musica classica Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 04 Oct 2023 09:59:17 +0000 it-IT hourly 1 Gianni Schicchi (opera di Puccini) https://cultura.biografieonline.it/gianni-schicchi-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/gianni-schicchi-puccini/#comments Wed, 23 Sep 2015 14:05:36 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=15139 Gianni Schicchi” è una delle opere più celebri del Maestro italiano Giacomo Puccini. Si tratta di un’opera in un atto, su libretto di Giovacchino Forzano. Essa fa parte del Trittico, nome con cui sono conosciute tre opere in un atto pucciniane: Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, appunto. La prima assoluta di quest’opera ebbe luogo negli Stati Uniti, al Metropolitan Opera House di New York, il giorno 14 dicembre 1918. Il Maestro concertatore e Direttore d’orchestra fu Roberto Moranzoni.

La prolusione che segue (che comprende le genesi dell’opera, un riassunto della trama e l’analisi musicale) è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Gianni Schicchi

La trama vien estrapolata dal 30° canto dell’Inferno, dove Dante e la sua guida, discendono all’ottava bolgia popolata dai falsari di parole, di persone e di monete. Qui vedon “due ombre smorte e nude – che mordendo correvan di quel modo – che  ‘l porco quando dal porcil  si schiude“.

La prima ombra è quella di Mirra, figlia del Re di Cipro, che avendo concepito un’azione incestuosa con il padre, raggiunse il suo scopo fingendosi un’altra.
L’altra ombra “o in sul nodo – del collo l’assannò, – si che’, tirando  – grattar li fece il ventre – al fondo sodo.”  Quell’ombra è quella di Gianni Schicchi:

quel folletto è gianni schicchi
e va’ rabbioso altrui così conciando

Il peccato di Schicchi è quello di aver osato

Per guadagnar la donna della torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma

Il personaggio

Gianni Schicchi fu un personaggio storico che commise realmente il delitto per il quale Dante Alighieri lo collocò nel suo Inferno, immortalandolo. Narra la storia che quando il ricco Buoso Donati morì, il figlio Simone fu assalito dalla paura che il padre avesse lasciato tutto ai frati di Signa, ossia tutti i suoi beni, in espiazione delle cattive azioni compiute in vita – avendo egli disonestamente accumulato grandi ricchezze.  Simone, prima di rendere nota la morte del padre, consultò un certo Gianni Schicchi, un fiorentino vicino alla famiglia Cavalcanti, ghibellina, noto in città come un abile mimo e simulatore.

Lo Schicchi si offrì di impersonare Buoso in punto di morte e di dettare un testamento secondo i desideri di Simone, e per questo ebbe la ricompensa di una bella mula: o
donna della torma“, secondo Dante. Scorrendo un’altra edizione e naturalmente versione, si legge che lo Schicchi facendo testamento avrebbe lasciato “la più bella mula di Toscana“,  e un grosso legato a sé medesimo.

Il Maestro Giacomo Puccini, mise in musica, questa versione, “gli garbò di più“!

Dante illuminò Puccini? O Giovacchino Forzano?… Nel sceglier la burla di Gianni Schicchi vestito con i  panni di Buoso Donati!

Fantasmagorico è l’ultimo atto – unico del trittico – musicato con impari bellezza, sia per lo stile melodico e prevalentemente diatonico che per un alternar di farse melodrammaticamente argute – dalla vis comica, unica ed irripetibile.

Gianni Schicchi

La genesi dell’opera

L’opera in un atto si avvale del libretto di Giovacchino Forzano, che costituisce l’ultima parte del Trittico. Egli ebbe l’importante ruolo di persuadere Puccini, circa la fattibilità di musicare un soggetto dantesco come l’episodio di Gianni Schicchi, personaggio condannato alle fiamme eterne per il peccato di falsa testimonianza.

L’argomento sicuramente non poteva esser migliore, per chiudere come terza opera in quanto ad eleganza e buffoneria coniugata ad intelligenza, brillantezza e ribaltamento di situazioni, degna conclusione di questo polittico Pucciniano, tanto voluto e cercato, tant’è che Puccini scriveva al librettista:

Dopo il Tabarro di tinta nera / sento la voglia di buffeggiare. / Lei non si picchi / se faccio prima – quel Gianni Schicchi“.

L’opera impegnò il Maestro dal luglio del 1917 all’aprile del 1918, ma durante tale periodo la sua incessante creatività e la voglia di terminare, lo portò a chiudere la stesura della “SUA SUOR ANGELICA” (vedere il carteggio Puccini–Forzano).

Per la sua “Angelica” si avvalse dei consigli di sua sorella Badessa Agostiniana, per capire  la vita ed il mondo claustrale, mentre per i canti e le musiche sacre, ricorse al suo buon amico Don Pietro Panichelli, che già in Tosca ed in altre produzioni aveva dato la disponibilità.

Fu rappresenta al Metropolitan Opera House di New York, il 14 dicembre 1918, senza la presenza del Maestro, e fu proprio la chiusura  con il Gianni Schicchi a riscuotere il maggiore successo, persino indispettendo lo stesso Puccini  che, invece, riteneva Il Tabarro un lavoro innovativo e  Suor Angelica un’opera di grande profondità introspettiva.

Nel gennaio del 1919 precisamente il giorno 11, il Trittico ebbe la sua prima italiana, al Teatro Costanzi di Roma, sotto la direzione del Maestro Gino Marinuzzi. La denominazione de: “Il Trittico“, è dovuta al pittore Marotti, amico personale  di Giacomo Puccini, che fu di completo gradimento del musicista.

Voglio ricordare che proprio in occasione delle rappresentazioni del Trittico, i rapporti del compositore con Arturo Toscanini divennero assai aspri, al punto che Puccini espressamente interdisse la direzione delle tre opere al celebre direttore, assumendo un atteggiamento molto personale, di cui non cito in questa mia prolusione.

Giacomo Puccini
Foto di Giacomo Puccini

Giacomo Puccini ebbe un rapporto di amore/odio con Gianni Schicchi; fin troppo evidente che egli preferisse gli argomenti drammatici e tragici, per altro meglio collocati nella temperie decadentista, ma si evince dalla sua voglia di vivere e di far allegria che il compositore amasse gli episodi burleschi, come diversivi, ed anche all’interno di grandi vicende.

Non a caso il musicista insiste perché nella stesura finale, il grottesco prevalga sul buffo e non si preoccupa, anzi sottolinea, taluni aspetti macabri, primo fra tutti l’incombente presenza del cadavere in scena. Anche i risvolti morali sembrano avere conquistato l’attenzione di Puccini: l’avidità di Buoso e la cruenza della pena del taglio della mano, da comminare ai falsari.

Il libretto è insolitamente meticoloso nell’informarci circa l’età e i rapporti di parentela dei personaggi, in particolare della famiglia Donati; guelfa, non pochi in relazione alla breve durata della composizione; il motivo è la volontà di rendere chiaro l’asse ereditario, essendo il testamento di Buoso l’elemento centrale della vicenda e l’oggetto dell’inganno di Gianni Schicchi.

I toscanismi abbondano come i riferimenti storici, architettonici e paesaggistici. Esplicitamente, Puccini aveva dichiarato di voler realizzare un’opera  brillante che superasse Die Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa) di Richard Strauss; in Gianni Schicchi, così come nell’opera straussianna, i personaggi sono numerosi e variegati sotto il profilo vocale; tuttavia lo sviluppo è centrato sul protagonista del titolo (baritono), su Lauretta, figlia dei questi (soprano) su Rinuccio Donati (tenore) figlio di Buoso e futuro genero di Schicchi.

La struttura musicale è didascalica e solo apparentemente semplice; il breve preludio presenta i due temi contrapposti: quello del lutto e quello della meschinità, variato da quello della burla.

I momenti più truffaldini sono sottolineati da un’orchestrazione che privilegia le ance, il solo episodio sentimentale – spiegato – l’aria di Lauretta, per il resto attinge, viceversa al repertorio coloristico più tardo-romantico.

Un terzo elemento tematico è quello dell’inganno e viene  proposto da Rinuccio nell’atto spesso di prospettare ai parenti l’intervento di Schicchi.

Notevole anche l’affinità che Puccini sottolinea tematicamente, tra Legge e Medicina, riservando materiale molto simile ai due rappresentanti delle discipline, il notaio Ser Amantio da Nicolai e il medico Maestro Spinelloccio,  entrambi beffati dallo Schicchi.

