medioevo Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 23 Dec 2022 09:48:28 +0000 it-IT hourly 1 Chanson de Roland: riassunto, storia e analisi https://cultura.biografieonline.it/chanson-de-roland/ https://cultura.biografieonline.it/chanson-de-roland/#comments Tue, 22 Nov 2022 07:49:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16516 Il filologo tedesco Auerbach definì la Canzone di Orlando (Chanson de Roland) come ‘‘il monumento letterario più popolare del Medioevo francese’’. Quest’opera illustre ricopre il posto d’onore tra le Chansons de geste nell’ampio panorama letterario medievale, racchiudendo in se la complessità e la bellezza di un mondo dalle connotazioni fiabesche e dagli ideali tipicamente cortesi.

Chanson de Roland
Dettaglio del bassorilievo presente nella cattedrale di Angouleme, raffigurante una scena della Chanson de Roland – Alcuni critici indicano l’autore della “Chanson de Roland” nel monaco e scrittore francese Turoldo. Turoldo viene nominato unicamente nell’ultimo verso del poema cavalleresco e solo nella versione del manoscritto di Oxford: «Ci falt la geste que Turoldus declinet» (La gesta scritta qui da Turoldo ha fine).

Chanson de Roland: un poema incerto

Sono molte le incertezze legate alla storia di questo antico poema: non si hanno indicazioni molto incoraggianti su chi potesse essere l’autore.

Tale circostanza convaliderebbe la principale teoria: quella che indica la Chanson de Roland come il frutto dell’assemblaggio di varie leggende e cantilene epiche. Tutte queste storie si rifarebbero alla vicenda della morte di Orlando nella Battaglia di Roncisvalle. Pertanto la Canzone di Orlando non va considerata come un’opera pensata e concepita da un unico autore.

La Chanson de Roland si diffonde nell’antico regno Normanno a partire dal XII secolo; in più di 4.000 decasillabi, in lasse assonanzate, narra le vicende del conte Orlando e degli undici paladini di Francia nella battaglia, guidata da Carlo Magno, contro i Mussulmani.

Carlo Magno contro gli infedeli

Leggendo il testo si può ben comprendere quanto questo poema sia da considerarsi una valida guida alla comprensione di un periodo storico controverso e spesso erroneamente declassato.

Dallo studio dell’opera emergono immediatamente i tratti distintivi dell’organizzazione verticistica tipicamente feudale: in cima spicca la figura dell’imperatore, per quale i vassalli combattono guerre nella quale non è ben definito il confine tra l’ideale di conquista e la salvaguardia dei valori religiosi.

Tutta l’opera è permeata di una cristianità al limite del fanatismo religioso, faziosità che ben volentieri si mescola con gli estremi della fedeltà cavalleresca.

Orlando e Gesù

Vale la pena di ricordare le analogie individuate da Cesare Segre tra il paladino Orlando e il salvatore dell’umanità Gesù Cristo, affinità che portando alla luce quella forte conformità del poema ai poemetti agiografici.

Canzone di Orlando
Battaglia di Roncisvalle: la morte di Orlando è raffigurata in una miniatura risalente alle metà del XV secolo (l’autore è Jean Fouquet)

Da questo punto di vista la vita del primo paladino di Francia è simile alla vita di Cristo ‘‘E se ne ha conferma clamorosa alla morte di Orlando, quando due arcangeli e un cherubino accorrono a raccogliere la sua anima per portala in Paradiso’’.

Il tema religioso è strettamente connesso al motivo del “meraviglioso” che, in un’ottica del tutto cristiana e devota a Dio, si oppone e si sostituisce agli interventi soprannaturali che costellano la produzione letteraria classica e quindi pagana.

L’oggettività dell’azione divina che risponde esternamente, come il narratore nei confronti del lettore, alle richieste umane, secondo un disegno che non può essere contestato in quanto giusto e assoluto, è un segno peculiare dell’epos, in cui le azioni e i fatti vengono osservati da una prospettiva alta e distaccata che non ammette incertezze e che rappresenta l’indiscutibile verità.

Da qui deriva la netta separazione tra i “buoni” ( i cristiani ) e i cattivi ( i musulmani), tra i paladini di Dio e i traditori della Fede.

Chanson de Roland: analisi dell’opera

Lo stile manifesta chiaramente le finalità e l’ideologia degne di un capolavoro di questa portata.

Come ricorda Auerbach:

Tutto è fissato e stabilito, bianco e nero, bene e male, e non richiede più indagine o motivazione’’. Tale inalterabilità deriva dal forte vigore paratattico che convince il lettore che nulla potrebbe svolgersi in modo diverso e che ‘‘ciò si riferisce non solo agli avvenimenti ma anche ai principi che ispirano i personaggi nel proprio agire. La volontà cavalleresca di lotta, il concetto di onore, la reciproca fedeltà alle armi, la comunanza di parentado, il dogma cristiano, la distribuzioni di diritto e di torto tra fedeli e infedeli, sono le concezioni più importanti’’ (Auerbach).

Le lasse assonanzate, come osserva Auerbach, “racchiudono in sé un’ immagine completa“, una visione che si realizza grazie alla ripetizione di termini ed espressioni che strofa dopo strofa si reiterano in forma differente ma con il medesimo significato.

Questa serie di accorgimenti stilistici rispondono chiaramente all’esigenza di una trasmissione del testo tramite un canale orale ad un pubblico prevalentemente popolare che necessitava di particolari monotoni e di espressioni semplici per seguire gli intrecci più complessi della trama.

L’uso del colore configura la Canzone di Orlando come un’opera artistica quanto letteraria. Il forte senso coloristico che invade quasi ogni strofa è propriamente medievale e si esprime spesso attraverso il riferimento a colori luminosi e campiture ben definite, caratteristiche che si possono riscontrare in tutti i manufatti artistici medievali, dalle miniature del Codex Manesse alle vetrate della cattedrale di Notre Dame, a Parigi.

Il paesaggio

Un altro aspetto interessante risiede nella descrizione del paesaggio che spesso si rivela essere definito solo attraverso pochi riferimenti ambientali, come ad esempio una roccia, un pendio o un albero. Anche questo aspetto è frutto di una mentalità tutta medievale, dove l’attenzione si focalizza principalmente sulle azioni del personaggio, ciò che conta e l’azione e gli ideali che spingono l’eroe ad agire.

Il gusto per una descrizione dettagliata del personaggio, del tutto sconosciuto durante il Medio Evo, inizierà ad emergere in letteratura solo con il naturalismo rinascimentale.

