
Gaetano Donizetti

Con un energico recitativo di entrata, Edgardo lascia intuire che è molto più cavalleresco di Enrico, ma ugualmente fiero ed aggressivo nelle sue passioni. Lucia ha il potere di condurlo musicalmente negli spazi delle melodie eteree e sublimate; il motivo al commiato “Verranno a te sull’aure“, è, nella sua scoperta semplicità il più nostalgico e lancinante messaggio di tutto il teatro musicale romantico.

All’inizio della seconda parte una cupa introduzione orchestrale sembra alludere all’inganno ordito da Enrico, mentre l’arrivo di Lucia è proceduto da una querula frase dell’oboe. Nel duetto che segue la frase di Lucia: “Il pallor funesto orrendo“, ed il suo svolgimento, sembrano preludere ad una rivolta contro la durezza di Enrico. Ma l’accorato lamento: “Soffriva nel pianto“, con il quale Lucia accoglie la falsa notizia del tradimento di Edgardo, sancisce il crollo psicologico della vittima.

E’ notevole in questo duetto la risposta del baritono: “Un folle t’accese, un perfido amore“, giacchè l’ambiguità e la simulata sofferenza di Enrico vi trovano un eloquente tratteggio melodico.

Incastonata in un coro festoso l’arietta di Arturo è seguita da un recitativo melodico con il quale Donizetti, facendo intervenire a turno il tenore ed il baritono su un nitido motivo orchestrale, risolve con molta abilità lo scambio di convenevoli dei due futuri cognati.

L’ingresso di Lucia è accompagnato da una patetica melodia degli archi che funge da filo conduttore durante la cerimonia della firma del contratto nuziale. Poi, l’irruzione di Edgardo dà luogo a quel sestetto che è universalmente considerato come uno dei momenti fondamentali dell’opera. Il tema enunciato da Edgardo e da Enrico e ripreso da Lucia – con il sostegno della voce del basso – frena con la sua solenne ampiezza le passioni dei contendenti e le orienta verso la pietà per la vittima.

L’intervento di Alisa di Arturo e del coro, insieme alla sofferenza, questa volta autentica di Enrico, dilagano in un imponente finale legato da Donizetti con grande efficacia teatrale per l’mprovviso riaccendersi delle contrastanti passioni dei personaggi.

La maledizione di Edgardo, in cui la melodia è tesa fino a sfiorare il canto declamatorio, seguita dalla violenta risposta di Enrico, di Arturo e del coro, ed infine l’appasionata replica all’unisono di Edgardo e di Lucia, sono squarci di una intensa drammaticità.

All’inizio del secondo atto-parte seconda, troviamo un concentrato di luoghi comuni melodrammatici già ampiamente sfruttati dal teatro settencentesco, dalla descrizione dell’uragano al duetto della sfida. Tuttavia, la musica di Donizetti investe in questo tema molto sentito una violenza ed una foga che lo tramutano in uno dei più caratteristici squarci di romanticismo operistico.

Ricordo il clangore dell’uragano con la cupa e corrusca tavolozza orchestrale, i ritmi minacciosi e solenni che accompagnano le esplosioni d’ira di Edgardo o di Enrico: “Qui del padre ancor respira“, ed infine il motivo della sfida: “O sole, più ratto a sorger t’appresta“, sfociando in una scena di notevole effetto teatrale.

La ripresa del coro festoso, nella dimora degli Asthon, ed il larghetto, con il quale Raimondo narra il folle gesto di Lucia, è improntato ad un melodismo non trascendentale; riprende il coro con: “Oh, qual funesto avvenimento“, e da alcune patetiche frasi di Raimondo: “Ah, quella destra di sangue impura“, creando quella atmosfera di sbigottimento e dolore che è uno degli elementi fondamentali della grande scena della follia di Lucia.

Nella prima parte della lunga scena della pazzia, udiamo attraverso la mutevolezza del ritmo, che dall’andante di: “Il dolce suono mi colpì di sua voce“, passa all’allegro: “Ohimè! Sorge il tremendo fantasma“, e quindi al larghetto: “Sparsa è di rose“, e di nuovo all’andante: “Ah, l’inno suona di nozze!“, per poi giungere ad un altro laghetto: “Ardon gli incensi“, attraverso rapide divagazioni di allegri e di maestosi.