Trama in breve

Firenze 1299: Buoso Donati  è appena spirato e attorno al letto di morte i suoi parenti sono assorti in preghiera.

Corrono voci che  Buoso abbia destinato in beneficenza i suoi beni ai frati di Signa, viene letto il testamento e, quel  che sembravan sospetti, vengono confermati con grande disappunto dei parenti.

Rinuccio è il figlio di Buoso ed è  fidanzato di Lauretta, figlia di Gianni Schicchi; conoscendo l’astuzia del futuro suocero, suggerisce ai propri parenti di ricorrere a questi per escogitare qualche stratagemma: “Avete torto! – È fine … astuto…“.

Zita, soprannominata “La Vecchia” , alla vista di Schicchi, lo rimprovera per le modeste origini, e questi, offeso, se ne sarebbe andato, se non fosse per le tenere suppliche di Lauretta:  “O mio babbino caro“. (Romanza)

Gianni ha in mente un piano: contraffacendo la voce di Buoso, con cui risponde al dottor Spinelloccio, avvalorando la tesi che l’uomo è ancora in vita.

Viene  convocato d’urgenza il notaio: “Si corre dal notaio” (Romanza) e  Schicchi si dispone nel letto di morte di Buoso, dettando il nuovo testamento, e, truffaldinamente, destina a sé  la casa di Firenze, la più bella mula di Toscana, ed i mulini.

Naturalmente i parenti di Donati non possono protestare senza svelare la truffa : “Addio, Firenze, addio, cielo divino“. (Romanza)

Alla fine della commedia vengon tutti scacciati dalla casa che ormai Gianni assume come propria, mentre i due giovani fidanzati amoreggiano felici intonando la romanza : “Lauretta mia, staremo sempre qui“; il protagonista, rivolgendosi al  pubblico, invoca l’attenuante di avere agito nell’interesse dei due giovani e del loro amore.

Analisi musicale

Stilisticamente Gianni Schicchi, impressiona in quanto dà la prova delle capacità del Maestro, ad adattare il suo stile temprato in opere tragiche, seppure di un romanticismo esasperato, al più puro spirito della commedia.

Difficile pensare ad altro compositore capace di esprimere il suo sentirsi “zinghero”, e commediante, in un lavoro così toscano e specifico come il Gianni Schicchi.

La sua musica sbalordisce in quanto il Puccini sa creare per ciascuna sua opera un climax, ed una personalità coniugata all’abilità, che appartiene solo lui.

Osserviamo il prevalere dei tempi  rapidi nella musica e dei ritmi netti ed incisivi per lo più in 2/4 e 4/4, escluso la colorita partecipazione dei due giovani, gli altri son tutti temi e motivi che mostrano concisione e contorni esatti. Lo stile melodico e prevalentemente diatonico, contrassegnato da intervalli ampi e da frasi vocali che iniziano in levare.

Ricordiamoci che l’opera inizia in si bemolle e finisce in sol bemolle maggiore. Il maggiore è onnipresente nella tonalità con i bemolli. Il maestro si volge al minore per sottolineare l’ipocrisia nel lamento dei parenti di Buoso, o per far capire la loro disapprovazione per l’inganno subito da Gianni Schicchi.

Analizzando la partitura notiamo che gli strumenti dominanti sono “i legni “; gli archi vengono usati per dare espressività al canto dei due innamorati, usati sempre nelle opere Pucciniane quale tocco leggero e trasparente, in questo caso assumono aspetto settecentesco. Nelle scene d’insieme i robusti massicci “tutti”, si odono deliziosi passaggi di musica da camera di stile comico.

Come sempre nelle opere del Maestro, l’organico orchestrale è completo: legni a tre, con ottavino, corno inglese e clarinetto basso, 2 fagotti, quattro corni, tre trombe, quattro tromboni, arpa, celesta, una campana a morto, timpani e parecchi strumenti a percussione usati per gli effetti grotteschi.

Lo Schicchi ha due arie : tutt’e due estremamente caratteristiche, forse non son proprio eccezionali dal punto di vista melodico, ma garbate ed  intriganti.  Nella prima sottolineamo le arie del “corriamo dal Notaro“, illustrando gli aspetti della natura dello Schicchi, notiamo l’estrema volubilità ed energia nell’allegro iniziale in re maggiore, abilmente Puccini manipola i temi del notaro e dell’avvertimento,  e notiamo il suo macabro umorismo nel successivo in do minore con quegli accordi che sfilano come automi ricordano la canzone “della Frugola nel Tabarro” ed ha anche, una sostanziale somiglianza con il monologo di “Michele“, entrambe  hanno la quadratura di una danza e si basano su di un’idea di carattere processionale in do minore, entrambe nel momento top, la voce si eleva improvvisamente in una quinta, dal do al sol, con dissonanze un po’ aspre.

Sarebbe logico chiedersi il perché della somiglianza di linguaggi che possiamo notare anche in Otello e Falstaff, sembrerebbe che i due massimi esponente del melodramma cercassero di parodiare la loro tragicità per ritrarre un personaggio comico.

Mentre nella seconda aria dello Schicchi, egli ricorda ai parenti di Buoso, la tremenda pena per i falsificatori di testamenti; aria di una vis comica unica e colma di ironia, lo Schicchi intona:    Addio Firenze, addio cielo divino
Io ti saluto con questo moncherino
Io vo’ randagio come un Ghibellino

melodia con un lacrimoso addio alla città amata, e, minacciosamente ricordando a tutti, l’immaginario moncherino.

Questo tema non è propriamente Pucciniano, è parzialmente modale ed emana un profumo di canzone popolare toscana. Comicità unica e sfrenata, la troviamo nella scena successiva, quando Schicchi detta il testamento al Notaro tra il cantato ed il mezzo parlato, tenendo in scacco i parenti impazienti di sentire pronunciare il loro nome, per sapere di cosa potranno disporre dopo la dettatura.

La bravura del baritono sta proprio nella capacità di cantare in falsetto e quasi senza fiato, richiesta anche in altre scene, interpretare Schicchi significa possedere un rapido intuito  di caratterizzazione vocale; per non parlare poi, di una indispensabile agilità istrionica.

Voglio anche ricordare l’uso del Leitmotiv, che il Maestro considerò tema adatto anche alla dolce Lauretta, perché nella scena successiva all’arrivo della fanciulla col  padre, l’orchestra lo riprende in una combinazione contrappuntistica, con il tema di Schicchi, fornendo il materiale per la famosa aria: “O mio babbino caro“, musica deliziosa in un fluente ritmo di “siciliana in 6/8“, che nella sua semplicità armonica non abbandona il la bemolle.

Voglio anche notare l’uso felice nella scena della dettatura del testamento, dove il borbottio fitto e meccanico vien accompagnato dal preambolo latino in contrappunto a quattro parti. Nulla di meglio di questo procedimento scolastico avrebbe potuto evocare il tipo del leguleio erudito.

Non fa quindi  meraviglia, questo mio ricercar lo SCHICCHI ghibellin-randagio, dagl’INFERI sin A FLORENTIA, per poter descriver colui che, ancora oggi, incarna l’ultimo supremo esempio, dell’umorismo operistico italiano.

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Madama Butterfly (Puccini): analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/analisi-madama-butterfly-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/analisi-madama-butterfly-puccini/#comments Mon, 25 May 2015 10:05:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14373 Madama Butterfly è una delle più celebri opere del compositore italiano Giacomo Puccini. Quella che segue è un’analisi musicale, redatta per noi dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste. Questo che state leggendo è il seguito di un precedente articolo, in cui è possibile leggere la storia e la trama dell’opera Madama Butterfly; nello stesso articolo è presente l’elenco dei personaggi.

Madama Butterfly - opera di Puccini

Analisi musicale dei tre atti di Madama Butterfly

Nel primo atto Puccini compie il suo massimo sforzo di ricostruzione pittorica ambientale, specialmente quando l’orchestra, in cui predominano i procedimenti, i ritmi, i temi e le scale orientali, procede alla coloratissima presentazione del parentado di Butterfly; mentre, com’è naturale, Pinkerton e Sharpless cantano secondo i tradizionali moduli Pucciniani.