Note bibliografiche

G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Paravia, Torino,1994
L. Passerini, .La canzone d’Orlando, Soc. Leonardo da Vinci, Città di Castello, 1940

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Un altro paio di maniche: origini del modo di dire (e come si dice in inglese) https://cultura.biografieonline.it/altro-paio-di-maniche-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/altro-paio-di-maniche-modo-di-dire/#respond Thu, 17 Mar 2022 19:17:06 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=39504 Perché si dice così?

La lingua italiana è disseminata di espressioni o locuzioni idiomatiche che sono sempre calzanti: l’espressione giusta al momento giusto, possiamo dire. Si tratta di espressioni che raccontano perfettamente quello che stiamo vivendo. Così perfette che ignoriamo quell’espressione letteralmente o la sua origine. Questo è il caso, per esempio, del modo di dire un altro paio di maniche.

Qui ne spieghiamo significato e origini.

Pronti?

Via.

Un altro paio di maniche: significato

L’espressione un altro paio di maniche significa “un’altra cosa, tutta un’altra storia“.

Se ci riferiamo a qualcosa che resta molto distante da quello di cui stiamo parlando diremo:

“quello è un altro paio di maniche”.

Due temi nella discussione si mettono in opposizione: questo è “un altro paio di maniche” rispetto all’altro.

Fra i due oggetti non c’è nulla di paragonabile, che l’una cosa rispetto all’altra sia di gran lunga migliore o anche peggiore.

un altro paio di maniche - vestito medievale
Dettaglio da: Trittico dei sette Sacramenti, opera dell’artista fiammingo Rogier van der Weyden (1445-1450) • Museo reale di belle arti, Anversa

Perché le maniche

La locuzione idiomatica “un altro paio di maniche” è in uso nella lingua italiana sin dall’Ottocento.

Ricorre sia nell’italiano colloquiale che in quello letterario.

Tutto deriva da un uso medievale relativo proprio alle maniche.

Era infatti usanza medievale, ma anche poi rinascimentale, soprattutto femminile, portare maniche intercambiabili.

Tra i secoli Quattrocento e Cinquecento, quando si era molto lontani dall’automazione del lavaggio degli indumenti, lavare un vestito era cosa molto complessa. Per questo motivo si ricorreva ad una soluzione più agile, ovvero il cambio di maniche.

Oggetto di lusso, ma anche di amore

Le maniche rappresentavano per questo una parte di vestito molto importante. Ricche e ornatissime, con ricami, nastri, spacchi e sbuffi. Rappresentavano un elemento ricco e ricercato della veste.

Maddalena - Trittico della famiglia Braque - Rogier van der Weyden - 1452
Maria Maddalena: parte destra del Trittico della famiglia Braque, opera di Rogier van der Weyden (1452 circa) • Museo del Louvre, Parigi

Succedeva anche che tali maniche venissero utilizzate come pegni d’amore da parte del fidanzato alla futura sposa.

La presenza o assenza di maniche, fra l’altro, rappresentava la versione invernale ed estiva dello stesso abito.

In inglese: dalle maniche alle pentole

Nella lingua inglese ci sono diversi modi per indicare l’espressione “un altro paio di maniche”.

Ci sono modi di dire più generici come:

  • another story
  • another matter

ovvero, rispettivamente:

  • è un’altra storia
  • è un’altra faccenda

Ci sono formule, però, più dettagliate come:

  • a different kettle of fish

letteralmente:

  • una pentola di pesce diversa.
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Corvée, essere di corvée: significato e origini https://cultura.biografieonline.it/corvee-significato/ https://cultura.biografieonline.it/corvee-significato/#respond Sun, 06 Mar 2022 14:01:11 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=39502 La parola corvée ed il modo di dire essere di corvée hanno origini antiche. Ne parliamo in questo articolo.

Il mercato del lavoro odierno è un mare magnum in cui continuamente facciamo uso di temi comuni come la felicità, la soddisfazione, la competenza da una parte; ma anche il giusto riconoscimento, o meglio la paga ben tarata sull’attività prestata. Non sarà di grande consolazione sapere che le ingiustizie nel lavoro provengono da molto lontano.

Ti è mai capitato di “essere di corvée” ?

corvée

Cosa significa corvée

La parola è francese e letteralmente si traduce con lavoretto, o lavoro di routine.

In buona sostanza essere di corvée significava essere attore di un lavoro, spesso magari pesante e mal retribuito, quando non prestato gratuitamente.

Facendo un passo indietro potremmo definirlo al pari di “essere di servizio” o “di turno” laddove però il lavoro in oggetto non è un lavoro né leggero, né pagato, né tanto meno gratificante.

Il termine “essere di corvée” ha due ambiti di provenienza specifici:

  1. quello relativo al feudalesimo
  2. un altro relativo all’ambito militare.

Ne parliamo di seguito.

Primo ambiente: la società feudale

Nel sistema del diritto feudale la corvée era il servizio che il suddito doveva tributare periodicamente al suo signore. Si trattava di un lavoro spesso bestiale e mai retribuito. I signori feudali, infatti, si sostituivano ai sovrani sui loro territori anche dal punto di vista fiscale.

Così le corvée rappresentavano una vera e propria forma di tassazione, prestata in lavoro anziché in denaro. Questa brutta tradizione si è conservata fino all’inizio del secolo XIX.

feudalesimo e società feudale: lavoratori
Lavoratori nella società feudale • La fienagione: dettaglio dell’affresco rappresentante il mese di luglio, presso il Castello del Buonconsiglio di Trento (1400 circa)

Medioevo e non solo

Non sono stati però i proprietari terrieri o i signori del Medioevo a inventare ex novo questo modo di raccogliere una prestazione lavorativa. Ci sono segni di questo lavoro gratuito già nell’antico Egitto e nel tardo Impero romano.

I liberti a Roma fornivano operae officiales per ottenere libertà. Ad esempio: lavoro gratuito sulle terre per emanciparsi dal proprio padrone.

Lo stesso avveniva ai coloni del III e IV secolo, sempre a Roma. Lo Stato romano, ancora, gravava con queste forme su particolari categorie di cittadini per le costruzioni pubbliche: strade, ponti, argini.

Il sistema ha avuto seguito anche nel Regno franco sempre a scopi di manutenzione pubblica. In Francia, nel XVIII secolo, poi, venne imposta la corvée royale (o reale): essa imponeva ai contadini di contribuire alla manutenzione delle strade; tale corvée nel 1738 divenne generale.

Pubblico o privato?

Si parla di due tipi di corvée:

  • quella reale;
  • quella signorile.

La prima era un obbligo da parte della comunità di effettuare lavori sulle strade del regno; la seconda era un obbligo da parte dei servitori della gleba nei confronti del proprietario terriero di prestargli lavoro.

Perché ci si sottoponeva al sistema?

I vantaggi di chi riceveva il lavoro erano ovviamente una prestazione gratuita e un lavoro fatto.