In Lucia noi troviamo l’essenza più tipica di quel melodramma romantico italiano del 1830, sconvolgente, tragico, espresso attraverso la lancinante levità delle cantilene; quindi, analizzando, non vuole essere che un estatico linguaggio lirico con i suoi sfoghi e le sue espansioni che il romanticismo ha trattato in chiave disperata, e quindi di violento realismo.

Il recitativo di Edgardo con cui chiude l’opera, abbandonandosi al proprio dolore, è uno dei più ispirati e vari dell’Ottocento operistico e il carattere arioso porta a sé l’immediata saldatura, per carattere e stile, con il larghetto: “Fra poco a me ricovero“. Da questo punto fino al suicidio di Edgardo, trionfa nuovamente l’elegiaca, quasi pastorale melodia delle cantilene. Il coro: “Fur le nozze a lui funeste“, le implorazioni di Edgardo: “Di chi mai, di chi piangete“, e: “Questo dì che sta sorgendo“, ed infine la cabaletta: “Tu che a Dio spiegasti l’ali“, si intrecciano in questa scena di morte, in una commozione che si risolve tutta in purezza e linearità di canto.

Ancora una volta la suggestione della donna angelicata ha elevato l’irriducibile Edgardo, al clima sublimato dalla melodia traboccante di soavità.

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La Bohème di Giacomo Puccini https://cultura.biografieonline.it/boheme-di-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/boheme-di-puccini/#comments Mon, 10 Sep 2012 15:42:23 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=3776 Intorno alla metà dell’Ottocento si sviluppa, in Francia, un atteggiamento mentale, più che un movimento, in virtù del quale gli artisti ed i giovani studenti esprimono il proprio malessere esistenziale ed il proprio anticonformismo vivendo una vita disordinata, squattrinata ed errabonda, in uno stato di intima solitudine. Il loro riferimento è il nomadismo degli zingari che, provenienti dalla Boemia, sono approdati in Francia. Colpito e coinvolto personalmente dal nuovo costume, il romanziere Henry Murger (Parigi 1822-61) ne fa materia delle sue “Scene della vita di bohème”, pubblicate a puntate sulla rivista “Corsaire” fra il 1847 ed il 1849.

La Boheme di Puccini, locandina della prima (1 febbraio 1896)
La Bohème di Puccini, locandina della prima (1 febbraio 1896)

L’opera autobiografica contribuisce notevolmente alla diffusione di quel modus vivendi al punto da ispirarne il nome: “bohèmien” diviene, da quel momento, il sostantivo ufficiale per indicare uno stile di vita improntato ad una libertà trasandata, spensierata, povera, a tratti malinconica, che in Italia assume il nome di “Scapigliatura”. Nel 1851 le “Scene” vengono raccolte in volume ed adattate per il teatro, con la collaborazione del drammaturgo Théodore Barrière.

Giacomo Puccini
Giacomo Puccini

Una mattina di 42 anni dopo, il 19 marzo 1893, in un caffé frequentato da artisti e letterati nel centro di Milano, si incontrano occasionalmente i compositori Giacomo Puccini e Ruggero Leoncavallo. Amici di vecchia data, i due non si vedono da molto tempo e si immergono subito in una conversazione sui temi a loro più cari, e cioè la musica ed il teatro.

Ruggero Leoncavallo
Ruggero Leoncavallo

 

Il clima di armonia e di reciproca considerazione è destinato, però, a deteriorarsi improvvisamente quando entrambi scoprono di essere impegnati nella conversione in lirica della medesima opera teatrale: le “Scene della vita di bohème” di Murger. Da quel momento l’amicizia fra i due finisce, rimpiazzata da un’avversione reciproca che giunge a rasentare l’odio.

Il giorno successivo “Il Secolo” dà notizia dell’impegno in corso di Leoncavallo, seguito a ruota dal “Corriere della Sera” che pubblica una nota di Puccini il quale, nell’annunciare che anch’egli sta approntando una “Bohème”, rinvia ogni considerazione nel merito al giudizio finale del pubblico.