Nel secondo e terzo atto si fa meno invadente l’ambientazione orientaleggiante, cui era dedicata tanta parte del primo: è come se Cio-cio-san, in una «casa americana», come ella dice, faccia sempre più spesso ricorso a invenzioni melodiche d’impronta occidentale, mentre la scrittura orchestrale e il gusto timbrico rimangono costantemente improntati a una ricercatezza estrema, a una sagacia di dosaggi, a una sensibilità per il particolare che molto debbono alla cultura musicale francese, (Debussy, ma anche Ravel).

La costruzione a tasselli, a brevi episodi, propria della prima parte dell’opera cede a più larghe campiture, a “quadri drammatici”, incentrati su situazioni emotive di ampio respiro, che inducono Puccini a strutturare l’atto secondo moduli, se vogliamo, più tradizionali.

Pensiamo alla celebrazione della speranza nell’aria “Un bel dì vedremo“, allo scontro tra realtà e illusione nel duetto Butterfly-Sharpless, all’affetto materno e all’ipotesi del suicidio raffigurati nella tragica sarabanda di: “Che tua madre“, come anche alla disposizione d’animo, fiduciosa e disperata della protagonista: “espressa dal coro a bocca chiusa”.

Notevole anche l’ampia pagina sinfonica, la più ambiziosa di tutta l’opera, che apre il terzo atto, in cui Puccini dà fondo a tutte le sue risorse di sapiente orchestratore, nonché di abile “costruttore a frammenti”. L’attesa di Cio-cio-san è descritta dall’orchestra attraverso un sagace impiego dei cosiddetti “ritorni logici“, dei temi degli atti precedenti, quasi un incomposto e intenso riaffiorare alla memoria e alla coscienza della donna di tutto un mondo di affetti, di momenti perduti, di sogni.

Analisi musicale generale

Nel suo insieme, il linguaggio musicale di Madama Butterfly non si allontana in modo clamoroso da quello di Bohème e Tosca: l’elemento di distinzione tra questa opera e le precedenti non è infatti da cercarsi nel melodismo puro e semplice, ma anzitutto nel cosiddetto “aggiornamento” armonico, che investe la scrittura orchestrale, (solo in parte anche la condotta vocale), facendo tesoro delle esperienze dei musicisti francesi.

Tuttavia il tessuto sinfonico Pucciniano, investito da una rigogliosa inventiva melodica, rivela l’autore italiano e si distacca nettamente dalla frantumazione cellulare di quello debussiano. E se non inedita era l’acclimatazione esotica, con l’uso di scale pentatoniche, esatonali, incomplete, ritmi di danza caratteristici, timbri strumentali, “locali”, assolutamente nuovo è il modo con cui Puccini si pone di fronte all’elemento ambiente, diverso il ruolo che assegna allo “sfondo”, in questa rinnovata drammaturgia.

Con Butterfly, il Maestro sente per la prima volta la necessità di una documentazione larga e minuziosa, e se inventa ex novo alcuni temi orientaleggianti, si cura che posseggano il particolare colorito di quelli originali, sì da costituire, musicalmente, un autentico polo d’attrazione – rispetto alle invenzioni melodiche “‘occidentali”.

Inoltre la quantità degli episodi, lo spazio concesso a questo tipo di pittura ambientale è enorme, specialmente nella versione primitiva: i dettagli di scena assumono un valore: “in sé”, sostituiscono l’azione, che, difatti, ristagna per lasciar posto a queste diffuse pennellate che sanciscono l’importanza dell’elemento decorativo, addirittura al di sopra della patetica vicenda umana.

Il ritmo di Butterfly , fin dal primo atto, è la lentezza quasi esasperante, con cui ogni momento della giornata, ogni pensiero, ogni turbamento, è dilatato come attraverso una lente d’ingrandimento, diventando un evento di straordinario rilievo e importanza, come le cose, le piccole cose che accompagnano la quotidiana vicenda della donna: una cintura, un piccolo fermaglio, un ventaglio, la lama con cui il padre si è suicidato, l’obi che vestì da sposa.

Madama Butterfly - una scena
Madama Butterfly – una scena

Questo tipo di frammentazione analitica dei vari momenti della storia, va di pari passo a una sorta di diffusione capillare della presenza di Butterfly in tutta l’opera, anche quando materialmente ella non compare. Essa è l’unico centro d’interesse, il costante riferimento per tutti gli altri personaggi, che vivono solo in funzione di lei.

Già il primitivo secondo atto si presentava come un lungo monologo interiore della protagonista femminile; le presenze del console e di Yamadori, gli interventi di Suzuki sono da leggersi come espedienti pratici, in omaggio a naturalistiche convenzioni teatrali: in effetti, Puccini, ce li fa sentire niente più che come fantasmi della memoria di Butterfly, che si presentano a lei provocandone moti e passioni, ma non posseggono una loro autonomia, né una spiccata caratterizzazione musicale; essi sono pervasi dallo stesso slancio, dalla stessa tenerezza di Butterfly (il buon console come l’antipatico Pinkerton, Yamadori come Kate: «Sotto il gran ponte del cielo/ non c’è donna di voi più felice»), cantano con gli accenti con cui ella li ricorda, li contempla, li trasfigura nella sua tenera mente che si rifiuta alla realtà.

Per questo ho ritenuto giusto definire quest’opera come uno stupendo “monodramma”, in cui la musica non si cura di altri personaggi, di un loro coerente svolgimento e verità psicologica, ma solo della storia interiore dell’unica protagonista; un monodramma in cui i parametri del teatro naturalista, adottati dal libretto, vengono fatti saltare attraverso il linguaggio musicale.

Giacomo Puccini
Giacomo Puccini

Assistendo a “Madama Butterfly” di Puccini, siamo di fronte a un dramma eminentemente psicologico, anzi psicoanalitico: fu questo davvero che sconvolse i frequentatori dei teatri d’opera del primo Novecento. E ancor più che le precedenti opere pucciniane, Butterfly era l’apoteosi del mito femminile, così cara a tutta la cultura di fine Ottocento, realizzata con i moderni metodi dell’analisi.

Strano che questa storia freudiana fosse a scriverla un italiano e non un musicista di estrazione mitteleuropea, come ad esempio Richard Strauss; ma i tempi per creare un teatro che non fosse di emblemi, ma di uomini e donne palpitanti, “veri”, non erano ancora pronti. Allora nella soddisfatta Germania di Guglielmo II, la borghesia si recava all’opera con l’idea di trovare raffigurato un mondo platonico, iperumano a cui astrattamente tendere.

Allora i musicisti cercavano la via dell’identificazione fra storie rappresentate e pubblico presente in sala; ma Puccini si spingeva con questa opera “subdolamente antica” ancora più in là: egli indicava i modi attraverso cui sarebbe giunto, assai più tardi, a comprendere il suo estraniamento dalla realtà.

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Madama Butterfly https://cultura.biografieonline.it/madama-butterfly/ https://cultura.biografieonline.it/madama-butterfly/#comments Mon, 25 May 2015 09:33:19 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14366 Nel libretto e nello spartito l’opera Madama Butterfly è definita “tragedia giapponese“. Composta dal grande Giacomo Puccini, è dedicata alla regina d’Italia Elena di Montenegro. Il libretto fu scritto da Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Madama Butterfly è un’opera in tre atti (in origine furono due). La prima rappresentazione andò in scena la prima volta al Teatro alla Scala di Milano, il 17 febbraio 1904.

Madama Butterfly
Madama Butterfly

L’opera è ispirata al dramma “Madame Butterfly” del drammaturgo statunitense David Belasco.

Il riassunto della trama e l’analizi musicale che seguono sono state redatte dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

I personaggi dell’opera

  • Madama Butterfly [Cio-cio-san] (Soprano);
  • Suzuki, servente di Cio-cio-san (Mezzosoprano);
  • Kate Pinkerton (Mezzosoprano);
  • F.B. Pinkerton, tenente della marina degli Stati Uniti (Tenore);
  • Sharpless, console degli Stati Uniti a Nagasaki (Baritono);
  • Goro, nakodo (Tenore);
  • Il principe Yamadori (Tenore);
  • Lo zio bonzo (Basso);
  • Yakusidé (Baritono);
  • Il commissario imperiale (Basso);
  • L’ufficiale del registro (Basso);
  • La madre di Cio-cio-san (Mezzosoprano);
  • La zia (Soprano);
  • La cugina (Soprano);
  • Dolore (bambino, mimo);
  • Parenti, amici e amiche di Cio-cio-san, servi
Madama Butterfly - La locandina originale
Madama Butterfly – La locandina originale Ricordi

La genesi di Madama Butterfly, di Puccini

Uscito dal trionfale successo di Tosca (Roma 1900), Puccini aveva preso in considerazione numerosi progetti, avanzati per lo più da quell’autentica miniera di idee e di stimoli che fu Luigi Illica: da Tartarino di Tarascona a Notre Dame de Paris, da Memorie di una casa di morti all’ Adolphe di Benjamin Constant.