Dall’altra parte cosa guadagnava il vassallo o – come vedremo – il soldato?

Il lavoro veniva commutato per lo più in affitto, imposte o nell’accumularsi di un proprio fondo.

Più avanti, nelle società urbanizzate, la “corvée” rendeva ai lavoratori la proprietà degli strumenti di lavoro o del bestiame.

L’inizio della Rivoluzione francese

Il sistema resistette molto nelle campagne. Non è del tutto scorretto pensare alla mezzadria come figlia di questo sistema, in nuce.

La corvée fu una delle cause più immediate della rivoluzione francese. Successe che la Costituente abolì integralmente ogni tipo di corvée personale, mentre i proprietari terrieri ebbero la possibilità di decidere se convertire le corvée reali in una prestazione in denaro.

La corvée royale venne abolita il 4 agosto 1789 (pochi giorni dopo la presa della Bastiglia).

Secondo ambiente: il contesto militare

Altro settore in cui si può essere di corvée è quello militare. In questo contesto “essere di corvée” indica un’antica usanza ancora presente nelle Forze Armate per stabilire dei turni di servizio per i militari.

Tali turni sono finalizzati a effettuare mansioni o servizi vari, quali: compiti di pulizia dei locali e servizi, inerenti all’uso dei commilitoni oppure, in senso più lato, per la preparazione di pasti o le operazioni correlate.

Col tempo il termine è stato sostituito da “comandata“.

Il turno assegnato può essere giornaliero ma anche settimanale; ciò dipende dal tipo di corvée, dalle necessità organizzative e dai compiti da assolvere.

Militari di corvée mentre pelano le patate
Militari di corvée mentre pelano le patate (Francia, Prima Guerra Mondiale)

Essere di corvée oggi

Prendendo un po’ dal sistema feudale e un po’ da quello militare, la corvée oggi indica un lavoro ingrato e pesante.

Con il termine ci si riferisce ad una vera e propria fatica che si aggrava per la caratteristica di obbligatorietà (o quasi).

Pensiamo per esempio ad un madre di corvée di notte, per l’accudimento di un infante; i colleghi che – volenti o nolenti – a turno devono occuparsi di quell’attività che nessuno ama; gli amici che, magari per dimostrare affetto, si sottopongono ad attività non del tutto gradite.

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A babbo morto: significato e origine del modo di dire https://cultura.biografieonline.it/a-babbo-morto-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/a-babbo-morto-modo-di-dire/#respond Sat, 02 Oct 2021 15:55:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=35916 Questa espressione viene utilizzata spesso per intendere l’incassare un credito con molto ritardo o, ancora meglio, senza una scadenza predefinita. In maniera traslata poi indica il fare qualcosa in tempi, possiamo dire, incerti. Ma da dove proviene il modo di dire a babbo morto?

Made in Toscana

Non è difficile localizzare questo modo di dire sullo stivale italico. Basta seguire la pista del “babbo”, un modo di indicare il “papà” tipico della Toscana, ma anche del centro Italia in genere. L’espressione “a babbo morto”, infatti, ha origine proprio in Toscana. Più precisamente, nella zona della Maremma.

A babbo morto: quando nasce questa espressione

Se il luogo è la Toscana, il tempo in cui nasce il modo di dire “a babbo morto” è grosso modo il Medioevo.

A quell’epoca molti giovani signori erano soliti intrattenersi nel gioco. In questo contesto spesso contraevano debiti che poi risolvevano tramite il ricorrere a usurai. L’usura era la via percorsa dai più per onorare debiti di gioco, prima che per acquistare doni alle proprio amate.

Quando il debito effettivamente e certamente sarebbe stato saldato?

“A babbo morto”, ovvero quando il rampollo avrebbe incassato l’eredità, una volta morto il proprio padre.

Il vantaggio del “babbo morto”

Gli usurai usavano questa espressione ben consci che il saldo del debito non sarebbe avvenuto in tempi brevi. Tuttavia, non ne erano scontenti.

Se da una parte si innescava una certa incertezza nell’incasso, dall’altra si profilava certamente la possibilità che col tempo il gruzzolo dell’eredità sarebbe cresciuto in modo esponenziale.

Gli usurai, quadro di Quentin Massys. A babbo morto.
Gli usurai, quadro di Quentin Massys del 1520 • olio su tavola, Galleria Doria Pamphili, Roma

La questione del “babbo”

In questa espressione e modo di dire, c’è la parola “babbo”. E’ un modo di origine dialettale entrato a pieno titolo nell’uso comune e sostitutivo per molti del termine “papà”. Per quanto adesso esista meno rigidità negli usi dialettali, probabilmente e non solo per le migrazioni interne sempre continue e l’aumento delle famiglie “miste” dal punto di vista dell’origine regionale in Italia, la parola “babbo” è propria solo di alcune parti del Paese.

In particolare – oltre alla Toscana – la parola “babbo” si usa in:

  • Romagna;
  • Umbria;
  • Marche;
  • Sardegna;
  • Lazio settentrionale.

Nel tempo, anche all’interno di queste stesse regioni, si è connotato come un uso di stampo popolare.

Un babbo fa per cento figlioli e cento figlioli non fanno per un babbo, questa è la verità.

DAL FILM: Amarcord (1973, di Federico Fellini)

Pensiamo all’espressione “figlio di papà” non sostituibile con “figli di babbo”.

Recenti indagini di stampo linguistico, però, hanno dimostrato che in molte zone dove si usava il termine “babbo” aumenta sempre più la scelta dell’uso della variante “papà”. 

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Spezzare una lancia: da dove deriva il modo di dire https://cultura.biografieonline.it/spezzare-una-lancia-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/spezzare-una-lancia-modo-di-dire/#respond Sat, 20 Jun 2020 19:04:25 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29673 Il significato

Usare l’espressione “spezzare una lancia a favore di” significa oggi, in via generale, sostenere. Volendo rintracciare situazioni più specifiche, possiamo notare come questo modo di dire sia molto in uso nella dimostrazione di un supporto a livello verbale verso una tesi o una persona che si fa portatore di una tesi.

L’espressione spezzare una lancia può essere utilizzata anche nell’accezione di aggiungere una nota positiva nella discussione sulla persona stessa, più generalmente, e sulla sua stessa reputazione. Insomma, con l’utilizzo di questo modo di dire, ci facciamo sostenitori di qualcuno o qualcosa che richiamiamo, perché pertinente, nel nostro discorso.

Spezzare una lancia: quanto ha viaggiato questa espressione?

Questa espressione ha fatto un lunghissimo viaggio nel tempo. Senza saperlo quando diciamo “spezzare una lancia a favore di” andiamo a smuovere un capitolo della storia umana ormai lontanissimo. Si tratta del mondo delle corti, dei signori e dei loro cavalieri. Parliamo del Medioevo.