La gestazione

Il lavoro della collaudata coppia di librettisti Illica-Giacosa incontra mille difficoltà, non tanto per la permalosità dei due quanto per la spigolosità di Puccini, estremamente esigente oltre che titubante. L’inevitabile tensione sortisce addirittura la rinuncia di Giacosa, nel 1893, fortunatamente subito rientrata. A ciò si aggiunga il calo di entusiasmo, da parte del compositore, che nel 1894 abbandona il lavoro per dedicarsi all’opera “La Lupa”, di Verga; dopo pochi mesi, però, ritrova il fascino e l’interesse per la “Bohème”, ritornando dunque sui suoi passi. Superato brillantemente il complesso adattamento dell’opera originaria nella versione musicale, suddivisa in quattro atti, sul finire del 1895 il melodramma vede finalmente la luce.

Trama della Bohème

L’opera racconta di quattro giovani bohémiens, un pittore, un poeta, un filosofo ed un musicista, che vivono insieme in una vecchia soffitta di Parigi, perennemente in arretrato con l’affitto. Una sera che Rodolfo, il poeta, si trova solo in casa, riceve la visita di una vicina, Mimì, che gli chiede aiuto per riaccendere il lume: tra i due si crea subito una profonda, intima intesa che sfocia in un travolgente amore.

Al caffè Momus, intanto – dove si intrattiene il resto del gruppo – Marcello, il pittore, incontra Musetta, sua vecchia fiamma, ed entrambi scoprono che l’antica, reciproca passione non si è mai sopita. Saranno due storie parallele e molto travagliate, fino a giungere entrambe alla separazione. Mimì, malata di tubercolosi, intanto si aggrava.

Qualche tempo dopo Musetta la incontra per le scale: la ragazza è molto debole e sta male. Musetta l’accompagna subito a casa dei quattro giovani e tutti insieme si prodigano per cercare di aiutare l’inferma. Ma Mimì muore, ed il racconto si chiude con la disperazione di Marcello che non ha mai smesso di amarla e che continua ad invocarne il nome fra lacrime e grida di dolore.

L’opera, caratterizzata da repentini passaggi dalla malinconia all’esuberanza, dalla poesia all’amara quotidianità, offre vari momenti di alta drammaticità e bellezza, come nelle arie divenute celebri “Che gelida manina” e “Sì, mi chiamano Mimí”, del primo atto; ma degne di nota sono pure le arie “Quando men vo’,” nel secondo atto, “Donde lieta uscì”, nel terzo, e “O Mimì, tu più non torni”, “Vecchia zimarra”, “Sono andati? Fingevo di dormire”, nel quarto.

La Prima

Superata la divergenza di opinioni fra Puccini, che avrebbe preferito tenere la prima rappresentazione dell’opera al teatro “Costanzi” di Roma o al “San Carlo” di Napoli, e la casa Ricordi che aveva insistito per il teatro “Regio” di Torino, si opta di comune accordo per quest’ultimo. Il 1° febbraio 1896, dunque, va in scena la Prima della “Bohème” di Giacomo Puccini.

Arturo Toscanini
Arturo Toscanini

A dirigere l’opera c’è un altro grande nome del panorama musicale italiano: Arturo Toscanini, promettente ventinovenne anch’egli voluto dalla Ricordi contro il parere – anche in questo caso – di Puccini, che aveva indicato il maestro Leopoldo Mugnone. La serata va avanti senza intoppi e si conclude con un buon successo di pubblico, anche se l’autore deve fare i conti con le stroncature che la critica gli riserva sulla stampa, il giorno seguente.

Critici qualificati, fra cui Carlo Borsezio, parlano di “incidente di percorso” del maestro o di una sua “abdicazione”; di contro Puccini può confortarsi con il parere – alquanto isolato – del noto Carlo Colombiani il quale, invece, intravede nella “Bohème” una significativa crescita artistica del compositore. Col passar del tempo, e con la messa in scena dell’opera in altri prestigiosi teatri italiani, l’iniziale ostilità della critica deve cedere il passo al sempre più convinto entusiasmo del pubblico: dopo Torino, Roma, Napoli e Palermo, la “Bhoème” approda in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Il suo crescente successo la iscriverà come la più nota opera del maestro lucchese e fra i capolavori della lirica italiana.