Tuttavia niente riuscì a cancellare l’impressione suscitata da Madame Butterfly vista dal musicista a teatro a Londra, anche se aveva capito ben poco del testo, recitato in inglese.

Nel 1898 John Luther Long aveva pubblicato un racconto omonimo, poi ridotto ad atto unico da David Belasco, uno dei più abili uomini di teatro americani, a cui Puccini ricorrerà anche per La fanciulla del West, subito dopo aver scritto Butterfly.

La lacrimevole storia della giapponesina sedotta, abbandonata e suicida era una vicenda umana che gli consentiva di esplicare tutta la sua capacità di commuovere, di esercitare quel “ricatto dei sentimenti” al quale le platee di tutto il mondo, allora come oggi, difficilmente riescono a sottrarsi.

La scelta del soggetto cadeva dunque su un’opera che aveva superato il fuoco del palcoscenico e che possedeva già una teatralità esplicita, di cui la musica sarebbe stata un ulteriore potenziamento. Certamente dovette molto stimolare la fantasia musicale di Giacomo Puccini l’ambientazione esotica, quell’estremo Oriente che, allo scadere del secolo XIX, aveva sostituito – nella “moda” letteraria e teatrale – le turcherie in voga nel Settecento e in età rossiniana.

Giappone: incanto e curiosità

Il Giappone si stava affacciando sulla ribalta politica internazionale, e la guerra russo-giapponese del 1905 sancirà questa volontà di emergere del paese orientale; le suppellettili, i paraventi laccati, i delicati acquerelli, alcuni vocaboli (ikebana, harakiri, kimono, obi) cominciavano a entrare nelle case della borghesia europea e a suggestionare i pittori dell’Art Nouveau e della Sezession viennese.

Madama Butterfly - nozze - matrimonio
Madama Butterfly: il momento delle nozze

Gli scrittori avevano tratto sottili suggestioni da questa terra incantata e misteriosa, delicata e terribile; ed è d’obbligo citare il romanzo Madame Chrysanthème di Pierre Loti, che fornì numerosi elementi a tutto il primo atto di Madama Butterfly, principalmente alla scena di nozze della quale non v’è traccia né nel racconto di Long né nell’adattamento teatrale.

C’erano stati, ancora nel dominio del teatro leggero, Arthur Sullivan che nel 1885 aveva musicato The Mikado e Sidney Jones con The Geisha (1896); ma su Giacomo Puccini maggiore suggestione esercitò l’Iris di Mascagni, anch’essa di ambiente giapponese, accolta con favore nel 1898.

La cornice orientale, dunque, affascinò intensamente il compositore, tanto che volle documentarsi ampiamente sulle musiche, sugli strumenti giapponesi, giungendo addirittura a citare più di una decina di temi autentici nella nuova partitura; Mascagni, invece, si era limitato a pochi spunti e aveva lavorato tutto d’invenzione.

Per la recitazione, Puccini seguì i consigli di una specie di Sarah Bernhardt nipponica, la celebre Sada Jacco; per le usanze e il décor ricorse alle indicazioni della moglie dell’ambasciatore giapponese. Una volontà di documentazione puntigliosa, di un «naturalismo disarmante», che stupisce e quasi indispone, solo al pensiero, che negli anni in cui l’opera Madama Butterfly vedeva la luce, la grande stagione naturalistica si stava consumando: nella letteratura, nel teatro, nella musica.

La composizione e le varie modifiche dell’opera

Iniziata nel 1901, la composizione procedette con numerose interruzioni; l’orchestrazione venne avviata nel novembre 1902 e portata a termine nel settembre dell’anno seguente, e soltanto nel dicembre del 1903 l’opera poté dirsi completata in ogni sua parte.

La sera del 17 febbraio 1904, nonostante l’attesa e la grande fiducia dei suoi artefici, la Butterfly cadde clamorosamente alla Scala di Milano. Il fiasco indusse autore ed editore a ritirare lo spartito e a sottoporre l’opera ad un’accurata revisione che, attraverso l’eliminazione di alcuni dettagli e l’opportuna modifica di scene e situazioni, la rese più agile e proporzionata.

Appena tre mesi dopo, il 28 maggio, Madama Butterfly venne accoltanella nuova veste con entusiasmo al teatro Grande di Brescia. Tale versione tuttavia non è quella che si ascolta oggi sulle scene, poiché Puccini, nella sua connaturata incontentabilità, ritornò ancora sullo spartito, tanto che si conoscono addirittura quattro differenti edizioni a stampa.

Ci furono alleggerimenti: la soppressione di parte delle battute “colonialiste” di Pinkerton, che ironizza sulle abitudini giapponesi; minor rilievo per la figura dello zio ubriacone Yakusidé, che si avventa sul buffet preparato per le nozze; altri piccoli tagli nel primo atto. Più vistoso lo smembramento del lunghissimo secondo atto (soluzione proposta già da tempo dallo stesso Giacosa), mentre il nuovo terzo atto veniva arricchito dalla “romanza” per il tenore “Addio, fiorito asil” e presentava varie modifiche nella scena fra il console, Butterfly e Kate.

Inoltre venne modificata la melodia d’entrata di Butterfly (che ritorna nel duetto d’amore), vennero eseguiti tagli all’aria del secondo atto “Che tua madre” e aggiustamenti alla frase di Butterfly “O a me, sceso dal trono“, nel suo canto finale “Tu, tu, piccolo Iddio“.

Nella versione definitiva del 1906 Madama Butterlfy si stabiliva nel repertorio, diventando in breve volgere di anni una delle partiture più rappresentate di tutta la storia dell’opera, anche se riserve continuano a essere avanzate dagli studiosi, non esclusi i pucciniani più convinti, come Claudio Casini, che insiste sul «manierismo» di Butterfly , o Leonardo Pinzauti, che riprende la formula dell’opera «peso piuma» (come la definì il vecchio Ricordi) negandole la qualifica di capolavoro: «un lavoro discontinuo, tenuto insieme soprattutto da un consumatissimo mestiere».

Indubbiamente Madama Butterfly , con la sua vicenda sentimentale, con i suoi personaggi esemplati sul reale, poteva apparire forse un prodotto fuori stagione, diagnosi avanzata da Claudio Sartori per giustificare il fiasco della “prima”. Tuttavia la strepitosa rivincita che l’opera ottenne nella rappresentazione a Brescia significò che, pur con un apparente “vecchio gioco”, l’autore aveva fatto centro ancora una volta.

Riassunto e trama

Atto primo

A Nagasaki, in epoca presente.

In una casa in collina il tenente della marina americana, Pinkerton, attende il corteo nuziale della sua sposa, la geisha Cio-cio-san. Durante l’attesa, Goro, sensale di matrimoni, gli mostra la casa, magnificandone gli accessori, poi gli presenta i servitori e Suzuki, cameriera di Cio-cio-san.

Giunge il console americano Sharpless (duetto “Ah!… quei ciottoli m’hanno sfiaccato!“); Pinkerton gli rivela la sua morale libertina e cinica (“Dovunque al mondo lo Yankee vagabondo“) e infine non tralascia di descrivere i pregi della futura consorte (“Amore o grillo“), dichiarando di volerla sposare secondo la legge giapponese, con il diritto di ripudiarla anche dopo un mese.

Intanto la giovane donna, ignara e innamorata, esprime la sua gioia alle amiche (voce di Butterfly: “Spira sul mar“) e, appena entrata in scena, presenta i parenti al futuro marito. Terminata la cerimonia nuziale, irrompe lo zio bonzo, maledicendo la nipote per aver rinnegato la religione degli avi (aria di Butterfly: “Ieri son salita tutta sola in secreto alla Missione“); Pinkerton lo scaccia e rimane finalmente solo con Butterfly (duetto “Viene la sera… Bimba dagli occhi pieni di malia“).