Quali lance e a difesa di chi

Divenire cavalieri, nel Medioevo, significava abbracciare un codice di comportamento ben specifico e, altresì, uno stile di vita particolare. I cavalieri, infatti, venivano investiti di una serie di doveri fra cui, in primis, quello di difendere il proprio sovrano. Ma non si trattava solo di questo.

Quella del cavaliere – pensiamo anche nella letteratura – è la figura che simboleggia il valore e, per traslato, la difesa dei più deboli, che fossero più o meno impegnati nella battaglia.

Cavaliere azzurro - dettaglio
Nella foto: un dettaglio del dipinto Cavaliere azzurro, importante opera di Kandinsky

Questo atteggiamento insito nella figura del cavaliere rende bene a livello iconico l’idea del lanciarsi avanti nella battaglia, contro il nemico, con una foga tale da spezzare la propria lancia.

Perché?

Per difendere, per sostenere ora il sovrano, ora chi veniva vessato in vario modo da quello che ben presto diveniva il nemico.

In battaglia e non solo

Tale prassi, tutta interna al ruolo del cavaliere, si può legare non solo al momento puro e utile della battaglia, ma anche a quello dei tornei medievali, delle giostre, dell’esercizio delle armi. In questo quadro, l’espressione spezzare una lancia assume una sfaccettatura in più.

Resta sempre valido il principio di lanciarsi a difesa di qualcuno al punto da spezzare la lancia, ma si insidia anche il significato più ampio, ma più realistico, del lanciare la sfida stessa o per lo meno del dichiararsi pronti a battersi.

Poco cambia, in fondo, nella trasposizione odierna: che sia in difesa dei più deboli o in attacco per sé stessi e per il proprio valore, resta chiaro il concetto del buttarsi in prima linea per sostenere attivamente qualcuno o qualcosa.

Spezzare una lancia: cavalieri si sfidano in una rievocazione storica medievale
Spezzare una lancia: cavalieri si sfidano in una rievocazione storica medievale

Lo scenario ludico: la giostra medievale, ancora viva

I primi tornei medievali, anche detti giostre, risalgono al IX secolo. Nacquero corredati di un preciso cerimoniale e di un codice d’onore molto puntuale. Vi partecipavano attivamente, sfidandosi, anche aristocratici e sovrani. Lo scopo ultimo era il far festa d’armi e il praticare l’arte della guerra.

Questa tradizione, in Italia, è stata riesumata, per lo più, nel ventennio fascista e sopravvive ancora. Sono numerose le città, su tutta la penisola, che ogni anno si misurano in rievocazioni storiche di grande bellezza e pregio, note in tutto il mondo, fra palii, giostre e quintane.

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Palo del barbiere e salasso: cosa hanno a che fare tra loro? https://cultura.biografieonline.it/salasso-palo-barbiere/ https://cultura.biografieonline.it/salasso-palo-barbiere/#comments Sun, 25 Aug 2019 19:53:38 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26974 Il palo del barbiere è un’insegna simbolica con un significato curioso che ha a che fare con il salasso. Si tratta di un oggetto poco comune in Italia oggi. E’ invece più facile incontrarlo nei paesi di lingua anglosassone (USA, Regno Unito o ex colonie). Il palo del barbiere ha origini molto antiche. Lo si poteva trovare anche in epoca medievale. Questo palo si compone di un’asta con un pomo di bronzo all’estremità; ha una lunghezza variabile; ma ciò che lo contraddistingue esteticamente sono le strisce colorate disposte a spirale.

Palo del barbiere
Palo del barbiere: la combinazione di colori si trova nelle versioni bianco-rosso, oppure bianco-rosso-blu (più diffusa negli Stati Uniti) 

Il palo del barbiere e il salasso

Questo tipo di insegna, il palo del barbiere appunto, ha curiosamente a che fare con la pratica del salasso. Non starò a girarci intorno come farebbero Salvatore Aranzulla o Agatha Christie – rivelando la soluzione solo alla fine della lettura; darò invece immediatamente la spiegazione.

Nel Medioevo i barbieri, oltre a praticare il loro canonico mestiere, nelle loro botteghe praticavano il salasso! Tra poco spiegherò il perché.

Il palo aveva simbolicamente la funzione pubblicitaria di comunicare al pubblico: “qui si pratica il salasso”.

Cos’è il salasso

Il salasso è il nome di una pratica medica che consiste nel prelevare grosse quantità di sangue da un paziente con l’obiettivo di ridurre l’apporto di sangue nelle arterie. Si credeva che la malattia sparisse con la conseguente rigenerazione del sangue.

In epoche passate, quando non si conoscevano soluzioni mediche per l’ipertensione, il salasso poteva portare sì effetti benefici (riducendo il volume del sangue, si riduceva temporaneamente la pressione). Tale pratica comportava tuttavia rischi importanti per la salute. Si poteva (e si può) anche morire in seguito a un salasso.

Il salasso veniva praticato nell’antica Mesopotamia, nell’antica Grecia, da Maya e Aztechi, e nell’Antico Egitto. In generale – per l’uso diffuso in ambito medico che si faceva del salasso fino al secolo XIX – esso ha sempre avuto un’efficacia non dimostrata.

Una curiosità

Nella semi-leggenda che riguarda la vita del personaggio di Robin Hood (contenuta nel Percy Folio del XVII secolo), si narra che lo stesso Robin sia morto a causa di un salasso mal praticato.

Il salasso praticato dai barbieri

Torniamo alla professione del barbiere.

Perché ai professionisti del taglio di capelli e barba fu affidato il compito di eseguire una pratica medica?

Le pratiche mediche – in tempi antichi – venivano spesso operate da figure religiose. Persone a cui era data l’opportunità di studiare. Così era anche intorno all’anno 1000, in pieno Medioevo.

Lo scenario cambiò profondamente fra il 1123 e il 1215; sono le date rispettive del 1° e 4° Concilio Lateranense. In questo secolo ai sacerdoti cattolici e ai diaconi venne proibito di praticare la medicina a discapito della loro funzione ecclesiastica.

Prima che operassero i salassi, ai barbieri erano già affidate piccole operazioni (considerate di routine) come ad esempio la rimozione di pidocchi, pulci e zecche; ma anche l’estrazione di denti o l’incisione di ascessi. Talvolta anche la ricomposizione delle fratture. Dobbiamo immaginare che l’ambiente allora fosse un ricettacolo di batteri: d’altra parte l’importanza dell’igiene non era una cultura diffusa.