L’altra “Bohème”

Non sappiamo se avrebbe conosciuto sorte migliore la “Bohème” di Ruggero Leoncavallo, se Puccini non avesse mai composto la sua. Certamente il compositore napoletano non ha avuto fortuna dovendosi confrontare con la genialità del rivale. La sua “Bohème”, tuttavia, andata in scena il 6 maggio 1897 al teatro “La Fenice” di Venezia, riscuote un ottimo successo ottenendo il viatico per continuare, ancora oggi, ad essere rappresentata.

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La “Tosca” di Puccini https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/#comments Tue, 03 Jul 2012 08:15:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2906 Nato a Parigi nel 1831, il giovane insegnante di francese Victorien Sardou si pone in evidenza come apprezzato autore di testi teatrali. La sua copiosa produzione gli conferisce un discreto successo, ma egli è consapevole che si tratta di notorietà effimera che non gli riserverà gloria imperitura nella storia del teatro e, in particolare, della drammaturgia. E così, quando si appresta alla stesura de “La Tosca” – pensata per Sarah Bernhardt – che andrà in scena nel 1887, non immagina che sta invece consegnandosi alla storia non per l’opera teatrale in sé, ma in quanto essa ispirerà il maestro Giacomo Puccini che la convertirà nella celeberrima e omonima opera lirica.

Una scena tratta da "Tosca"
Una scena tratta da “Tosca”, opera lirica in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900.

Tosca incontra Puccini

Il primo incontro fra il musicista lucchese e la rappresentazione teatrale avviene tre anni dopo, nel 1890, in occasione della messa in scena de “La Tosca” a Milano. Puccini viene subito attratto dall’idea di tradurla in melodramma, ma esita nella sua realizzazione per alcuni anni fino a quando torna a rivederla, a Firenze, e questa volta si determina alla realizzazione del progetto caldeggiato, peraltro, anche dal poeta e commediografo Ferdinando Fontana.

Investito il suo editore Ricordi si scopre, però, che l’idea era già venuta al compositore Alberto Franchetti e che il librettista Luigi Illica sta già lavorando alla metrica e, contestualmente, alla riduzione della ponderosa stesura originaria in soli cinque atti. Franchetti, tuttavia, rinuncia al lavoro ben lieto di cederlo all’amico Puccini. Ad Illica viene affiancato Giuseppe Giacosa, che cura i momenti più propriamente melodrammatici dell’opera.

Dopo una intricata serie di disaccordi e scontri fra i vari addetti ai lavori – a cominciare dallo stesso compositore – il cui esito, tra l’altro, è l’ulteriore riduzione del numero degli atti a tre – “Tosca” vede finalmente la luce.

L’opera

L’ambientazione è a Roma, nel giugno dell’Ottocento. La napoleonica Repubblica Romana è appena stata abolita e sono in corso rappresaglie nei confronti degli ex repubblicani. Fra questi Cesare Angelotti, già console della Repubblica che, evaso da Castel Sant’Angelo, trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui incontra il suo amico pittore Mario Cavaradossi che gli assicura aiuto e collaborazione. Il colloquio fra i due è interrotto dal sopraggiungere della cantante Floria Tosca, amante del pittore, che si lascia andare ad una scenata di gelosia perché si accorge che il volto di Maria Maddalena che Mario sta dipingendo è quello della marchesa Attivanti. Dopo essere stata rassicurata dal pittore, Tosca lascia la chiesa e i due amici fuggono via.

Il resto della storia si sviluppa intorno al personaggio del barone Scarpia, capo delle Guardie Pontificie il quale, venuto a conoscenza dell’intesa fra il fuggiasco ed il pittore, ordisce una trappola per conseguire il duplice obiettivo di sedurre Tosca e catturare Angelotti. Fa dunque arrestare Cavaradossi con l’accusa di cospirazione e poi costringe Tosca, con la promessa di un salvacondotto per il suo amato, a promettersi a lui ed a rivelare il nascondiglio di Angelotti.

Tosca cede al ricatto ma, non appena ottenuto il documento, estrae un coltello ed uccide Scarpia. Corre dunque a salvare il suo uomo ma giunge tardi perché, nel frattempo, Mario è stato fucilato. Colta dalla disperazione, Tosca si toglie la vita gettandosi nelle acque del Tevere.