Atto secondo

In una stanza della casa Butterfly discorre con Suzuki: Pinkerton è partito, promettendo di tornare in primavera, ma da tre anni non dà notizie di sé. Nonostante i dubbi dell’ancella, Butterfly, forte di un amore ardente e tenace, è convinta di non essere stata abbandonata dal proprio marito e fiduciosa l’attende (“Un bel dì vedremo“).

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Sharpless giunge con Goro, con lo scopo di leggerle la lettera in cui si annuncia l’arrivo del tenente e il suo nuovo matrimonio con un’americana (duetto “Chiedo scusa…“), ma dopo inutili tentativi non osa riferire tale messaggio.

Intanto Goro propone a Butterfly nuovi facoltosi pretendenti, dal momento che, per la legge giapponese, la donna abbandonata è considerata di nuovo libera, ma perfino il nobile e ricco Yamadori viene respinto: ella dichiara ostinatamente di ritenersi sempre maritata.

Quando Sharpless tenta di prepararla alla notizia dell’abbandono, Butterfly gli mostra il figlio di cui Pinkerton ignora l’esistenza (“Che tua madre“). Intanto al porto sta approdando una nave americana, ed è proprio quella di Pinkerton; Butterfly la identifica col cannocchiale e, commossa, corre felice sul terrazzo seguita dalla sua ancella (“Scuoti quella fronda di ciliegio“), adorna la casa di fiori (valzer dei fiori: “Gettiamo a mani piene“), indossa per la particolare occasione le vesti nuziali e veglia tutta la notte in attesa dell’amato (coro a bocca chiusa).

Atto terzo

È l’alba (preludio orchestrale, coro di marinai). Butterfly, dopo aver aspettato inutilmente, si allontana dalla stanza col bimbo addormentato e sale a riposare. Poco dopo Pinkerton, accompagnato da una giovane donna, Kate, da lui sposata negli Stati Uniti, giunge con l’intento di prendersi il bambino – della cui esistenza è stato messo al corrente dal console Sharpless -, portarlo in patria ed educarlo secondo gli usi occidentali.

Egli contempla la casa con grande rimpianto (“Addio, fiorito asil“) e preso dal rimorso si allontana, proprio nel momento in cui Cio-cio-san fa il suo ingresso con il figlio.

Sharpless le consiglia di affidare il bambino ai Pinkerton (“Io so che alle sue pene“) ed ella a malincuore acconsente; tuttavia, ormai privata di tutti gli affetti più cari, decide di togliersi la vita. In silenzio, senza clamori, dopo aver abbracciato disperatamente il figlio (“Tu, tu, piccolo Iddio“), si uccide con un pugnale; quando Pinkerton entrerà nella casa di Butterfly per chiedere il suo perdono, sarà ormai troppo tardi.

Puoi continuare a leggere la bella analisi musicale sia tre atti, sia quella generale dell’opera, nell’articolo successivo, redatto dal Maestro Pietro Busolini: Madama Butterfly (Puccini): analisi musicale.

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Così fan tutte. Storia e trama dell’opera di Mozart https://cultura.biografieonline.it/cosi-fan-tutte-mozart/ https://cultura.biografieonline.it/cosi-fan-tutte-mozart/#comments Wed, 23 Jan 2013 00:36:18 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6068 Così fan tutte è un’opera lirica in due atti, senza ombra di dubbio tra le più amate e celebrate del celebre compositore Wolfgang Amadeus Mozart. Cronologicamente, si colloca tra le cosiddette opere italiane, la terza scritta dall’artista di Salisburgo, su libretto di Lorenzo da Ponte. Al Burgtheater di Vienna, il 26 gennaio 1790, viene per la prima volta rappresentata l’opera, quasi al termine di quello che verrà poi definito come il noto decennio d’oro del grande compositore austriaco, poco prima della sua dipartita.

cosi fan tutte mozart
Così fan tutte è un’opera celebre di Mozart

Al centro della vicenda, domina il tema amoroso, naturalmente. Da una parte v’è la caducità e la superficialità dell’amore femminile, messo alla prova da un classico scambio delle parti, tale da evidenziare quanto si dice in uno dei versi dell’opera, tra i più noti: “È la fede delle femmine come l’Araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa!”. Dall’altra parte invece, c’è l’amore visto al maschile, più maturo secondo l’autore, in grado di esibire il perdono, ma appunto come mera esibizione, nel rispetto e in ossequio – quando non obbligo – di quelle convenzioni sociali ancora piuttosto tetre e inalterabili, sempre secondo l’idea del compositore.

Il contesto storico-artistico

L’opera arriva proprio sul finire di quel decennio considerato magico per Mozart, nel quale vedono la luce alcuni dei migliori lavori dell’intera storia della musica lirica. Il compositore ha perso per sempre Aloysia, la sua amata, e ha ripiegato sulla sorella, Costanza. L’esito di questo momento, è tratteggiato nell’opera “Il ratto del serraglio”, sorta di tentativo liminare di dare vita ad un vero e proprio dramma lirico tedesco. Molto deve, in questo periodo, all’italiano Lorenzo da Ponte, poeta ufficiale del Teatro di Vienna, librettista importante, il quale lo incoraggia ad aprirsi sempre di più al teatro, dopo i ripiegamenti nei quartetti dei primi anni ’80. Risultato di questo binomio lavorativo è la rappresentazione delle “Nozze di Figaro”, andata in scena prima a Vienna e poi a Praga, la quale costituì un vero trionfo per Mozart. Nonostante i tentavi dei suoi vari detrattori e rivali, tra i quali il noto Salieri, il direttore del teatro di Praga, Bondini, gli affida l’incarico di scrivere un’opera per la stagione seguente: il “Don Giovanni”. È, ancora una volta, un “Don Giovanni italiano”, marcato dalla mano del Da Ponte, il quale anima l’opera d’un senso autobiografico: ne viene fuori una vera e propria commedia, varia e guizzante, che Mozart rende equilibrata ed esalta all’ennesima potenza, evidenziando la vivacità dei personaggi e delle situazioni.

Amadeus Mozart
Mozart

È una commedia, come detto, stando almeno al registro e ai temi, ma sembra anche l’annuncio ufficiale del mondo romantico che sta arrivando. Ed è anche e soprattutto un’opera lunga, nel suo lavorio, che Mozart comincia ufficialmente nel 1787, per terminare praticamente soltanto alla vigilia della prova generale, il 28 ottobre: fu un successo straordinario. Il compositore perde suo padre, ma a Vienna gli viene tributato il dovuto con la nomina a “Kammermusikus dell’imperatore” e la rappresentazione del Don Giovanni nella capitale austriaca, il 7 maggio del 1788. Il pubblico di casa però, come spesso accade, è tiepido, e Wolfgang riparte per la Germania, al seguito del principe Lichnowsky. Passano un paio d’anni e, senza cedere alle lusinghe del re Federico Guglielmo II, Mozart torna in patria e accetta, da Giuseppe II, di scrivere la sua nuova opera, dal titolo “Così fan tutte, ossia La Scuola degli amanti”, anch’essa su libretto del Da Ponte. Ma come accade a molti geni, il pubblico e le contingenze si rivelano ostili e anche questa rappresentazione, la prima andata in scena, come suddetto, nel gennaio del 1790, non viene accolta nel migliore dei modi. Inoltre, nel medesimo periodo, arriva anche la morte di Giuseppe II, che di certo non è di buon auspicio per la carriera dell’artista viennese. Ci vorrà Leopoldo II e, soprattutto, l’opera “Il flauto magico”, successivamente, a restituire la giusta notorietà a Mozart, riportandolo ai suoi successi e dando modo e tempo a pubblico e critica austriaca di ricredersi, e tanto, anche sui suoi vecchi lavori, su tutti la stessa opera “Così fan tutte”.