Salasso antico
Un salasso praticato da un barbiere: illustrazione del secolo XIII

Con il passare del tempo, delle varie attività mediche affidate al barbiere, il salasso divenne quella più importante e diffusa. Si trattava di un servizio vero e proprio, operato quotidianamente. Ecco allora che per pubblicizzarlo nacque il palo del barbiere.

I medici chirurghi di allora ritenevano il salasso una pratica minore, ben al di sotto del loro status; così per alleggerire i loro oneri, spedivano dai barbieri quei pazienti che ritenevano curabili con un semplice prelievo di sangue.

Una cosa un po’ schifosa

Ai tempi della Londra medievale, ogni barbiere esponeva fuori dalla sua bottega dei boccali pieni zeppi del sangue dei clienti. Era il loro modo di attirare l’attenzione del pubblico.

Venne emanata una legge nell’anno 1307 che ordinava quanto segue:

[…] nessun barbiere sarà così temerario o ardito da mettere sangue nelle finestre.

Oltre ad essere poco gradevole alla vista dei più sensibili, tale legge pose fine a una pratica poco igienica che poteva facilmente essere veicolo di trasmissione di malattie.

{ Permettetemi una battuta: esso fu probabilmente il primo esempio di marketing virale della storia! }

La stessa legge impose ai barbieri di disfarsi del sangue prelevato, portando i contenitori fino al Tamigi, dentro al quale sarebbero stati lanciati.

La nascita del palo colorato

L’associazione dei barbieri cercò allora un simbolo meno cruento per comunicare il proprio diffuso servizio. Fu così che si iniziò ad usare il palo a strisce.

Palo, pomo e strisce: il significato dei simboli

Il palo richiamava simbolicamente l’asta che veniva data al paziente perché la stringesse durante il salasso; stringendo l’asta con la mano il braccio rimaneva ben teso orizzontalmente, e le vene risultavano ben visibili come conseguenza dello sforzo.

Il pomo in bronzo del palo indicatore richiamava invece la forma del vaso in cui il sangue del paziente veniva raccolto.

Barber Pole Palo del barbiere pomo di bronzo
Il tipico pomo di bronzo del palo del barbiere

Le strisce rosse avvolte a spirale riprendevano esteticamente l’abitudine di avvolgere le garze insanguinate intorno al palo; dopo l’utilizzo durante il salasso venivano fatte asciugare al sole in quel modo.

Salassate

Nel linguaggio comune si usa il termine salassata indicando un esborso consistente di soldi. Si usa ad esempio per indicare il conto salato di un ristorante; oppure una cifra alta di tasse pagate; o una bolletta molto cara relativa alle utenze di gas o luce. E così via.

La declinazione in ambito economico del salasso porta facilmente a visualizzare come il prelievo di sangue sia trasposto metaforicamente in quello di denaro.

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Madonna Rucellai https://cultura.biografieonline.it/madonna-rucellai/ https://cultura.biografieonline.it/madonna-rucellai/#comments Fri, 11 Mar 2016 11:35:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17296 http://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/Duccio di Buoninsegna (1255 – 1319) trovò, nella sua naturale inclinazione indocile, il fertile campo in cui sviluppare le prime innovazioni della pregevole arte toscana, in particolar modo senese e fiorentina, degli ultimi anni del Duecento. La “Madonna Rucellai” (1285) rientra nella produzione “primitiva” universalmente valutata come lo snodo fondamentale per comprendere un’ arte complessa, placcata di una ricchezza bizantina nell’ampio raggio di una nascente arte gotica.

Madonna Rucellai - dettaglio
Madonna Rucellai (o Madonna dei Laudesi) – dettaglio della Madonna con il bambino

Realizzata in un primo momento per la cappella della Confraternita dei Laudesi, conosciuta un tempo come Cappella Bardi, raggiunse la cappella Rucellai nel 1591, per fissare per sempre il proprio appellativo a quello della nota famiglia fiorentina.

La tavola è attualmente custodita nella Galleria degli Uffizi dove, in presenza della “Maestà della Santa Trinità” (1290 – 1300) di Cimabue e della “Maestà di Ognissanti” di Giotto (1310).

La ”Madonna Rucellai” contraddistingue in valore e intensità un periodo tediato da equivoci di forma interpretativa, molto spesso provocati dalla mancanza di precisi riferimenti storici e dalle convinzioni fin troppo radicate nell’erudito mondo accademico.

La pala Rucellai ha il potere di riportare anche lo spettatore più inesperto alla cognizione di una fase fondamentale dell’arte italiana, quale momento primordiale da cui si irradiò l’ascendente e l’autorevolezza della cultura duecentesca, verso i confini sempre più ampi della nascita di un’arte gotica e infine rinascimentale.

Maestà di Ognissanti - Giotto
Maestà di Ognissanti (Giotto)

Genesi del dipinto “Madonna Rucellai

La Madonna col Bambino e sei angeli” riversa gran parte delle problematiche interpretative nel bacino più complesso della collocazione – ormai superata – nell’ampio margine d’appartenenza a uno dei massimi protagonisti della grande rosa d’artisti senesi e fiorentini della fine del XIII secolo, svincolando la ricerca dalle boriose indagini volte a stabilire i trascorsi e le mete passate della pala lignea che, indiscutibilmente e certamente, subì delle sorti favorevoli e facilmente inquadrabili in un preciso tessuto cronologico e geografico.

La “Madonna Rucellai” fu commissionata a Duccio di Buoninsegna dalla Compagnia dei Laudesi di Santa Maria Novella, a Firenze. Dopo la realizzazione, del 1285, venne spostata dalla cappella Rucellai, nel transetto destro, simmetricamente posta rispetto alla cappella Strozzi di Mantova.

Madonna Rucellai (Duccio di Buoninsegna)
Madonna Rucellai (Duccio di Buoninsegna) – Tempera su tavola, 450×290 cm. E’ collocata presso gli Uffizi di Firenze, in una sala scenografica assieme alla Maestà di Santa Trinità di Cimabue e alla Maestà di Ognissanti di Giotto.

Note tecniche e descrittive

Vasari ricorda come la tavola si presentasse

“qual opera […] di maggiore grandezza, che figura vi fusse stata fatta insin e quel tempo”,

ovvero come la tavola più grande conseguita fino a quel momento.

La divina rappresentazione risentì fortemente della meticolosità cromatica e descrittiva del gotico francese, assumendo una posizione di emergente risalto rispetto alla maniera bizantina: le tenui gradazioni dell’acceso cromismo senese, nell’insieme delle esatte pieghette dei drappeggi, conferiscono quella profondità essenzialmente nuova e lontana dal prezioso e piatto oro della lumeggiatura ad agemina.