I momenti più intensi del melodramma pucciniano sono probabilmente contenuti nelle arie “Vissi d’arte”, nel II atto, ed “E lucevan le stelle”, nel III. In “Vissi d’arte”, romanza divenuta celebbre, si coglie la poetica disperazione e lo smarrimento di Tosca che, sotto l’atroce ricatto di Scarpia, si scopre incapace di concepire e di comprendere tanta cattiveria e si rivolge a Dio con toni di supplica ma anche di risentimento: “Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva!… Nell’ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?

In “E lucevan le stelle”, romanza ancor più famosa, il pittore Cavaradossi rinchiuso in carcere e consapevole del destino che lo attende di lì a poco, ripercorre con la mente i bei momenti trascorsi con la sua amata in un insieme di nostalgia, passione e scoramento: “… Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d’amore… L’ora è fuggita… E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!… ”.

La prima

Il quadro politico dell’Italia, nei primi del Novecento, è caratterizzato da malcontento e tensioni. Movimenti antiunitari, antimonarchici e anarchici esercitano, ognuno per proprio conto, azioni di disturbo anche attraverso iniziative violente e sanguinarie; a ciò si aggiungano l’ostilità mai sopita del Vaticano che si ostina a non riconoscere il Regno d’Italia, una severa crisi economica e l’isolamento internazionale dell’Italia.

Questo è il clima preoccupante con il quale, nel gennaio 1900, ci si appresta ad accogliere la prima della Tosca di Puccini, e che non mancherà di condizionare l’importante evento. A Roma, la sera del 14 gennaio 1900, infatti, con un Teatro dell’Opera (detto anche Teatro Costanzi) ridondante di pubblico, poco prima dell’apertura del sipario il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone è raggiunto da un funzionario di polizia che lo informa del concreto rischio di un attentato nel corso della serata, cosa già accaduta in altri teatri.

Si paventano iniziative di disturbo da parte dei rivali di Puccini ma, soprattutto, la annunciata presenza in sala della regina Margherita fa temere iniziative terroristiche da parte degli anarchici.

Alla prima saranno inoltre presenti personalità politiche e del mondo culturale di primissimo piano. Con queste premesse e con conseguente pessimo stato d’animo il maestro Mugnone raggiunge dunque il suo posto e la serata ha inizio. Fortunatamente, dopo un iniziale rumoreggiare dei soliti detrattori che determina una breve sospensione dell’esecuzione, la rappresentazione riprende e giunge felicemente a conclusione con un grande successo.

La critica

Tra le opere di Puccini, la “Tosca” rimarrà la più maltrattata nelle recensioni della stampa specializzata. Scriverà Colombani, sul “Corriere della Sera”:

…Con tutta la deferenza pel grande drammaturgo francese, io vorrei affermare che il suo lavoro fu migliorato prima dall’Illica e dal Giacosa, che ne affinarono i principali elementi, poi dal Puccini che con una tavolozza delicata e aristocratica ne nobilitò la rappresentazione. Ma – per quanto abilmente mascherato – il difetto originale del dramma a tinte troppo forti, e povero di ogni elemento psicologico, rimane visibile ostacolo ad una libera estrinsecazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini…”.

Di tenore analogo sono i commenti del “Secolo” e di altri quotidiani, che trovano l’opera musicalmente poco originale e la trama eccessivamente appesantita da torture, assassini e suicidi. Nonostante le perplessità della critica, però, la “Tosca” viene promossa a pieni voti dal pubblico ed inizia a fare il giro del mondo, dall’Europa all’intero continente americano passando per Costantinopoli e Il Cairo, fregiandosi negli anni delle più prestigiose interpreti fino a Maria Callas, nel 1941.

Maria Callas
Maria Callas

“Tosca”, insieme a “Manon Lescaut” (1893), “La Bohème” (1896), “Madama Butterfly” (1904), “Turandot” (1926), costituiscono solo una parte della copiosa produzione pucciniana che fa del maestro lucchese uno dei massimi rappresentanti della nuova scuola operistica italiana e lo iscrive fra più grandi compositori della storia della musica.

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