L’intreccio e i personaggi

Semplice e geometrica, la vicenda. Il gioco d’amore si basa su una girandola a quattro, la quale comprende e disattende gli ardori di due coppie di fidanzati. Fulcro dell’intreccio poi, è un filosofo, di natura cinica e calcolatrice, per quanto libera da condizionamenti legati alle convenzioni sociali. Questi ottiene che le due ragazze protagoniste, che sono anche sorelle, si innamorino ciascuna del fidanzato dell’altra. Ma alla base, come nella più classica delle commedie plautine o terenziane, c’è il travestimento: i due fidanzati vengono a conoscenza degli intenti del filosofo e accettano la sua sfida. Così facendo, si cangiano d’aspetto, travestendosi appunto e impersonando la parte di due ufficiali stranieri. Il gioco è facile, a quel punto: le loro rispettive donne credono d’amare l’altro e dimenticano subito i loro rispettivi e ordinari fidanzati per poi però, finire per accettare il ritorno di ogni cosa al punto di partenza, ciascuna con i propri amati iniziali. Il trionfo è quello dell’equità, dell’amore e della sua virtù che, a scapito della superficialità – qui rappresentata dalla frivolezza delle due donne – finisce comunque per affermarsi, superando anche la stessa intelligenza del filosofo. Stando al libretto classico, questi di seguito sono i personaggi principali dell’opera “Così fan tutte”: Fiordiligi e Dorabella, rispettivamente soprano e mezzo-soprano; Ferrando e Guglielmo, tenore e baritono; Despina, soprano; Don Alfonso, basso.

L’antefatto

I due militari Ferrando e Guglielmo sono in un caffè di Napoli, al cospetto di Don Alfonso. Entrambi raccontano della bellezza delle due sorelle e vantano la loro fedeltà, nonostante il filosofo che è con loro, affermi invece che in materia femminile, la parola fedeltà non si sa dove sia. L’onore delle due donne, Dorabella e Fiordiligi, viene messo in discussione e prontamente, i due fidanzati sfidano a duello Don Alfonso. Questi però, ha un’altra soluzione: cento zecchini per provare loro che le fidanzate non sono diverse dalle altre. I due uomini dovranno attenersi alle regole che imporrà il filosofo, se davvero vogliono contraddire la sua teoria.

Al fronte

Don Alfonso si accorda con la serva di casa delle due sorelle, Despina: entrambi fanno in modo che le due donne credano che i loro rispettivi fidanzati sono stati richiamati al fronte. Passa poco tempo e due ufficiali albanesi si presentano ai piedi di Fiordiligi e Dorabella: sono Tizio e Sempronio, ma altri non sono che i due fidanzati reali, travestiti. Questi vengono inizialmente respinti, le due sorelle si dichiarano fedeli e causano così, il loro suicidio per amore. In realtà, è una trovata anche questa, la quale permette ai due agonizzanti di presentarsi davanti alle esterrefatte sorelle, le quali iniziano a provare per loro compassione. Il medico che li riporta in vita, è Despina, anch’ella travestita – Don Alfonso è in combutta con lei e le ha promesso dei soldi se l’avesse aiutato nell’impresa – e l’evento porta i due ufficiali a rinnovare ancora di più il loro amore.

La notte sul mare

Despina convince le due sorelle: “sarà un gioco” dice loro, e la gente crederà che i due spasimanti sono lì per lei. Viene organizzata una serenata alle dame, sul mare, nel giardino. Fiordiligi e Ferrando allora, si allontanano, suscitando così la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla. Quest’ultima cede per prima e convince, poi, Fiordiligi stessa, una volta in casa, a fare altrettanto. Tocca a lei, allora, travestirsi: con gli abiti di un ufficiale, raggiunge il promesso sposo sul campo di battaglia ma viene fermata da Ferrando stesso, ancora una volta, il quale finisce per conquistarla davanti agli occhi di Guglielmo, il suo promesso.

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Così fan tutte

Guglielmo è furente ma anche Ferrando odia la sua ex donna, entrambi sono stati delusi. Don Alfonso ha da impartire il proprio insegnamento, forte di aver ottenuto quello che voleva e anzi, li esorta a finire la commedia con doppie nozze: tanto, come sostiene dando loro delle “cornacchie spennacchiate”, una donna vale l’altra. La colpa non è delle due sorelle in questione, sostiene poi il filosofo, ma è della stessa natura… “se così fan tutte”. Alla fine, i due veri cavalieri irrompono durante le finte nozze organizzate da Despina e mandano in fuga i due amanti albanesi, i quali altri non sono che loro stessi, nel frattempo nascosti (per sempre) dalle due donne. L’atto termina con il matrimonio delle due coppie legittime.

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La “Tosca” di Puccini https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/#comments Tue, 03 Jul 2012 08:15:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2906 Nato a Parigi nel 1831, il giovane insegnante di francese Victorien Sardou si pone in evidenza come apprezzato autore di testi teatrali. La sua copiosa produzione gli conferisce un discreto successo, ma egli è consapevole che si tratta di notorietà effimera che non gli riserverà gloria imperitura nella storia del teatro e, in particolare, della drammaturgia. E così, quando si appresta alla stesura de “La Tosca” – pensata per Sarah Bernhardt – che andrà in scena nel 1887, non immagina che sta invece consegnandosi alla storia non per l’opera teatrale in sé, ma in quanto essa ispirerà il maestro Giacomo Puccini che la convertirà nella celeberrima e omonima opera lirica.

Una scena tratta da "Tosca"
Una scena tratta da “Tosca”, opera lirica in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900.

Tosca incontra Puccini

Il primo incontro fra il musicista lucchese e la rappresentazione teatrale avviene tre anni dopo, nel 1890, in occasione della messa in scena de “La Tosca” a Milano. Puccini viene subito attratto dall’idea di tradurla in melodramma, ma esita nella sua realizzazione per alcuni anni fino a quando torna a rivederla, a Firenze, e questa volta si determina alla realizzazione del progetto caldeggiato, peraltro, anche dal poeta e commediografo Ferdinando Fontana.

Investito il suo editore Ricordi si scopre, però, che l’idea era già venuta al compositore Alberto Franchetti e che il librettista Luigi Illica sta già lavorando alla metrica e, contestualmente, alla riduzione della ponderosa stesura originaria in soli cinque atti. Franchetti, tuttavia, rinuncia al lavoro ben lieto di cederlo all’amico Puccini. Ad Illica viene affiancato Giuseppe Giacosa, che cura i momenti più propriamente melodrammatici dell’opera.

Dopo una intricata serie di disaccordi e scontri fra i vari addetti ai lavori – a cominciare dallo stesso compositore – il cui esito, tra l’altro, è l’ulteriore riduzione del numero degli atti a tre – “Tosca” vede finalmente la luce.

L’opera

L’ambientazione è a Roma, nel giugno dell’Ottocento. La napoleonica Repubblica Romana è appena stata abolita e sono in corso rappresaglie nei confronti degli ex repubblicani. Fra questi Cesare Angelotti, già console della Repubblica che, evaso da Castel Sant’Angelo, trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui incontra il suo amico pittore Mario Cavaradossi che gli assicura aiuto e collaborazione. Il colloquio fra i due è interrotto dal sopraggiungere della cantante Floria Tosca, amante del pittore, che si lascia andare ad una scenata di gelosia perché si accorge che il volto di Maria Maddalena che Mario sta dipingendo è quello della marchesa Attivanti. Dopo essere stata rassicurata dal pittore, Tosca lascia la chiesa e i due amici fuggono via.

Il resto della storia si sviluppa intorno al personaggio del barone Scarpia, capo delle Guardie Pontificie il quale, venuto a conoscenza dell’intesa fra il fuggiasco ed il pittore, ordisce una trappola per conseguire il duplice obiettivo di sedurre Tosca e catturare Angelotti. Fa dunque arrestare Cavaradossi con l’accusa di cospirazione e poi costringe Tosca, con la promessa di un salvacondotto per il suo amato, a promettersi a lui ed a rivelare il nascondiglio di Angelotti.

Tosca cede al ricatto ma, non appena ottenuto il documento, estrae un coltello ed uccide Scarpia. Corre dunque a salvare il suo uomo ma giunge tardi perché, nel frattempo, Mario è stato fucilato. Colta dalla disperazione, Tosca si toglie la vita gettandosi nelle acque del Tevere.

I momenti più intensi del melodramma pucciniano sono probabilmente contenuti nelle arie “Vissi d’arte”, nel II atto, ed “E lucevan le stelle”, nel III. In “Vissi d’arte”, romanza divenuta celebbre, si coglie la poetica disperazione e lo smarrimento di Tosca che, sotto l’atroce ricatto di Scarpia, si scopre incapace di concepire e di comprendere tanta cattiveria e si rivolge a Dio con toni di supplica ma anche di risentimento: “Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva!… Nell’ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?