Nella tavola, la cornice viene elevata dal suo modesto ruolo decoratore a parte integrante della pala lignea, figurandosi al pubblico nella preziosità dell’oro e della minuziosità incredibilmente realistica dei clipei raffiguranti alcuni personaggi biblici e certuni santi domenicani, compreso San Pietro Martire, il fondatore dei Laudesi.

La Madonna spicca nell’eterna luce di un ambientazione divina e incorrotta, nel trono in tralice evoca l’affetto per l’infante Redentore attraverso un gesto che non si esprime nella movenza ma nella sua inviolata natura.

Il mantello dal blu fosco e adornato dall’oro e nella sua bellezza esaltato dalla luce divina che, in un incredibile accorgimento tecnico, fa emerge una profondità del tutto nuova grazie all’espediente del ginocchio sporgente.

I sei angeli, in una posa irrealistica, appaiono inginocchiati al fianco del Vergine in evidente contrasto con la soluzione adottata da Cimabue.

Maestà della Santa Trinità - Cimabue
Maestà della Santa Trinità (Cimabue)

Influenze e differenze

La “Madonna Rucellai” fu ritenuta per ben tre secoli opera di Cimabue poiché essa rappresenta il massimo punto di vicinanza tra i due artisti. Nel dibattito sulla reale paternità della “magna tabula” è

“sì, opera di Duccio, e non di Cimabue, ma Duccio è uno scolaro, anzi un “creato”, di Cimabue” (CARLI).

Se è dunque vero che l’influenza di Cimabue sia stata indiscussa e consistente sulle componenti della cultura di Duccio, appare in ogni caso evidente l’enorme divario tra i due protagonisti dei Duecento fiorentino e senese: la “Maestà di Santa Trinità” di Cimabue (1280), nella sua severa solennità, esclude ogni possibilità di una maturazione in senso gotico, la “maniera” verso la quale era già nei primordi orientato il bizantinismo di Duccio.

La controversia sull’autore: un approfondimento

I vaghi ricordi documentari assegnati al pittore senese, tributarono un percorso accidentato e lacunoso, ostacolando, di fatti, una ricostruzione accurata del periodo antecedente il 1278 e di ciò che costituì il tessuto biografico e l’eredità, in termini concreti di capolavori, lasciata ai posteri.

E’ dunque vero che, in questo cammino a ritroso sui sentieri della ricerca filologica, è stato possibile assolvere l’arduo compito di riparare ai danni di una falsa attribuzione, che per secoli aveva indotto chiunque si affacciasse sul mondo della storia dell’arte ad attribuire la ben nota “Madonna Rucellai” al fiorentino Cenni di Pepo, Cimabue (1240 – 1320).
Un errore arroventato dall’aggravante di un responsabile noto e celebre: Giorgio Vasari (1511 – 1574).
Nel trattato “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori” (1550), nel profilo biografico consacrato a Cimabue, Vasari cita quest’ultimo come chi

“Fece poi per la Chiesa di Santa Maria Novella la tavola di nostra Donna, che è posta in alto fra la cappella de’ Rucellai e quella de Bardi da Vernio” (VASARI).

Vasari nella biografia dedicata a Cimabue procede nell’analisi della pala lignea, riconoscendo nel suo autore la perspicacia nel aver saputo combinare la maniera bizantina (“greca”) a quella moderna.

L’attendibilità della falsa assegnazione vasariana fu inoltre suggellata da un curioso aneddoto: il biografo riferisce che la creazione di Cimabue colpì così tanto l’interesse “de’ popoli di quell’età” che re Carlo il Vecchio d’Angiò, passando dall’orto presso cui soleva dipingere Cimabue, lusingò il pittore della sua visita; l’arrivo del re spinse tutti gli uomini e le donne di Firenze ad ammirare la pala “con grandissima festa e la maggior calca del mondo“. L’allegrezza decretata da una così nobile visita e dall’entusiasmo di un’opera così eccellente portò ad intitolare il borgo con il nome di “Borgo Allegro“.

Nel 1790 venne pubblicato il primo documento di allogazione attestante il vero autore della “Madonna Rucellai“: la divulgazione del testo in forma aggiornata non riscosse nessun interesse in ambito culturale, tant’è che la tavola continuò ad essere assegnata a Cimabue anche in seguito alla ripubblicazione del Milanesi nel 1854.

La questione ritornò in auge nel 1899 grazie all’erudizione del viennese Franz Wickhoff (1853 – 1909), per rifinire nuovamente nell’oblio con la riaffermazione dell’ipotesi legata a Cimabue o ad un ipotetico “Maestro della Madonna Rucellai“, definito come seguace di Duccio sotto l’influenza di Cimabue o come un seguace di Cimabue sotto l’influenza di Duccio.

La rivendicazione si concretò solo nel 1930, quando il tedesco Curt H. Weigelt dimostrò inconfutabilmente che la tavola del 1285 era opera di Duccio di Buoninsegna, avendovi riconosciuto nella cornice il ritratto di San Pietro Martire, fondatore della Confraternita dei Laudesi da cui Duccio ricevette la commissione.

Note Bibliografiche
E. Carli, I maestri del colore – Duccio, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1963
G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832 – 2838

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Chrétien de Troyes https://cultura.biografieonline.it/chretien-de-troyes/ https://cultura.biografieonline.it/chretien-de-troyes/#comments Wed, 17 Feb 2016 16:56:08 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16611 Chrétien de Troyes (1135 – 1190) è annoverato tra i più celebri esponenti della poesia francese medievale, una notorietà legata indubbiamente alla produzione di opere letterarie acutissime e non prive della prodigiosa combinazione eroica – erotica responsabile della nascita delle leggendarie cronache del romanzo cortese – cavalleresco del cosiddetto “ciclo arturiano“, ovvero dell’insieme delle rielaborazioni, in chiave enfatizzata, delle grandi leggende e dei secolari miti celtici dati alla luce dal cuore delle rigogliose isole britanniche tra l’anno 1000 e il 1492.

Chrétien de Troyes
Chrétien de Troyes

La vita di Chrétien de Troyes risulta purtroppo ben poco definita in quanto in gran parte ricavata dalle antiche quanto brevi introduzioni che precedevano i suoi capolavori: operò nella corte di Troyes tra il 1160 e il 1180, sotto la protezione di Maria di Champagne, per poi essere accolto successivamente nella corte d’Alsazia di Filippo I (1143 – 1191), conte di Fiandra, tra il 1175 e il 1190.

Chrétien de Troyes scrisse canzoni d’amore alla maniera dei trovatori e cinque romanzi:

La vera storia di Re Artù

Nel V secolo d.C. le invasioni barbariche misero duramente alla prova la stabilità dell’Impero Romano d’Occidente. Nel tentativo di frenare l’ondata distruttiva dei Visigoti verso Roma intorno al 410 d.C. , l’esercito Romano decise di abbandonare la Britannia e di riunirsi ai contingenti già presenti nella penisola italica.

Un capo tribù di nome Vortigern insorse e si proclamò re del Britannia, osteggiato dai Pitti, nel 433 d.C. chiese il supporto di orde di mercenari sassoni per rafforzare il suo esercito.
Incapace di saldare i debiti contratti con i mercenari, Vortigern fu privato di vaste porzioni di territorio, possedimenti che vennero riconquistati solo grazie all’intervento del comandante romano Ambrogio Aureliano.

Alla morte di Vortigern, il fratello Uther Pendragone aveva rilevato il trono. Uno dei suoi comandati più impavidi si chiamava Artorius, il leggendario Re Artù.
Fu proprio per merito di Re Artù che “i Sassoni vennero contrastati nel modo più fiero grazie ad una serie battaglie, l’ultima delle quali, lo scontro di Monte Badon del 518 d.C.” (WILSON).
Dopo aver trascorso gli ultimi anni della sua vita a cercare di riunire il suo popolo, Artù morì per mano del nipote Mordred nella battaglia di Camlann.

Il corpo senza vita di Re Artù venne seppellito nella vecchia isola di Avalon, l’attuale Glastonbury e “poiché il luogo della sepoltura doveva necessariamente restare segreto per impedire ai Sassoni di profanare la tomba, nacque la leggenda secondo cui Re Artù era ancora vivo e pronto ad aiutare il suo popolo in caso di bisogno” (Wilson).

Il Graal

Sono poche le storie a perdurare nel mito e la storia del Graal è una di queste. La figura del Graal comparve per la prima volta nel Perceval di Chrétien de Troyes, dove viene presentata ai lettori con le sembianze di un piatto incastonato di pietre preziose, ma secondo la teoria più nota, anche grazie alla fama dei Templari, non sarebbe altro che una coppa che in un primo momento venne usata dal Messia per celebrare il sacramento eucaristico, e che in seguito venne impiegata da Giuseppe di Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo dopo la crocifissione.

Indiana Jones e il Graal
Harrison Ford in una celebre scena del film “Indiana Jones e l’ultima crociata” in cui regge il Sacro Graal.

Attribuire una funzione o una forma al Graal è del tutto impossibile; Dan Brown nel suo Codice da Vinci la individua nell’utero di Maria, identificandosi non più come mero oggetto ma come scrigno umano del corpo e del sangue di colui che avrebbe redento il mondo.

Secondo leggende più antiche il Graal sarebbe una pietra caduta dalla corona di Lucifero durante lo scontro tra bene e male, mentre di recente lo storico Daniel Scavone ha ipotizzato che il Graal fosse in realtà la Sacra Sindone, in quanto oggetto legato alla morte di Gesù e che forse era entrato in contatto con il sangue del Redentore.

La ricerca del Graal non è legata marginalmente al ritrovamento di un oggetto, ma ad essa si accompagna “una rivelazione esoterica riguardante i misteri più alti della fede“.

Note Bibliografiche
C. Wilson, D. Wilson, Il grande libri dei misteri irrisolti, Newton & Compton Editori, Roma, 2005
G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Paravia, Torino,1994
R. Villari, Storia Medievale, Editori Laterza, Roma, 1975

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Perceval o il racconto del Graal https://cultura.biografieonline.it/perceval-graal/ https://cultura.biografieonline.it/perceval-graal/#comments Wed, 17 Feb 2016 16:48:15 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16804 Il titolo originale francese di “Perceval o il racconto del Graal” è Le Roman de Perceval ou le conte du Graal: si tratta di un poema incompiuto, opera di Chrétien de Troyes, scritto all’epoca delle crociate, collocabile storicamente tra il 1175 e il 1190 circa. Il committente fu Filippo I d’Alsazia, conte di Fiandra.

Perceval o il racconto del Graal
Perceval o il racconto del Graal

Perceval o il racconto del Graal: la trama

Perceval viene allevato dalla madre Herzeloide nella solitudine di una sperduta foresta, nel tentativo di tenere il figlio lontano dal pericolo delle armi ed evitando che si realizzi la sorte invece toccata al padre Gamuret e al fratello, morti entrambi in battaglia. Perceval incontra per caso quattro cavalieri dalla luminosa armatura e dopo aver affrontato un combattimento giunge alla corte di Re Artù, dove diventa cavaliere, rendendo vani tutti i tentativi fatti dalla madre per proteggerlo.

Viene educato alla vita di corte dal vecchio Gurnemanz, pertanto grazie al suo coraggio ottiene in sposa la bella Kondwiramur.

Mentre si accinge a ritornare dalla madre, già morta a sua insaputa, ha la visione del Graal, il calice che aveva raccolto il sangue di Gesù Cristo crocifisso. Poiché si credeva che tale reliquia sarebbe stata ritrovata solo da un cavaliere puro, Perceval decide di partire alla ricerca del Graal.

Dopo varie peripezie raggiunge il castello del Graal, ma purtroppo non avendo chiesto le ragioni dell’infermità del Re Anfortas perde l’occasione di diventare Re del Graal.
In preda allo smarrimento provocato dal fallimento e dalle accuse di Kundrie, la messaggera del Graal, vaga senza meta per molti anni prima di tornare finalmente alla corte di Re Artù, qui si ricongiunge con la sua famiglia e ritentando l’impresa del Graal diviene infine Re.

Analisi del testo

In 25 mila versi, il Perceval, vede come protagonisti i cavalieri della tavola rotonda di Re Artù, i quali realizzano il fine della quête affrontando avventure straordinarie in un mondo dalle connotazioni fiabesche e ricco di magia. Il superamento degli ostacoli conferisce perfezione ed ardimento all’eroe, difficoltà che permettono di conquistare l’amore della dama.

Come osserva Auerbach: “Lo stile diventa realistico, appena si tratta di rappresentare la vita elegante dei castelli; l’alta società feudale dell’epoca viene descritta come viveva, o come desiderava vivere“.

Chrétien de Troyes, traduttore dell’Ars Amandi di Ovidio, si configura come “l’artista della psicologia amorosa […]. La teoria dell’amore cortese voleva la donna come signora assoluta dell’amante che aveva nei suoi confronti un rapporto di servitù e vassallaggio, anche se la donna non manifestasse attenzione verso di lui; ammetteva l’adulterio, anzi le teorizzava come l’unica vera forma di amore disinteressato. Sembra che Chrétien de Troyes non condividesse fino infondo questa teorizzazione, tanto che in Erec e Enide e nell’Ivano celebra l’amore coniugale” (Baldi).