In “E lucevan le stelle”, romanza ancor più famosa, il pittore Cavaradossi rinchiuso in carcere e consapevole del destino che lo attende di lì a poco, ripercorre con la mente i bei momenti trascorsi con la sua amata in un insieme di nostalgia, passione e scoramento: “… Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d’amore… L’ora è fuggita… E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!… ”.

La prima

Il quadro politico dell’Italia, nei primi del Novecento, è caratterizzato da malcontento e tensioni. Movimenti antiunitari, antimonarchici e anarchici esercitano, ognuno per proprio conto, azioni di disturbo anche attraverso iniziative violente e sanguinarie; a ciò si aggiungano l’ostilità mai sopita del Vaticano che si ostina a non riconoscere il Regno d’Italia, una severa crisi economica e l’isolamento internazionale dell’Italia.

Questo è il clima preoccupante con il quale, nel gennaio 1900, ci si appresta ad accogliere la prima della Tosca di Puccini, e che non mancherà di condizionare l’importante evento. A Roma, la sera del 14 gennaio 1900, infatti, con un Teatro dell’Opera (detto anche Teatro Costanzi) ridondante di pubblico, poco prima dell’apertura del sipario il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone è raggiunto da un funzionario di polizia che lo informa del concreto rischio di un attentato nel corso della serata, cosa già accaduta in altri teatri.

Si paventano iniziative di disturbo da parte dei rivali di Puccini ma, soprattutto, la annunciata presenza in sala della regina Margherita fa temere iniziative terroristiche da parte degli anarchici.

Alla prima saranno inoltre presenti personalità politiche e del mondo culturale di primissimo piano. Con queste premesse e con conseguente pessimo stato d’animo il maestro Mugnone raggiunge dunque il suo posto e la serata ha inizio. Fortunatamente, dopo un iniziale rumoreggiare dei soliti detrattori che determina una breve sospensione dell’esecuzione, la rappresentazione riprende e giunge felicemente a conclusione con un grande successo.

La critica

Tra le opere di Puccini, la “Tosca” rimarrà la più maltrattata nelle recensioni della stampa specializzata. Scriverà Colombani, sul “Corriere della Sera”:

…Con tutta la deferenza pel grande drammaturgo francese, io vorrei affermare che il suo lavoro fu migliorato prima dall’Illica e dal Giacosa, che ne affinarono i principali elementi, poi dal Puccini che con una tavolozza delicata e aristocratica ne nobilitò la rappresentazione. Ma – per quanto abilmente mascherato – il difetto originale del dramma a tinte troppo forti, e povero di ogni elemento psicologico, rimane visibile ostacolo ad una libera estrinsecazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini…”.

Di tenore analogo sono i commenti del “Secolo” e di altri quotidiani, che trovano l’opera musicalmente poco originale e la trama eccessivamente appesantita da torture, assassini e suicidi. Nonostante le perplessità della critica, però, la “Tosca” viene promossa a pieni voti dal pubblico ed inizia a fare il giro del mondo, dall’Europa all’intero continente americano passando per Costantinopoli e Il Cairo, fregiandosi negli anni delle più prestigiose interpreti fino a Maria Callas, nel 1941.

Maria Callas
Maria Callas

“Tosca”, insieme a “Manon Lescaut” (1893), “La Bohème” (1896), “Madama Butterfly” (1904), “Turandot” (1926), costituiscono solo una parte della copiosa produzione pucciniana che fa del maestro lucchese uno dei massimi rappresentanti della nuova scuola operistica italiana e lo iscrive fra più grandi compositori della storia della musica.

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Trama del Don Giovanni di Mozart https://cultura.biografieonline.it/trama-del-don-giovanni-di-mozart/ https://cultura.biografieonline.it/trama-del-don-giovanni-di-mozart/#comments Sat, 12 May 2012 01:10:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1930 L’opera lirica Don Giovanni di Mozart debuttò  a Praga presso il Teatro degli Stati Generali il 29 ottobre 1787. Dall’autore definita “dramma giocoso”, l’opera si apre sugli ampi e solenni accordi dell’Ouverture, snodandosi poi in due atti suddivisi in scene.

Amadeus Mozart, Don Giovanni
Illustrazione raffigurante i personaggi del “Don Giovanni” di Mozart

L’ouverture si apre con l’ingresso del Commendatore nella sala della cena funebre ed è caratterizzata da scale ascendenti e discendenti che salgono per semitoni e toni. L’opera sembra iniziare in un clima tragico che poi cambia totalmente spirito. La musica irrompe con il potere di sedurre lo spettatore, sembra alternarsi fra toni aspri che rimandano alla Morte e altri frivoli che riconducono alla Vita. Sotto un manto di gaiezza, la musica esprime la nuda verità.

Don Giovanni di Mozart: Atto Primo

Nel giardino notturno, Leporello, servitore di Don Giovanni, fa la sentinella davanti al palazzo del Commendatore, lamentandosi della sua condizione, racconta come il suo padrone stia allo stesso tempo portando a conclusione una delle sue avventure amorose. Subito arriva Donna Anna che sta inseguendo un uomo che si era presentato col volto coperto. Mentre cerca di scoprire la sua identità, si accorge dell’arrivo del padre e scappa. Il Commendatore è anziano ma sfida ugualmente l’ignoto aggressore , rimanendone ferito a morte. Qui il tema di Anna Come furia disperata assembla, da un lato, il suo dolore per la morte del padre sopraggiunta proprio per mano del suo seduttore e, dall’altro, il suo amore verso di lui. Per Mozart, la Morte è carica di seduzione ed è posizionata a questo punto del dramma per tracciarne le linee principali.

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Nella notte, servo e padrone, cercano di nascondersi e Donna Anna entra nuovamente in scena scortata dal fidanzato Don Ottavio, pretendendo giuramento di vendetta da lui. L’attenzione di Don Giovanni è ora attratta da una bella dama, Donna Elvira, nobildonna di Burgois da lui già sedotta ed abbandonata che lo sta proprio cercando. Don Giovanni fugge quando un gruppo di contadini festeggia il matrimonio di Masetto e Zerlina e, notando la sposa, invita tutti al suo palazzo per rimanere in privato con lei. Ecco il famoso duetto Là ci darem la mano interrotto da Donna Elvira che avvisa Zerlina denunciando il tradimento di Don Giovanni agli altri. Donna Anna capisce così che lui è proprio l’assassino del padre.

Zerlina e Masetto litigano già perché lui è geloso della donna, avvolta dalla seduzione del protagonista, che a sua volta si sente in colpa nei suoi confronti. Donna Anna, Donna Elvira e Don Ottavio si coalizzano contro Don Giovanni, desiderosi di portare a termine i giochi di seduzione dello stesso e , accettando l’invito di Leporello, si mascherano ed arrivano alla festa . Dietro la Maschera si cela la Morte, anche il canto di Leporello è contraddistinto da note cupe e gravi; invitando il nero terzetto ad intervenire alla festa e quindi ad entrare a palazzo, invita la Morte. Leporello e Don Giovanni accolgono insieme tutti gli ospiti, rafforzando il carattere del doppio, i due completano l’uno le frasi dell’altro e cantano sulla stessa linea melodica, Zerlina si diverte, Masetto è arrabbiato.

Leporello spinge Masetto al ballo e così il suo padrone può prelevare Zerlina e trascinarla con sé. L’iniquo da sé stesso nel laccio se ne va. La donna però reagisce con un grido di terrore che interrompe i festeggiamenti. Don Giovanni allora fa ricadere la colpa sul servo, procurandosi anche il suo odio.

Atto Secondo

Leporello vuole andarsene, Don Giovanni non vuole rischiare di perdere il suo compare e così gli offre del denaro che viene accettato dal servo ignaro del fatto che il padrone gli concede quella somma per trarre ulteriori vantaggi. Egli vuole coinvolgerlo in un’altra impresa: quella del travestimento. Invaghitosi della cameriera di Donna Elvira, crede che per riuscire nel suo intento sia più conveniente presentarsi con gli abiti di Leporello. Allo stesso modo, celandosi dietro gli abiti del servo, convince Donna Elvira del suo amore. Partita la nobidonna col servo, Don Giovanni canta alla cameriera, quando sopraggiunge Masetto accompagnato da alcuni paesani vogliosi di vendetta.

Il falso Leporello dà loro delle indicazioni errate e rimasto solo con Masetto lo schernisce. Zerlina consola lo sposo mentre il vero Leporello cerca di fuggire dal posto in cui è con Donna Elvira, ma incontra Zerlina, Masetto, Donna Anna e Don Ottavio; i quali, scambiatolo per Don Giovanni, lo aggrediscono. Così l’uomo svela la sua vera identità (Viver lasciatemi per carità) lasciando gli altri in uno stato di confusione.

Don Giovanni è giunto in un cimitero, quando una voce lo ammonisce : “Di rider finirai prima dell’aurora” , è l’oracolo della Statua del Commendatore. Don Giovanni, dopo un attimo di timore, si fa burla di quanto accaduto e chiede a Leporello di porgere alla voce-statua l’invito per cena e lui Signor, il padron mio, badate, non io, vorria con voi cenar”, e la Statua china la testa ed acconsente.

Don Ottavio, nel frattempo, chiede a Donna Anna di sposarlo, ma la donna rifiuta.

Adesso, Don Giovanni è nel suo palazzo, sta cenando ed scolta musica, quando la Statua del Commendatore giunge in scena. Don Giovanni sembra essere forte, ma non vuole pentirsi di quanto fatto (“Pentiti, scellerato!”, “No!”, “Cangia vita!”, “No!”) e sprofonda tra le fiamme sotto lo sguardo incredulo ed impaurito del suo servo. Il Coro punisce con le parole del canto Don Giovanni, peccatore.

Sulla scena giungono anche gli altri, chiedendo a Leporello del padrone. Questo gli racconta quanto accaduto. Donna Elvira prenderà i voti, Donna Anna non sposa ancora Don Ottavio chiedendogli di aspettare che passi il suo dolore. Insieme concludono con un coro sull’antica canzone che condanna un miscredente a non lasciare rimpianti.

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L’oro del Reno https://cultura.biografieonline.it/oro-del-reno/ https://cultura.biografieonline.it/oro-del-reno/#comments Wed, 21 Mar 2012 12:25:06 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1149 Il 22 settembre del 1869 viene rappresentato per la prima volta l’Oro del Reno del compositore tedesco Richard Wagner. L’opera (il titolo originale è Das Rheingold), composta tra il 1853 e il 1854 e messa in scena al Teatro Nazionale di Monaco di Baviera, è la prima della tetralogia dell’Anello del Nibelungo.

Oro del Reno: scena prima

E’ l’alba e il fondale dorato del fiume Reno viene protetto dalle ondine, Woglinde, Wellgunde e Flosshilde, le figlie del fiume. Solo Flosshilde, però, sembra prendere sul serio il compito di sorvegliante. Attirato dai loro giochi, all’improvviso compare dai sotterranei della terra il nano o nibelungo – figlio della nebbia- Alberich. Le tre ondine compresa Flosshilde abbandonano ogni atteggiamento guardingo, e cominciano a provocare Alberich per poi sottrarsi alle sue avances gettandolo in uno stato di rabbiosa frustrazione. Intanto il sole indora il Reno rivelando la presenza dell’oro. Le tre ondine svelano ad Alberich il segreto dell’oro: chiunque riuscirà a strapparlo alle acque e lo utilizzerà per forgiare un anello conquisterà il dominio dell’universo. Le tre commettono così un terribile errore, convinte che il lascivo nano non potrà mai accettare una delle condizioni imprescindibili per avere l’anello: rinunciare all’amore. Il nano, invece, dopo il fallimento dell’ennesimo tentativo di seduzione, rinuncia all’amore, si appropria dell’oro e scompare gettando le sorelle nello sconforto.

Scena seconda

L'oro del reno, di Richard Wagner - I giganti Fasolt e Fafner rapiscono Freia - Illustrazione di Arthur Rackham (1910)
L’oro del reno, di Richard Wagner – I giganti Fasolt e Fafner rapiscono Freia – Illustrazione di Arthur Rackham (1910)

La scelta di Alberich ha determinato un rivolgimento del rapporto amore-potere che si riflette anche nel regno degli dei di Wotan, protagonista del secondo atto. Wotan ha affidato la costruzione di un magnifico castello ai giganti Fasolt e Fafner, promettendo loro come ricompensa la dea dell’amore, Freia. Nonostante le preoccupazioni della moglie e sorella di Fria, il dio non comprende di aver agito con eccessiva leggerezza.
Freia, infatti, fugge alla vista dei due giganti che chiedono con forza il rispetto del patto. Di fronte all’evasività di Wotan, i due progettano di rapire la dea. La sua assenza avrebbe infatti conseguenze catastrofiche: mangiando i pomi che lei coltiva, gli dei ottengono la garanzia dell’immortalità e dell’eterna giovinezza. Senza i pomi gli dei potrebbero cioè addirittura perire in caso, per esempio, di ferimento in battaglia.

L’insistenza dei giganti sta quasi per determinare un conflitto, quando Wotan interpone la propria lancia, simbolo di potere cosmico. L’esposizione della lancia assume l’importante significato di richiamo all’equità della giustizia. Nonostante il proprio gesto, Wotan non sa come dirimere la questione e aspetta con ansia l’arrivo di Loge. Quest’ultimo, al momento dell’incauta promessa, aveva dichiarato di essere in grado di trovare un espediente per risolvere la faccenda. La soluzione di Loge non è altro che un lungo racconto di come girando per il mondo non abbia trovato nessuno disposto ad ammettere che l’amore di una donna non rappresenti la massima aspirazione umana. Si è rivelato di parere contrario solo un nano di nome Alberich, padrone di una fucina in cui i nibelunghi lavorano l’oro del Reno per forgiare un anello che gli consenta di dominare il mondo.

Attraverso questo racconto Loge riesce, dunque, a suggerire una ricompensa ben diversa dalla dea Freia. Ma è Wotan, a cui si rivolgono le figlie del Reno per la restituzione dell’oro, a comprendere che una nuova minaccia sta per abbattersi sul suo regno. I due giganti propongono immediatamente lo scambio, e prendono in ostaggio Freia. Se a sera non gli verrà consegnato l’oro, la dea rimarrà con loro. Wotan accetta, rivelando così che il suo nuovo interesse è ottenere l’anello dal nibelungo. Loge stesso provvede a trovargli una scusante morale affermando che in fondo sottrarre l’anello al ladro Alberich non sia esattamente un furto. Non appena Freia si allontana, comincia il deperimento fisico degli dei dal quale è esonerato solo il semidio Loge.

Scena terza

Wotan e Loge scendono nelle viscere della terra, dove Alberich grazie all’anello ha schiavizzato tutti i nibelunghi, noti per la loro abilità di fabbri. La bravura del fratello Mime, consente al nano di disporre anche di un elmo magico che lo rende invisibile permettendogli così di dominare ancora meglio i poveri nilbelunghi, ormai terrorizzati. Non solo, l’elmo gli conferisce il dono dell’ubiquità e la possibilità di trasformarsi in qualsiasi essere desideri. Loge comprende subito di poter sfruttare a proprio vantaggio il vanaglorioso nano stuzzicandone l’orgoglio, proprio come accade nella favola “Il gatto con gli stivali”. Finge, infatti, di non credere al potere di Alberich, e lo sfida a trasformarsi in un rospo. Il nano si lascia gabbare, e trasformatosi in rospo viene catturato e portato nel regno degli dei.

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Scena Quarta

Alberich ordina ai nibelunghi di cedere tutto il suo oro e il suo elmo, convinto che questi beni siano riforgiabil, a differenza dell’anello che è un pezzo unico. Ma Wotan pretende anche quest’ultimo, e per averlo scatena tutta la sua furia. Alberich è obbligato a cedere, ma lancia una maledizione sul prezioso oggetto: chiunque se ne impossesserà, ne verrà annientato.

L’arrivo dei due giganti mette nuovamente alla prova Wotan che, costretto a scegliere tra potere e amore, si oppone alla cessione dell’anello. Solo l’arrivo della dea Erda, che impersona la saggezza della madre terra, lo induce a cedere. La divinità gli predice, infatti, che la seconda volta che avrà l’anello in mano sarà vittima di un infausto destino.
Intanto il gigante Fafner, preso dall’avidità, uccide il fratello e fugge con l’anello. La calma sembra tornare nella dimora degli dei, mentre le ondine continuano a richiedere la restituzione dell’Oro del Reno.

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