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La musica nel Medioevo: breve storia della musica medievale https://cultura.biografieonline.it/musica-medievale/ https://cultura.biografieonline.it/musica-medievale/#comments Mon, 14 Dec 2015 18:39:19 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=15877 Il Medioevo è un’epoca ricchissima di musica. Si tratta di un periodo che dura quasi mille anni, che va dalla fine del V secolo d.C. fino al XV secolo. In questo articolo approfondiremo proprio il tema della musica medievale dal punto di vista storico. La musica nel Medioevo, come vedremo, subì varie evoluzioni dando vita a numerosi generi, soprattutto religiosi, ancora oggi studiati ed interpretati.

Musica nel Medioevo
Miniatura del XII secolo (conservata presso il Cleveland Museum of Art, Ohio, USA). Papa Gregorio Magno detta i suoi canti a un monaco benedettino.

La funzione della musica nel Medioevo

In questo periodo, la musica non assume però il significato di oggi; la musica medievale, come quella antica, aveva una funzione pratica: suonare per accompagnare il lavoro, per accompagnare una battaglia o un banchetto, e ancora, una festa o una celebrazione. La musica veniva improvvisata oppure composta per delle occasioni particolari, destinata quindi ad essere eseguita una sola volta e perciò non veniva scritta per tramandarla. Motivo per cui della musica medievale non rimangono molti documenti, ad eccezione della musica sacra destinata invece a durare nel tempo.

La musica medievale: la musica religiosa

Questo genere di musica aveva anch’essa uno scopo: dare importanza alla preghiera, arricchirla. I testi di questi canti si ispiravano a quelli biblici ed erano perlopiù parlati. Solo dopo il IV secolo si diffusero altri tipi di musica religiosa, tra cui l’inno.

L’inno, il canto religioso e il canto gregoriano

L’inno rappresenta una forma di canto religioso, nato in Asia minore nel II – III secolo. La sua diffusione in Occidente si ebbe appunto a partire dal IV secolo, in particolare grazie a Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, che compose alcuni inni ancora oggi famosi e cantati nella chiesa milanese. Destinati ad essere eseguiti dai fedeli, gli inni dovevano quindi essere facili da cantare. Il testo era composto da versi suddivisi in strofe, musicate con la stessa melodia.

Nel frattempo, in Occidente, si era sviluppato il canto religioso, prendendo caratteristiche differenti a seconda della regione. Roma si ispirava infatti alla musica ebraica e greca. Alcuni pontefici a Roma, tra i quali Gregorio I Magno, revisionarono i canti liturgici.

Dal canto religioso romano si sviluppò il canto gregoriano, che prese il nome proprio da Gregorio Magno, e si diffuse in Italia e in Europa. Il canto gregoriano si basava su un testo latino, che era appunto la lingua ufficiale della chiesa, ed era monodico, ovvero tutti cantavano la stessa melodia. Veniva usato per le cerimonie religiose.

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Canti cristiani e preghiere vennero suddivisi, a partire dal IV secolo, nei riti dell’Ufficio (momenti di preghiera e canto recitate dai monaci durante la giornata) e della Messa (la forma liturgica più importante della chiesa cattolica).

Dopo l’anno Mille, superata la paura della fine del mondo, si assistette a dei cambiamenti: dalla vita economica a quella politica, ma anche mutamenti si verificarono nella mentalità, cambiando il modo di pensare e anche di esprimersi della gente. Fu il periodo in cui gli artisti non si rivolsero più soltanto a Dio, ma anche al mondo terreno. Nel contesto della musica medievale, tale mentalità influì anche sulla musica sacra, portando alla nascita di due nuove forme musicali: il dramma liturgico e la lauda.

Il dramma liturgico

Per quanto riguarda il dramma liturgico, nelle principali ricorrenze, quali il Natale o la Pasqua, venivano allestiti nelle chiese delle rappresentazioni teatrali che si ispiravano ai testi sacri, dove i fedeli partecipavano in veste di attori. Questi drammi venivano cantati in latino, lingua che il popolo non capiva più, tanto che si arrivò anche nelle chiese a cantare musiche in lingua parlata.

La lauda

La lauda nacque invece nel XIII secolo ad opera delle confraternite di laici francescani. Si tratta di un canto di lode che veniva cantato dai confratelli durante le processioni in onore di Gesù, della vergine o dei santi. Era articolata in strofe, che venivano eseguite a volte da un solista, alternate da un ritornello, con il testo in volgare.

La nascita della polifonia

Continuiamo il nostro excursus sulla musica nel Medioevo: in Francia, già dal IX secolo, il canto gregoriano si trasformò, sovrapponendosi a un’altra linea melodica, che veniva improvvisata, che si accostava alla prima: era l’inizio della nascita della polifonia (letteralmente: molti suoni). Questa pratica si sviluppò soprattutto nelle cattedrali.

Interno della Cattedrale di Chartres (Francia)

È il XII secolo, quando a Parigi, nella cattedrale di Notre-Dame, nasce una scuola polifonica grazie a due musicisti: Leoninus e Perotinus, che scrivono le prime composizioni polifoniche, chiamate “organum” e “discantus”. Sono musiche a due o più voci, quindi era necessario calcolare la durata dei suoni ed è così che nacque la notazione “mensurale”.

La musica nel Medioevo: la musica profana

Poco dopo l’anno Mille si sviluppò la musica profana, che prese il via soprattutto in Francia ad opera di poeti musicisti, che componevano poesie e le musicavano. Erano nobili, feudatari, cavalieri e dame che si dilettavano a comporre: essi non erano musicisti di mestiere. Prendevano il nome di trovatori o trovieri a seconda della zona in cui abitavano. Perlopiù erano poesie d’amore.

Guillaume de Machault
Illustrazione di un manoscritto parigino del 1350 che ritrae Guillaume de Machaut (a volte indicato come Machault), a destra. Machaut riceve la Natura che gli offre tre dei suoi figli.

Nel 1300in Italia e in Francia si sviluppò un movimento musicale denominato “Ars nova” (arte nuova), che tendeva a valorizzare la musica profana. Il maggiore esponente fu Guillaume de Machaut. A lui si deve la prima messa intera in stile polifonico composta in occasione dell’incoronazione del re Carlo V il Saggio (che avvenne nel 1364).

La musica nel Medioevo vede il territorio italiano come protagonista di questo periodo: Firenze fu infatti il centro del movimento della musica profana: qui le composizioni si modellarono sui testi e sui ritmi della poesia di Dante, di Boccaccio, di Petrarca. Una testimonianza della produzione di musica fiorentina di questo periodo è data dal codice Squarcialupi, che prendeva il nome da Antonio Squarcialupi, organista al servizio di Lorenzo il Magnifico. Si tratta, in sostanza, una raccolta di manoscritti di composizioni di autori del Trecento.

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